Storia di She Squat, l’occupazione femminista nata insieme al G8 di Genova | Rolling Stone Italia
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Storia di She Squat, l’occupazione femminista nata insieme al G8 di Genova

20 anni fa, mentre a Genova si teneva il G8, a Milano un gruppo di ragazze decideva di occupare una villetta liberty e faceva la storia del femminismo italiano

Storia di She Squat, l’occupazione femminista nata insieme al G8 di Genova

La palazzina in cui aveva sede She Squat oggi. Foto via Google Maps

A due mesi dal G8 di Genova del 2001 a Milano un gruppo variegato di ragazze decise di occupare una villetta liberty in via Gnocchi Viani 2, accanto al giardino Stendhal, che fu in seguito intitolato a una personalità molto distante rispetto alle ragazze, ossia Vincenzo Muccioli. Loro infatti erano e sono tutte fiere antiproibizioniste. Il risultato fu She Squat, uno squat femminista la cui storia si intreccia con quella del G8 di Genova, anche solo per essere il prodotto della stessa temperie culturale.

Dagli anni novanta le ragazze protagoniste di questa storia militavano nei centri sociali milanesi. Qualcuna abitava al Metropolix e qualcun’altra militava al Deposito Bulk e qualcun’altra al Leoncavallo, dove si godeva di autoformazione tanto quanto di concerti memorabili, come quello dei Public Enemy del 1999. Si erano incontrate quasi tutte alla RASC, la Rete autogestita studenti e collettivi. Erano circa una decina e altre si unirono. Non tutti i loro nomi e cognomi sono tipicamente italiani. Ora hanno professioni diverse, ma sono ancora variamente impegnate nella trasformazione sociale e culturale. Due di loro ci hanno raccontato cosa ha significato She Squat nel proprio percorso personale.

Per Titta Cosetta Raccagni, artista multidisciplinare e regista che si definisce art worker «quelle dei centri sociali esistenti erano esperienze formative per tanti versi, ma c’erano due aspetti deteriori: il maschilismo imperante e la gestione verticistica. Se non avevi un incarico preciso come referente di un gruppo, difficilmente ti sentivi a tuo agio nel prendere parola, a meno di essere già stata accettata in quanto fidanzata di un militante. In più, in quegli anni non si metteva in discussione il genere, e l’omofobia era diffusa anche nei centri sociali. Ne soffrivo, perché avevo relazioni con donne e nei centri sociali non se ne parlava, pur di non rischiare una discriminazione palese, che invece avveniva in modo subdolo». 

Si stava formando un gruppo chiamato Le Frocie, un nome scelto a prescindere dall’orientamento di ognuna. «La loro mailing list mi incuriosiva. Ci siamo frequentate e ci siamo chieste come sottrarci o come combattere dall’interno quelle dinamiche. She Squat è stata la risposta, alla luce del sole, di giorno. Finalmente parlavamo liberamente. Le Frocie hanno fatto dei sopralluoghi, e abbiamo comunque continuato a frequentare gli altri centri. Trovata una villetta, abbiamo iniziato a organizzare iniziative culturali come presentazioni di libri e serate di musica elettronica. Ecco perché uno spazio in cui prima lavorava un elettrauto era conosciuto con il nome di ElettroGarage. Ci hanno suonato le Pornflakes Queer Crew, la prima band queer di Milano, con cui abbiamo legato, e di cui faceva parte Dafne Boggeri, artista multidisciplinare oggi nota nel collettivo Tomboys Don’t Cry». She Squat fu una meteora, ma anche il tramite tra femminismi: c’era quello dell’Università delle donne e c’era il transfemminismo, nonostante quest’ultimo termine ancora non fosse di uso frequente. 

Un altro incontro fondamentale fu quello con le Sexy Shock di Bologna, formatesi anche loro in quell’anno, per le quali “L’unica legge è quella del desiderio”, come scrissero in un manifesto che spiegava il senso dei loro laboratori su sessualità e genere, sui sex toys, sulla violenza, sull’interruzione di gravidanza. Dal loro impegno nacque Betty&Books, un collettivo di donne che aprì un sexy shop femminista all’insegna dell’ironia.

