Stefano Bonaga: «Ma quale dittatura sanitaria, la libertà è solo il residuo delle norme» | Rolling Stone Italia
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Stefano Bonaga: «Ma quale dittatura sanitaria, la libertà è solo il residuo delle norme»

Un incontro-lezione con il filosofo bolognese, pioniere della Rete libera e gratuita per tutti, che Vasco Rossi chiama per sapere cosa approfondire e che bacchetta i colleghi su Green Pass e vaccini

Stefano Bonaga: «Ma quale dittatura sanitaria, la libertà è solo il residuo delle norme»

Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images

Se gli chiedi di autodefinirsi, prova a svicolare con una battuta: “Uno sfigato”. Poi ci pensa un attimo e trova una formula all’altezza del filosofo che ha incantato stuoli di studenti (e soprattutto studentesse) e anche Vasco Rossi, che lo chiama spesso per avere consiglio: “Se proprio devo, sono un uomo libero senza meriti”. Di certo è generosissimo, un aspetto verificabile non solo nell’intervista che ci ha concesso. A Bologna, per esempio, ormai tutti i venditori ambulanti del centro lo conoscono bene e, a cadenza fissa, gli si avvicinano sapendo già il risultato: a ognuno allunga qualche spicciolo e, quando ha finito i soldi, lascia addirittura da pagare un piatto di pasta al locale dove stiamo facendo l’aperitivo: “Come si fa a dire ‘arrangiati’ a uno che ha fame?”.

Bonaga non parla, insegna. Tanto che, cosciente della propria loquacità, ammette: “A volte in casa mi rivolgo anche al frigo”. Eppure, risulta difficile smettere di ascoltarlo. Non c’è argomento, situazione o parola che non riesca a trasformare in paradigma di qualcos’altro di affascinante, spiazzante, inconsueto, ma sempre concreto, pratico, verificabile. Filosofo, sì, però dotato di un pragmatismo utile all’interlocutore per non perdere la bussola in vorticosi ragionamenti. Il suo problema, semmai, è di arrivare troppo in anticipo sui tempi.

Gli capitò quando, da assessore all’Innovazione, riuscì a portare internet libero e gratuito ai cittadini bolognesi: primo al mondo con Iperbole nel ’94, purtroppo non ne capirono le potenzialità e ora è poco più di una bacheca informativa. La lista è lunga. Come è ampia la serie di flirt che gli sono stati attribuiti, solo che ci tiene a smentire la nomea di tombeur de femmes: “Sono finito quattro volte all’ospedale da abbandono. All’ultimo ricovero ci ho scritto un libretto”. E ora che la categoria dei filosofi è tornata alla ribalta nella guerra al Green Pass, lui prima lancia una stilettata all’amico Massimo Cacciari: “Mi sembra un ballerino che, fatta la spaccata, non riesce più a tornare in piedi” e poi mette in riga tutti quelli che si riempiono la bocca con la parola “libertà”: “Io non credo nemmeno alla libertà del volere. La libertà sociale è soltanto il residuo delle norme”. Mettetevi comodi, la lezione è appena iniziata.

Come si autodefinirebbe Stefano Bonaga?
Uno sfigato.

Addirittura?
È veramente imbarazzante autodefinirmi. Come scrisse Carlo Emilio Gadda: “…’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!”, ovvero la parolina io è un parassita della vita. Nel volgare gioco delle autodefinizioni potrei dire che sono un uomo libero senza meriti. Un uomo libero ha meriti quando in effetti sacrifica qualcosa in nome della sua indipendenza, come una serie di interessi, passioni o desideri. A me dei soldi, del potere e della popolarità non importa niente, per cui non sacrificando nulla non ho nessun merito di essere libero.

Camillo Langone ti ha definito filosofo peripatetico e allopatico. 
Mi chiedi se mi ritrovo nella definizione di un altro? Lascio a ciascuno la responsabilità delle proprie definizioni. Langone è la persona più intelligente con le idee più sbagliate che conosca, glielo dico spesso. Quando giocavo a basket, e non ero male, se mi dicevano “bravo” quando facevo canestro ero contento, perché in fondo per ottenere un obiettivo nello sport ci vuole anche un po’ di culo, quindi la soddisfazione era anche legata al caso felice. Ma se faccio una conferenza, scrivo un libro o spiego qualcosa e mi dicono “bravo”, ciò mi genera piuttosto agitazione. Più che un “grazie” imbarazzato non so rispondere.

