Un paio d’anni fa m’ero messa a scrivere un pezzo sulla tradizione gastronomica della Corea del Sud e del suo difficoltoso incastrarsi con quella italiana. Strano, mi dicevo. Come mai, dato che dall’Oriente siamo già stati più volte conquistati. Dire che avevo trovato una risposta sarebbe una grande esagerazione. Il punto in sostanza era: se siamo già stati invasi dalla cultura coreana, vedasi le serie tv, le band, e l’intrattenimento in generale, com’è che sul cibo proprio non vogliamo cedere?
Sembrava ci fossero differenze di fondo. Cosa che non quadravano, abitudini inconciliabili, sapori che non c’azzeccavano; il piccante in primis. Speculazioni per carità, ma ora, di fronte a quelle stesse questioni, mi verrebbe da indicare una direzione diversa. Vale sempre lo zing veloce di un rasoio di Occam, per cui la spiegazione meno articolata, di solito è quella realistica. Quindi, ma se il fatto fosse sempre stato palesemente davanti ai nostri occhi? Se la spiegazione fosse la stessa di quelle serie tv e film? Funzionano perché ci fanno divertire. Quella parte di Asia si è sempre intrufolata nel discorso pop attraverso la leggerezza. E se anche per il cibo valesse la stessa cosa?
Milano: un coreano all you can eat di barbecue ha aperto all’inizio di viale Monza. Si chiama Yanso, all’entrata ha appesi nel frigo alcuni tagli di carne, e contrariamente a quelli che di solito si infilano in questo ramo della ristorazione, non spiega granché della provenienza della materia e compagnia bella. Basta la scritta: all you can eat Korean barbecue. Quindi vuol dire ordini infiniti, griglia da gestire indipendentemente, carboni ardenti, servizio veloce e preciso, c’è la dimensione dello show, insomma un posto dove andresti con gli amici. I tagli serviti non son per nulla male, e mi vien da lamentare solo la sostituzione di una parte speziata e piccante importante presente nelle salse e nei condimenti vegetali tipici del K-barbecue con una di dolcezza, per farsi più ruffiani al palato occidentale.
Ci tornerei? Sì. Potrebbe far avvicinare qualche profano alla cucina della Corea del Sud e ai suoi ingredienti? Be’, questa dimensione ludica non è malvagia…
Spostiamo il fuoco di qualche chilometro. In Valsassina, nel lecchese, c’è un posto che si chiama Valmadrera. È sul lago di Como, e, lo dico per ridere, pare uno di quei punti geografici perfetti per chi, provenendo dall’estero, voglia assaporare il mito della vita dolce e lenta all’italiana. La quale be’, certo, è una favola bella più che una realtà affascinante. Nonostante tutto, è proprio lì che Erin Eun-Young Kim e Mark Blackwell hanno deciso di trasferirsi, dagli Stati Uniti e dopo essere arrivati a Milano nel 2021, per dare il via a un progetto ambizioso: produrre kimchi, il famoso cavolo fermentato coreano, in Italia. Con ingredienti per la maggior parte italiani, e chissà, magari esportandone anche uno Made in Italy in giro per il mondo. O magari è il solito sogno americano sviluppato dalle nostre parti?
Foto: Savour Duo
To be fair, lo scetticismo potrebbe pure arrivare. Meglio sedersi a tavola con Erin e Mark e dirimere tutto così. Ci incontriamo al Bar Quadronno, autorità milanese in fatto di panini giustamente imbottiti. Per la Design Week di quest’anno, hanno creato insieme un panino speciale, prosciutto di Praga, insalata, pomodoro, formaggio alle erbe e quella che loro (cioè il Quadronno) chiamano “salsa kimchi”. Anni Ottanta? L’avete detto voi, non io.
Comunque il panino spacca. È condito con la prima versione del kimchi di Erin e Mark, quella “classica”, che tra gli ingredienti nasconde una traccia veramente italiana nella pasta di acciuga usata come insaporitone. Bella trovata, per nulla fishy. Questa creatura si chiama, è ben ora di dirlo, Kimchi Pop. Pop perché è il suono che fa il barattolo all’apertura, liberando la fermentazione. E poi pop come la cultura, sia mainstream che quella, appunto, coreana. Hanno forse risolto in un nome il dilemma da cui siamo partiti?
No dài, senza esagerare. Ma Erin, che è una prima generazione statunitense nata da genitori coreani arrivati in America da ragazzi, lo sa: «C’è una grande consapevolezza in Italia di quello che è la cultura coreana. L’intrattenimento è stato un punto di ingresso, e da lì si può arrivare anche al cibo. E quando si tratta di cibo, la prima cosa che si incontra in Corea è il kimchi, per fare un paragone, è l’olio d’oliva dell’Italia. Lo mangiamo a ogni pasto, si potrebbe dire che è il piatto nazionale della Corea del Sud». E infatti si trova come ingrediente in preparazioni più complesse, come accompagnamento al pasto, chi più ne ha, più ne metta. La sua presenza, però, è cosa certa.
Foto: Savour Duo
In Italia, i ragazzi hanno cominciato a fare il kimchi di necessità, in un certo senso. Provano i vari brand, le varie offerte anche artigianali, ma non ritrovano il gusto a cui sono abituati. O meglio, a cui la madre di Erin li aveva abituati. Il kimchi è personale, è uno stile, è la grappa fatta così o colà da mio nonno. Anche se nessuno dei mie nonni ha mai fatto la grappa, vabbè… È tempo speso a preparare una verdura e lasciarla fermentare. «In America abitavamo a New York, non mi davo il tempo di preparare il kimchi a casa. Non ce n’era nemmeno bisogno, a NY puoi uscire di casa e trovare facilmente un ottimo kimchi».