L’occupazione di She Squat durò circa dieci mesi, poi puntualmente arrivò lo sgombero. L’ElettroGarage durò qualche mese in più, perché «trattando con la proprietà, ossia il Pio Albergo Trivulzio, e la questura, tramite avvocate, ottenemmo di poter continuare a fare delle iniziative, senza però occupare. La casa fu murata e oggi lo è ancora. Si presentarono con dei frati, esibendo letteralmente una famiglia in grave difficoltà per convincerci a lasciare, ma quella famiglia poi non ebbe nulla. Un operaio sottopagato dormiva nella casa affinché non rioccupassimo»

Nata a un mese dal G8, She Squat fu anche un luogo di elaborazione del lutto per Carlo Giuliani e della ferita di Genova, attraverso postazioni per il montaggio audio e video di materiale girato in quei giorni anche da chi frequentava la Pergola, un altro centro sociale milanese. 

«Con la morte di Carlo Giuliani diventammo ovviamente meno spensierate. Genova fu la perdita dell’innocenza e la fine di un’era. Fu una violenza, ma allo stesso tempo la nostra casa fu un rifugio e un modo per non disperdersi, perché c’era necessità di stare insieme ed elaborare. Volevamo documentare quello che avevamo visto attraverso i video, ma al contempo era difficile starli a guardare. Se prima come militanti pensavamo di poter mettere in scena il conflitto come rappresentazione, quella del potere invece era stata violenza vera, che ci fece capire quanto potere e violenza siano sempre connessi. Il 2001 costrinse ad un salto dal personale al globale, da She Squat al G8 e poi il crollo delle Torri Gemelle. I giorni di Genova furono uno spartiacque che segnò l’inizio dell’era globalizzata. Negli anni successivi ci furono momenti importanti come la May Day, perciò non considero quella una resa, ma una presa di coscienza. La violenza è sempre presente, in varie forme. Penso ai fatti del Mc Donald’s di piazza XXIV maggio tre settimane fa», quando dei ragazzi afroitaliani sono stati manganellati solo perché tali, come dimostrano le videocamere. E come ha raccontato l’influencer diciottenne Riphuda su Instagram, una ragazza ha riportato una contusione alla testa e una prognosi di guarigione di cinque giorni, un ragazzo è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, un altro denunciato per resistenza a pubblico ufficiale e per aver rifiutato di rivelare la propria identità.

Il femminismo è rimasto per le ragazze di She Squat il riferimento imprescindibile, anche ora che lavorano in ambiti diversi. Dice l’artista: «Nel tempo mi sono decisa a destrutturare l’identità di genere, sono per la disidentificazione, per il rifiuto di qualsiasi binarismo. Mi considero genderfluid, ma mi piace fluire anche come art worker, sperimentando tra le arti.

Per lei ci fu anche l’esperienza, nel 2011, delle Ragazze del porno, collettivo animato da Monica Stambrini, Tiziana Lo Porto, Mara Chiaretti, Anna Negri, Regina Orioli, Titta Cosetta Raccagni, Lidia Ravviso, Emanuela Rossi, Slavina, Roberta Torre, Erika Z. Galli e Martina Ruggeri. «In quell’occasione, a dieci anni da She Squat, realizzai che c’è tuttora da lavorare molto anche a sinistra: è da lì che ho ricevuto i maggiori insulti. Era il periodo in cui veniva contestato Berlusconi per i suoi scandali sessuali e a sinistra molti dimostravano di volersi porre come censori rispetto al corpo delle donne. Anche nei commenti su un quotidiano posizionato come il Manifesto venivamo accusate senza motivo di incarnare la morte del femminismo». Ora Titta prosegue la propria ricerca tra arti performative e arti visuali e guarda con entusiasmo nuove esperienze come la Marciona, risposta transfemminista al Pride ufficiale, ormai svenduto alle multinazionali. «Lì noi di She Squat siamo il grey block!»

Lavinia Hanay Raja fu un’altra fondatrice di She Squat, occupandola anche di notte. Anche vede in quell’esperienza un momento di crescita e di consapevolezza: «Con la studiosa Adriana Nannicini partecipammo a delle formazioni su lavoro e precariato, da cui nacque il suo volume Le parole per farlo, edito da Derive Approdi. Dicevamo di noi stesse che eravamo una ‘cooperativa invisibile’, ci passavamo i lavori e facevamo mutuo scambio di competenze».