Va bene essere modesti, ma già nel ’94 quando eri assessore all’Innovazione amministrativa della giunta Vitali (1993-1995) riuscisti a creare Iperbole, la prima rete civica al mondo che diede l’accesso gratuito a Internet a disposizione dei cittadini bolognesi. 
Ora è diventata una specie di bacheca informativa, praticamente monodirezionale che serve a poco, infatti quando talvolta mi dicono che sono il padre di Iperbole rispondo che ormai è orfana. Ma scusa, se sai già tutto, scrivila da solo l’intervista.

No, no… ti stimolavo soltanto a parlarne. 
Forse è l’unica cosa interessante e utile che ho fatto nella vita. Iperbole ha ricevuto un sacco di premi e riconoscimenti, compreso il G7 Award per il miglior progetto di tele-democrazia mondiale. Comunque, contemporaneamente, in un saggetto che scrissi e che si chiamava La Nave dei Folli terminai con la frase: “Scorrerà sangue sulla Rete”. Avevo già le idee chiare, e quando uscì il libro Essere digitali di Nicholas Negroponte, testo che lo consacrò come profeta del web, e nel quale egli parlava della Rete come di una nuova tecnologia, io mi permisi di dirgli che non si trattava di una nuova tecnologia, ma di un nuovo mondo. Molti anni dopo è arrivato Beppe Grillo che ha proposto la Rete come uno spazio autolegittimantesi, mentre va da sé pensare che quaranta cretini che scrivono in Rete rimangono quaranta cretini, senza rete.

Sei troppo avanti.
Me lo dicono spesso e la cosa mi deprime. Feci anche con Franco Bifo Berardi Orfeo TV, ai tempi di Berlusconi, un esperimento di autonomia della trasmissione utilizzando le zone buie delle frequenze già acquistate da altri, come risposta attiva al monopolio. Ho fondato anche la Sezione Zero del Partito Democratico prima che esistesse il Pd, e perfino un gruppo che si chiamava Citoyen, nel senso della cittadinanza attiva del 1789 francese. Tutto ciò è prima o poi fallito, ecco perché mi dichiaro serenamente uno sfigato, almeno a livello progettuale. Diciamo che, un giorno, facendo sincera autocritica, mi dissi che quando regali ai politici, essi sono diffidenti perché non ti tengono sotto controllo. Quando invece entri nella logica dello scambio, entri a far parte di un gioco paritetico. Avrei quasi certamente ottenuto più risultati concreti se avessi accettato questa logica, ma mi dissi che in qualche modo il mio temperamento, o forse l’orgoglio, mi impedivano di farlo, quindi, potrei perfino dire: un’autocritica equivoca.

Non ti consideri neanche un filosofo, solo un docente di filosofia. Non ti sembra di esagerare con la modestia?
Mi fai venire in mente quando a 21 anni andai a Parigi per una borsa di studio grazie a tre lettere di presentazione che mi scrissero, bontà loro, Michel Foucault, Gilles Deleuze e Louis Althusser, sul quale mi ero laureato a Bologna. Cominciavano tutte così: “Cher philosophe…”. Mi veniva da ridere, poiché ero solo un ex studente di filosofia… D’altra parte è vero che nel mondo anglosassone chiamano filosofo chiunque si occupi di filosofia, o poco più. In effetti, rispetto ai miei criteri, di filosofi ne nascono più o meno due o tre ogni secolo.

Qual è la tua personale classifica dei filosofi che ami di più?
A parte Spinoza, un vero diamante della filosofia, dei più recenti Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein e Deleuze, hanno suscitato in me una vera e propria metamorfosi del pensiero. Naturalmente Marx, per primo, in giovinezza, mi ha cambiato la vita.

C’è qualcuno dei viventi ascrivibile fra i pochi filosofi di questo secolo?
Penso a Peter Sloterdijk, ma fra quelli che proprio ti stravolgono la vita non me ne vengono in mente molti. Il mio criterio personalissimo prevede l’incontro di un pensiero o di un essere umano che ti cambia radicalmente il modo di pensare. A me è accaduto anche con Niklas Luhmann e la sua teoria dei sistemi aperti, un modello che rimane un fondamentale paradigma della mia riflessione politica sulla società complessa.