Prima di continuare, un’accortezza lessicale: si parla di kimchi per indicare il processo di fermentazione di un vegetale. Il processo-kimchi prevede il lavaggio della verdura in acqua fredda, la sua salatura, e il condimento con una pasta di spezie a base di peperoncino coreano in fiocchi (gochugaru, lo stesso che usa Kimchi Pop), cipolla, cipollotto, aglio, carote, zucchero, zenzero, farina di riso e acqua. Insomma, questo è il passaggio in cui ci si può sbizzarrire. Poi si pressa il tutto in un contenitore e si lascia che il tempo faccia il suo corso. È un metodo di conservazione e trasformazione. Anche in Italia li conosciamo, sottolii, sottaceti, scapeci. Solo che di solito non utilizziamo il cavolo napa, appunto la base del kimchi più diffuso: il baechu-kimchi.
Il mercato italiano insomma era pronto. Anche perché i fermentati sono entrati a far parte dell’armamentario di base di ogni consumatore che voglia seguire questo o quel trend di “benessere”. Quindi insomma, mettendo insieme questo e quello, e in generale la curiosità del pubblico italiano a provare un prodotto artigianale preparato in loco, ecco qua. Ma se l’idea c’era, era più difficile sviluppare una ricetta non tanto perfetta, ma che (in puro stile italiano) incontrasse il palato della madre di Erin.
Foto: Savour Duo
Mark è il primo fan della cucina della suocera (lui ed Erin sono sposati), e il kimchi è diventato di casa anche per lui. Kimchi e porchetta, kimchi e scamorza, mi dice, passando in rassegna prodotti tipici italiani che lo fanno salivare se pensati insieme al kimchi. «Kimchi e mozzarella!» Arriviamo in breve tempo, pericolosamente, all’idea di una pizza al kimchi. «In realtà, se fai saltare il kimchi in padella con un po’ di zucchero, diventa caramellato e sviluppa un sapore diverso, si fa più croccante e sulla pizza non sta per niente male… In Corea lo fanno!».
Una cartolina illustrata da Erin per Kimchi Pop
Comunque, alla fine, a un ricetta da dieci e lode ci arrivano. Riconoscere un kimchi perfetto non è facilissimo, l’impressione è quella di un inner circle in cui IYKYK – If You Know, You Know. Il segreto, mi pare di capire, è trattenersi, e non strafare con questo o quel sapore. Tutto deve essere ben bilanciato. «Il kimchi dovrebbe essere croccante, ma durante il processo di fermentazione si farà più morbido. Se succede non è un problema. E il sapore complessivo… C’è un grande umami, ma anche freschezza. Dev’essere un equilibrio di queste due componenti. La cosa bella è che cambia con il passare del tempo, e si può usare in diversi stadi di maturazione in preparazioni diverse».
Foto: Savour Duo
Nei loro headquarter dal lago di Como, Erin e Mark gestiscono tutto in prima persona, l’azienda non ha dipendenti. «Siamo i CEO e anche i Chief Dishwashing Officer». Tagliano il cavolo, lo puliscono, lo condiscono, lo mettono via. «Quando facciamo un batch, arriviamo a circa 40 chili di cavolo». Dopo i giorni di fermentazione, il prodotto viene subito confezionato e inviato. Non rimane in giro a lungo, anche perché, non usando conservanti, il consiglio è quello di consumarlo il prima possibile e tenerlo sempre in frigorifero, anche prima di aprire il barattolo.
Ma se tutto si può rendere kimchi, perché fermarsi al cavolo? «Adoro il kimchi di daikon», dice Erin, già lo usano come ingrediente nelle preparazioni, e poi chissà… L’ultima novità, per ora, è quella di una versione vegana di Kimchi Pop, quindi senza la salsa di acciughe (entrambi i formati sono disponibili in due versioni, da 300 o 500 grammi, al prezzo di 9,95 euro e 14,95 euro rispettivamente). Erin si lascia scivolare anche il termine maionese, ma non voglio indagare: in primis, per non spoilerare eventuali prodotti in sviluppo, in secundis perché sarebbe solo peggio, illudermi di poterla comprare a chilometro-poco, nel prossimo futuro.
Foto: Savour Duo
Insomma, dopo tutto questo parlare, io non lo so proprio, se il kimchi stia bene su tutto. Però so che arrivata qui mi sta salivando la bocca e che, appena posata la tastiera, aprirò il frigorifero per divorare probabilmente mezzo barattolo di Kimchi Pop. «Le reazioni degli italiani sono state molto positive, molto meglio di quanto ci saremmo aspettati. C’è curiosità sia in città che fuori. Forse ci avevamo visto bene, pensando che fosse il momento giusto per provare questo prodotto sul mercato».
E se non c’è del ludico nel “pop”, ditemi voi dove si trova. Che sia proprio da questo kimchi che possa svoltarsi il nostro apprezzamento collettivo tiepido verso la cucina coreana? Troppo presto per dirlo. Lasciamolo fermentare e si vedrà. Io, nel mentre, penserò a divertirmi parecchio con questa fermentazione.