Hanay diventò giornalista pubblicista nel 2003. «Allora iniziava il giornalismo online ed io godevo di una formazione esclusiva, quella serale degli hacklab. Non ho mai pensato di diventare programmatrice o sistemista, ma volevo capire il sistema di potere e il linguaggio delle tecnologie. Gli spazi sociali sono stati luoghi di formazione professionale di altissimo livello». E Genova fu fondamentale il ruolo dell’hacking. «All’epoca era frequente l’equazione appassionati di tecnologie digitali = criminali», mentre per noi gli hacker erano militanti dei diritti digitali. Nel 1999 ci fu al Bulk il secondo HackMeeting, un raduno di tre giorni, che sarebbe diventato un appuntamento annuale per le culture informatiche italiane. «Avevo vent’anni. C’erano persone da tutta Italia e da quell’incontro nacque la rete degli hacklab italiani. Nel 1999 i modem andavano ancora a 56K, con la linea telefonica, ma lì si imparava in forma libera a usare GNU/Linux e molto altro. Eravamo raramente più di tre ragazze ai corsi. Sgomberato lo squat, fondammo l’associazione  XXY, come il cromosoma mutante che comprende anche il cromosoma maschile. Gli attivisti politici con cui abbiamo fondato quest’associazione facevano parte di ReLOAd, l’hacklab che prese vita in Pergola nel periodo dopo il G8». 

Appena prima del G8 si forma Indymedia e prende corpo la figura del mediattivista, caratterizzata dall’interesse per l’audiovisivo. «Io lavoravo per il Corriere della Sera, avevo una rubrica dedicata alla Milano underground per ViviMilano. Informatica, politica e tecnologie mi interessavano più del giornalismo. Era in corso una rivoluzione informatica e volevamo farne parte. All’interno dell’esperienza dell’hacklab naque il gruppo di ricerca Ippolita, un piccolo gruppo di studio che porterà alla pubblicazione di un primo libro nel 2005, Open non è free, edito da Eleuthera. Ippolita era un collettivo interdisciplinare dove il sapere informatico veniva passato al vaglio dell’analisi politica e della filosofia. Nacque all’incrocio tra femminismo, hacking e controculture».

Come gruppo di ricerca informale e autogestito ha oggi gli stessi obiettivi: offre formazione su aspetti quali la critica della rete, la pedagogia hacker e l’autodifesa digitale, per tutti. Nel tempo ha contribuito alla divulgazione su queste tematiche firmando volumi che hanno cercato di disinnescare la narrazione dominante della Silicon Valley sulle nuove tecnologie. Titoli come Anime elettriche, Tecnologie del dominio, Luci e ombre di Google sono stati pubblicati da editori anche mainstream e tradotti in molte lingue. Da alcuni anni Ippolita cura la collana Culture radicali per Meltemi editore. «Abbiamo pubblicato testi di bell hooks e importanti autori italiani, come Rachele Borghi (Decolonialità e privilegio), Federico Zappino (Comunismo queer) o Angela Balzano (Per farla finita con la famiglia). E presto un volume di Marco Reggio, attivista antispecista. 

Ma va ricordato che questa spinta è nata negli anni di She Squat, e che al G8 ci fu il Pink Bloc, femminista e queer, «in un’epoca in cui i centri sociali, diversamente da oggi, non si confrontavano con le proprie contraddizioni. Oggi la manifestazione dell’8 marzo è molto partecipata, viene dichiarata zona Fuxia in risposta al susseguirsi irrazionale di aperture e chiusure. Esperienze come She Squat fanno parte della genealogia, insieme a Sexy Shock e Pornflakes, della storia del femminismo controculturale e underground e hanno un valore anche per chi è più giovane. Molte leggono Donna Haraway, che scrive di ecologia e critica tecnologica. La sua prima traduzione in italiano si deve a Feltrinelli, nella collana Interzone curata da Shake edizioni, con un’introduzione di Rosi Braidotti, ma sono stati i movimenti a renderla così conosciuta. ll cyberpunk era politicizzato tanto quanto l’hacking, e l’Italia ha fornito sperimentazioni decisive».

Vent’anni dopo quella condivisione, il mese scorso le ragazze di She Squat hanno organizzato un rito laico, che è stato sia una festa e un’occasione per ritrovare persone e rilanciare nuove parole, sia un momento di raccoglimento e ricordo, informale, «per quei compagni che abbiamo perso in questi anni. Per un giorno ognuno ha potuto utilizzare il muro della casa per fissare in modo spontaneo un nome o un ricordo. Ho pensato in particolare a Melina Miele, attivista del Leoncavallo con cui abbiamo condiviso momenti importanti».

Conclude Titta: «Abbiamo ricordato com’era bello essere elemento di rottura di dinamiche e immaginari che non condividevamo e allora abbiamo sdoganato delle realtà e delle istanze che oggi sono note».