Nella seconda parte della pandemia i filosofi sembrano scatenati. Da Cacciari ad Agamben, fino ad alcuni giovani come Filippo Dellepiane, fondatore degli Studenti contro il Green Pass, o la ragazza che a Bologna ha bloccato le lezioni. 
Con Massimo Cacciari siamo amici da quando abbiamo 18 anni e gli voglio molto bene. Mi hanno chiesto di andare in tv per dargli addosso e ho rifiutato. A lui risponderei con una metafora gentile: mi sembra come un ballerino che fatta la spaccata, non riesce più a tornare in piedi. Mi permetto di pensare che se potesse tornerebbe almeno un po’ indietro.

Cacciari e Agamben hanno denunciato che “lo stato di emergenza diventa stato di eccezione”.
Non mi sembra il caso di parlare di stato di eccezione per un documento utile a garantire la salute degli altri. Se vogliamo inventarci delle dittature la lista sarebbe infinita, infatti è assurdo pensare a una libertà onnipotente, senza norme sociali. Certo ci possono essere delle norme sbagliate, ma non hai, come dice Paolo Becchi, il diritto di ribellarti. Semmai hai la potenza di ribellarti e dunque ti assumi la responsabilità della tua ribellione. Per cui, non puoi chiedere che sia riconosciuto dalla norma il tuo diritto a trasgredirla. Se fai la rivoluzione è chiaro che i governanti di quel paese non ti concedano il diritto di ribellarti secondo le norme.

BStefano Bonaga e Massimo Cacciari. Foto di Mario Carlini – Iguana Press/Getty Images

E tu non mi sembra che intenda ribellarti al Green Pass.
È vero che il Green Pass, la soluzione disponibile più ragionevole, non è perfetta, però, in politica come in medicina, devi fare la diagnosi, scegliere la terapia e pensare alla prognosi. Per essere enfatici, Marx aveva fatto la diagnosi del capitalismo, trovato la terapia nella rivoluzione proletaria e pensato al comunismo come prognosi, al di là che sia più o meno utopica. Ma se fai solo una diagnosi allarmista su un fenomeno fisiologico come un pass che ti impedisce di infettare gli altri, quale sarebbe poi la terapia? Qual è la loro soluzione? Far circolare tutti dove vogliono con il rischio di aumentare i contagi? È sconfortante persino parlarne.

Eppure, c’è chi lo considera il primo passo verso una dittatura. 
Se prendono a pretesto il Green Pass come sintomo del controllo di un governo planetario della finanza e della tecnologia, mi sembra semplicistico e perfino ridicolo. Se poi arrivano alla mitologia complottista, con Agamben che parla di nazismo e della stella di David per gli ebrei, passa la voglia di discutere. Mi domando fino a quando possiamo continuare a inseguire i fantasmi fobici di chiunque?

La questione è più psicologica che giuridica?
I fantasmi fobici sono una malattia, non un diritto. Uno non ha il diritto di sostenere che i vaccini non funzionano quando tutti i dati confermano che funzionano. Se vuoi rimanere in società, pur non vaccinandoti, devi accettare le autolimitazioni che le tue fobie comportano. Per cui non vai a teatro, nei bar, allo stadio, in discoteca. Posso rispettare qualsiasi fobia come malattia, ma non si può pensare che le istituzioni le riconoscano o addirittura le ricompensino. O ti curi o ti autolimiti.

Tanti filosofi eccedono nel coltivare il dubbio?
In realtà il dubbio è una premessa teorica, non è mai pratica. O ti porta all’immobilismo, cioè alla paralisi del comportamento, oppure ti comporti comunque nonostante tutto. Cartesio quando mette in discussione il mondo con il “genio maligno”, alla fine anche se non è sicuro che quello che sta mangiando è veramente una pera, ricorre a Dio ma la mangia per continuare a vivere. Non è che si ferma come l’asino di Buridano che non fa più niente nell’equivalenza del dubbio. Il dubbio è una premessa metodologica, nella pratica è sempre la decisione di comprensione che implica l’azione.

E qui entra in gioco il docente di filosofia. 
Lascia stare. Comunque, anche se sul vaccino hai dei dubbi, o ti vaccini o non ti vaccini. Una delle due cose la fai. E se non ti vaccini il tuo dubbio è risolto, perché ti comporti come se non funzionasse. Tutto il resto sono forme astratte, retoriche, infantili di una specie di autonomia del pensiero che si basa sull’assolutismo del dubbio, che è una sciocchezza, oppure una visione idealistica della libertà, che non esiste, come diritto all’onnipotenza di agire.

Nelle piazze i manifestanti invocano “libertà, libertà, libertà”. 
Io non credo nemmeno alla libertà del volere. È semplice, perché il volere libero presuppone un atto divino, cioè che si crei qualcosa dal nulla, compreso il pur minimo piccolo gesto. Per cui, invece di pensare che la libertà sia la condizione della potenza, bisogna abituarsi a chiamare “libero” tutto ciò che posso fare. Quando mi trovo a poter fare quella cosa, allora mi trovo libero, se non posso farla non lo sono. Per quanto riguarda la libertà sociale, essa è il residuo delle norme. Quello che rimane fuori dai vincoli. Se poi ho la potenza di trasgredire le norme, allora questo riguarda la potenza, non certo la libertà. Non esiste una società senza norme, le quali servono da sempre a mantenere l’equilibrio sociale e la salvaguardia dei soggetti. Detto questo, ora hai le premesse per esercitare la tua libertà sociale e andare dove vuoi, ma le premesse sono che tu ti vaccini. Se non ti vaccini non puoi andare dove vuoi, perché sottoponi gli altri a un rischio. Non è difficile, anzi è così semplice che è difficile capire come tanti non lo capiscano.

Ai giovani filosofi, a cui si possono concedere delle attenuanti, cosa diresti?
Di smetterla di pensare a questa forma di presunzione retorica e idealistica di essere in qualche modo i detentori del pensiero libero, quindi di un pensiero in tutte le direzioni, mentre comunque il pensiero è vincolato dal linguaggio, dalla logica, per Kant dal trascendentale. L’unica libertà assoluta è quella spinoziana di Dio “causa sui” (“causa di sé”), cioè Deus sive Natura (“Dio ossia la Natura”) come espressione della potenza: tutta la libertà che ha la natura è funzione di ciò che essa esprime.

In tutto questo, la politica ha soffiato sul fuoco? 
Ha cavalcato questa roba in funzione antigovernativa o per tornaconto di parte, soprattutto la destra e la destra estrema e anche un po’ una certa sinistra estrema, mentre la sinistra e il centro sono stati dalla parte della prudenza, che non vuol dire dalla parte dell’efficacia assoluta, semmai dell’efficacia possibile nelle condizioni date.

Ha ancora senso parlare di destra e sinistra? 
Se parliamo di valori è vero che la destra ne ha assunti alcuni, almeno verbalmente, che appartenevano tradizionalmente alla sinistra, come il lavoro e la giustizia sociale. Con l’eccezione dei temi della famiglia multiculturale, dei migranti e ancora in parte dell’Europa, il linguaggio è sempre più simile. Ma a livello di paradigmi le differenze sono inconciliabili. Il modello della sinistra concepisce una società in cui tutti i cittadini sono coinvolti nel processo di auto-formazione, iniziative di partecipazione attiva e controllo. Il modello della destra invece dice: votatemi, dunque delegatemi al potere e poi state a casa. Ma quando la gente sta a casa non può che esercitare identificazione o sottrazione dalla figura del capo e dunque esperire la variabilità delle preferenze psicologiche insieme all’impotenza. E siamo ai casi di Renzi, che ha svuotato il Partito e riempito se stesso e di Salvini, che lo ha reso personale, fortunatamente forse ancora per poco.

Quali sono le conseguenze?
Che stiamo perdendo quel processo di mobilitazione della cittadinanza attiva che ha fatto sì, ad esempio, che un Paese sconfitto ha vissuto nel 1946, distrutto dal punto di vista edilizio, sociale, economico e psicologico, negli anni ’60 ha vissuto un boom economico con il Pil più alto d’Europa. Ciò è stato possibile non solo grazie al Piano Marshall, distribuito anche ad altri Paesi, ma anche soprattutto grazie alle parrocchie e alle sezioni di partito, che favorivano la partecipazione nei processi verso una consapevole dignità di cittadinanza. Sono stati organismi utili a far progredire la maturazione e la riflessione democratica e culturale. Se i corpi intermedi si volatilizzano non a caso risalta solo la cosiddetta offerta politica, non a caso espressione commerciale, che viene facilmente sostituita di volta in volta da un’offerta politica più interessante in modo randomizzato. E la gente su questa base compie delle scelte in funzione delle prospettive, necessarie ma non sufficienti, di consumo di beni e servizi, sacrificando partecipazione, iniziative, condivisione e appartenenza. Quindi è sempre più facile incappare in enormi sbalzi di consenso, nell’impotenza strutturale.

Tu hai capito la matrice degli assalti alla sede della Cgil di Roma?
Probabilmente Salvini ora chiederà tutto il girato dei film di Richard Gere, visto che è stato chiamato a testimoniare al processo Open Arms, come la Meloni lo aveva chiesto a Fanpage. Ma quell’inchiesta era chiarissima, con gente eletta in quei partiti che frequentava persone tra saluti romani e progetti su come affondare le navi dei migranti. Di cosa hanno bisogno ancora per dire che sono forme di collusione più o meno consapevoli? La matrice degli assalti alla Cgil l’hanno capita tutti, indipendentemente dalle responsabilità dirette.

Collusione con i neofascisti?
Non penso che la Meloni sia informata di tutti gli incontri dei suoi iscritti, ma su quel terreno ci ha sempre marciato. Sono movimenti non solo italiani, ci sono i neonazisti in Germania, Vox in Spagna e altri. Se glielo dici ti fa la battuta, un po’ d’accatto, che “non c’è più il fascismo”. Certo, Mussolini, la Petacci e i vari gerarchi non torneranno, ma le parole d’ordine e i comportamenti, la prepotenza, l’esclusione, il razzismo auto-dichiarati, spesso orgogliosamente, ci sono ancora. Come diceva Umberto Eco è il “fascismo assoluto”, immanente in tutte le società. Se però lo fai notare alla Meloni sai come risponde?

Come?
Che lei è nata nel 1977. Ma cosa vuol dire? È come se ti chiedessi di parlarmi dell’America e tu mi rispondessi “veramente è stata scoperta nel 1492 e io sono nato nel 1983”. Davvero ci si può confrontare soltanto con le cose che ci sono state da quando sei nato? Ci potremmo divertire a pensare alla quantità di paradossi implicati da una logica del genere.

Potrebbero farti notare che a Milano, rispetto a Roma, le manifestazioni sono state “animate” da anarchici e autonomi che sono di estrema sinistra. 
A Roma è stato un atto fascista in sé, con l’assalto e l’irruzione nella sede del sindacato. A Milano hanno provato ad andare di fronte alla Cgil, dove potevano anche solo manifestare. Uscendo da questa divisione, però, mi sembra chiaro che se prendi a pretesto il Green Pass come simbolo di un processo di militarizzazione della società, di una dittatura emergente, puoi trovare qualsiasi tipo di pretesto per compiere gesti estremi. Il capitalismo è una vergogna non perché i governi propongono il Green Pass, ma per lo sfruttamento degli umani, la precarietà del lavoro, l’inadeguatezza della sanità pubblica e tutta una serie di altre questioni molto più reali e profonde.

La sinistra riesce a rispondere a tutto questo? 
Ho detto altrove, in una critica disperata, che il Pd è un tassista senza taxi. Un partito che parla di sé e delle alleanze possibili e non parla mai della nuova funzione che dovrebbe avere in una società complessa o come dicono i sociologi “funzionalmente differenziata”. Nella società non c’è più una stratificazione di interessi omogenei, ormai esistono contraddizioni e complicazioni all’interno di ogni strato. Un esempio estremo all’interno di esperienze apparentemente omogenee. Prendiamo ad esempio due operai di catena di montaggio. Uno che lavora vicino alla fabbrica, con la casa di proprietà e un figlio che studia. L’altro che è pendolare, abita in affitto e ha il figlio disoccupato. Come li rappresenti in termini classici sull’abitazione, l’istruzione, i trasporti?

Sono qui per chiederlo a te.La mia premessa è che siamo di fronte all’impotenza della politica, di cui tutti gli altri problemi sono epifenomeni, cioè derivati. Il partito a livello legislativo, cioè di Parlamento, rappresenta ancora qualcosa. Ma a livello di società non ha più la forza di sviluppare tutto il potenziale che si trova attorno. Per questo dovrebbe occuparsi prima di tutto della sua nuova funzione, che non è soltanto quella di rappresentare, ma anche quella di comporre e far crescere la società nella sua autonomia. Senza dimenticare che 4-5 milioni di italiani che fanno politica direttamente sui corpi dei bambini, degli anziani, dei poveri e dei migranti con il volontariato non sono neppure citati nel vocabolario dei partiti. O pensiamo qui a Bologna l’università composta da 100mila studenti quanto potenziale di creatività, cultura, iniziativa, dinamismo potrebbe esprimere sollecitando un rapporto di alleanza sulle iniziative e sull’autonomia. Anche perché gli studenti non sono soltanto dei consumatori di servizi, sono anche dei cittadini. E invece si fa appello, e neppure sempre, a questi ragazzi solo quando serve che vadano a votare.

A Bologna avete avuto l’esperienza delle Sardine ma, a parte in chiave antileghista alle regionali, non mi pare abbiano creato un vero movimento in grado di rigenerare i partiti.Sulle Sardine mi tocchi nel vivo!

Qual è la tua diagnosi al momento?
La vera rivoluzione delle Sardine, il più interessante fra i movimenti di protesta negli ultimi quarant’anni, è consistita nel non lamentarsi come al solito del fatto che “la politica è lontana dai nostri bisogni” ma di sostenere che “la politica ha bisogno di noi”. Cioè della potenza dell’impegno dei cittadini. E ora veniamo a cosa è accaduto dopo. Se l’elezione del leader delle Sardine Mattia Santori a consigliere comunale è stata una scelta personale indipendente dalla filosofia del movimento, allora è anche accettabile. Se, invece, fosse interpretata come l’esito naturale del modello delle Sardine apparirebbe scoraggiante, perché la sostituzione di un vecchio politico con un giovane politico sarebbe da considerare un vero e proprio tradimento di quel paradigma.

Visto che si parla tanto anche di referendum sulla cannabis legale, mi è rimasta impressa una tua frase che hai detto qualche anno fa in tv: “Nessun popolo si è mai estinto per colpa della droga”. Sei un sostenitore della legalizzazione?
Ho partecipato a una manifestazione a favore del referendum e, siccome l’accusa alle droghe leggere è legata agli effetti psicotropi, ho detto: “Ragazzi, la vita è psicotropa!”. Qualunque evento modifica la psiche: il freddo, il caldo, l’innamoramento, la fame, un incontro, una delusione. Eppure, con la cannabis non muore nessuno. Al mondo di pericoloso ci sono solo due elementi: il cosmo e l’uomo.

Torniamo alle lezioni di filosofia?
Macché, è banale dire che nessun “oggetto” è pericoloso in sé, bensì è il suo uso che lo può diventare. Se mi infilo una forchetta in un occhio sono uno scemo, però nessuno si sognerebbe di abolire le forchette. In questo caso sarebbe “posata male”, per fare una battutaccia. Una canna al giorno non fa nulla, se te ne fai quindici succede qualcosa. Nessuno muore per overdose di canne, come invece accade con eroina e cocaina. La legalizzazione permetterebbe almeno di ridurre il potere della malavita. Sulla frase “nessun popolo si è mai estinto per colpa della droga” mi riferivo all’uso che le popolazioni antropologicamente intese hanno sempre fatto delle droghe, cioè sapevano come usarle perché le società sane si autotutelano, non vanno all’autodistruzione. Il rapporto sano con la droga è di conoscenza e di educazione sui temi nei termini di “se… allora…”, come tutti i ragionamenti logici. Sai che foto ho in casa?

Sono curioso. 
La foto di un amico steso a terra con trenta chili di pane attorno e la didascalia: “Morto di pane”. Feci una mostra con questi scatti con oggetti di uso comune che usati male possono danneggiarti e non per questo vengono aboliti.

Avrai seguito il dibattuto sull’uso della schwa o degli asterischi, al posto della desinenza maschile, per definire un gruppo misto di persone e rendere il linguaggio più inclusivo. Hai la stessa idea anche sulle parole, cioè che è l’uso a renderle pericolose? 
È una discussione comica, perché è nella pratica che si discrimina. Se dico: “Quello è proprio un frocio” è discriminatorio. Se invece dico a un amico: “Vieni, vecchio frocio” è affettuoso. Per metterla su un piano un po’ indeterminato, e chi vuole intendere intenda: questo dibattuto dovrebbe prendere atto della prospettiva dei giochi linguistici di Wittgenstein: che gioco linguistico stiamo facendo? Non dipende dunque dalle parole usate in sé, ma dal gioco linguistico implicito nella comunicazione.

Sai che se cerchi su Google “Stefano Bonaga” fra i primi risultati salta fuori un articolo che si intitola La filosofia serve per scopare? 
Come tu sai non possiamo impedire agli imbecilli a distanza di esercitare la loro imbecillità pettegola. Se l’utente in questione me l’avesse detto in faccia gli avrei regalato un lecca-lecca e un grembiulino rosa a quadretti.

Qual è il tuo rapporto con le donne?
Che sono finito quattro volte all’ospedale da abbandono. Al quarto ricovero ci ho scritto un libretto che si intitola Sulla disperazione d’amore.

Ma come, sei considerato un tombeur de femmes. 
Che dire dei consideratori, anche questi sono inarrestabili. Consiglierei loro, qualora insistessero, di definirmi piuttosto un tombé par le femmes. Sono loro che mi fanno cadere, piuttosto. Quel libretto mi ha creato anche dei problemi, perché Carlo Feltrinelli si era arrabbiato visto che non ho voluto presentarlo. Se uno scrive di politica, filosofia, di qualche tema pubblico va bene, ma una cosa così intima rimane fra chi lo ha comprato e lo legge, non serve aggiungere altro.

È vero che Vasco Rossi ti chiama per parlare di filosofia? 
Ci sentiamo spesso e mi chiede consigli e poi studia da solo. Infatti, all’ultima conferenza stampa sul nuovo album ha parlato della gettatezza heideggeriana, cioè che l’uomo è gettato nel mondo. Vasco impara in fretta. Legge testi originali, Kant, Hegel e perfino Lacan, e infatti mi ha anche chiesto di presentargli Massimo Recalcati.

Non sarai lo spin doctor filosofico di Vasco?
Pensa che tempo fa uscì una sua intervista su varie colonne del Corriere della Sera dove parlava di Nietzsche con grande cognizione e adeguatezza. Allora mi chiamarono alcuni giornalisti: “Dica la verità, l’ha scritta lei”. E invece non sapevo neanche l’avesse fatta. Quando gli consigliai Spinoza, anni fa, mise sul palco di un suo concerto un cartello enorme che recitava “il potere rende tristi”, che è una frase spinoziana. Non si direbbe al primo impatto che è così colto, perché lui tende in qualche modo a sottrarsi a un linguaggio alto a favore di un linguaggio dell’immediatezza. Sembrerebbe un sempliciotto di Zocca, ma in realtà è tutt’altro. È un lettore molto raffinato e vorace, infatti mi chiede in continuazione dei libri per approfondire i temi che lo appassionano.

Rimanendo alla musica, eri molto amico anche di Lucio Dalla. 
Lucio era fantastico, attento e curioso di tutto. È stato importantissimo per la mia giovinezza, ma su di lui preferisco tacere.

Manca solo che ti chieda di che segno zodiacale sei.
Sai cosa rispondo a chi me lo chiede?

Era una battuta, ma a questo punto.
Aragosta ascendente garage! Non credo agli oroscopi, non li leggo neanche per sbaglio. Hanno fatto un esperimento a Cambridge durato dieci anni con 20mila persone dello stesso segno zodiacale e alla fine non è stata dimostrata nessuna correlazione fra loro. Quando mi chiedono il segno zodiacale mi alzo e me ne vado. E ti anticipo, non ho mai fatto il trenino a Capodanno e non mi sono mai mascherato nemmeno da bambino, così come non festeggio i compleanni.

Neanche il compleanno? 
Quando avevo 11 anni ero già disperato di compierne 12. Si avvicina la morte, cosa c’è da festeggiare?

Al tuo epitaffio almeno ci hai mai pensato? 
Non ci ho mai pensato, ma se dovessi sceglierei una frase di Totò: “Muoiono sempre gli stessi”.