Più che “cibo dell’anima”, il Soul Food è il cibo della resistenza. È una tradizione gastronomica nata dalla sofferenza e dall’oppressione e che si è trasformata, piatto dopo piatto, in un potente strumento di rivendicazione culturale e orgoglio identitario. Non è solo cucina: è un racconto corale che parla di radici, ingiustizia, comunità e riscatto. È la storia, ancora viva, del popolo afroamericano.
Nata nel Sud degli Stati Uniti durante i secoli bui della schiavitù, questa cucina, fatta di ingredienti frugali, si è sviluppata come risposta alla necessità: utilizzare quel poco che veniva concesso, e quel poco che si riusciva a trovare dalla natura circostante, per poi trasformarlo in una fonte di sostentamento e nutrimento, ma soprattutto in simbolo. È così che piatti oggi conosciuti largamente come il pollo fritto, i collard greens (vegetale in foglie della famiglia dei cavoli) o la sweet potato pie (torta di patate dolci) sono diventati parte di un’eredità collettiva che affonda le proprie radici in una memoria storica, fino ad arrivare sulle tavole contemporanee. Il soul food è cosi consolidato nell’individualità e unicità della popolazione afroamericana, che molto spesso prende corpo nella musica e nella letteratura, assumendo le caratteristiche di un linguaggio culturale.
Questo quello che racconta Maya Angelou nel libro Hallelujah! The Welcome Table: a Lifetime of Memories with Recipes, dove fonde e amalgama la sua autobiografia insieme ad alcune ricette, sottolineando come il cibo “soul” è stato spesso rifugio e conforto. Un modo per sopravvivere fisicamente, ma anche per resistere emotivamente, una cucina di appartenenza che ha legato in modo viscerale una intera comunità di persone.
«È una tradizione che nasce da una grande sofferenza» spiega Ilaria Vitale, che insieme al marito William Mustafa Jr, nativo della Georgia, uno degli Stati americani dove si è diffuso questo tipo di cucina, organizza all’interno del Laboratorio di Antropologia del Cibo (LAC), a Milano, brunch mensili a tema Soul Food. «Ma racconta anche di una comunità che è riuscita a riscattarsi, trasformando il cibo in uno strumento di affermazione e dignità».

Ilaria Vitale e William Mustafa Jr. al LAC di Milano. Foto: cortesia
Prendiamo per esempio le arachidi. Durante le traversate oceaniche, erano spesso l’unico alimento concesso agli schiavi. Venivano date agli animali, ma furono proprio quelle noccioline a salvare molte vite. Introdotte nel XVIII secolo, si diffusero grazie alle conoscenze agricole degli africani deportati. Nel tempo, divennero un pilastro della cucina americana anche grazie al contributo dell’agronomo afroamericano George Washington Carver, che comprese quanto le arachidi potessero rigenerare i terreni esausti dalla coltivazione intensiva del cotone, tossica non solo per il terreno, ma anche per le vite delle persone. A lui si deve l’invenzione di decine di derivati, tra cui il celebre burro d’arachidi, oggi immancabile in tutte le cucine americane. Una sorta di comfort food, un rituale che viene condiviso da tutta la famiglia.
Nonostante sia una cucina secolare, il termine “Soul Food” entrò nel linguaggio comune negli anni Sessanta, durante la stagione dei movimenti per i diritti civili, e fu grazie al poeta e attivista Amiri Baraka. Nel 1962, infatti, pubblicò un saggio dal titolo Soul Food, sottolineando come questa tradizione gastronomica fosse distintiva della comunità afroamericana definendola lui stesso patrimonio culturale. In quel preciso momento storico, valorizzare questa cucina significava affermare un’identità, rendere visibile una cultura che per anni era stata marginalizzata e bistrattata.
Poco conosciuta in Italia, con il tempo negli Stati Uniti sono stati aperti molti ristoranti a tema. Attualmente, infatti, non è più solamente appannaggio degli Stati del Sud, ma si è diffusa in modo capillare in varie parti degli Stati Uniti, soprattutto nel quartiere di Harlem, a New York. Tuttavia, nonostante la divulgazione avvenuta da parte di chef professionisti, il Soul Food resta, ancora oggi, profondamente domestico. Le sue ricette si tramandano di generazione in generazione, e ogni famiglia porta una propria interpretazione con un unico ingrediente o meglio sapore in comune: l’utilizzo di zucchero anche nei piatti salati, come sottolinea Ilaria Vitale, specificando che per i suoi brunch riproduce le ricette della nonna del marito. «Ogni famiglia ha le sue versioni, ma ovunque si percepisce la stessa idea: il cibo è un collante affettivo e sociale, qualcosa che unisce e guarisce».

Foto: cortesia
Uno degli alimenti simbolo è il cornbread, pane di mais che omaggia l’incontro tra cultura afroamericana e nativa americana. Era il pane dei campi, il pasto portato dagli schiavi al lavoro. Nelle case dei bianchi, invece, era il contorno. Beyoncé lo celebra addirittura nella sua Formation: «I like cornbread and collard greens». Si vocifera anche che la pluripremiata artista, ogni volta che va in un ristorante, si porti dietro la sua hot sauce, un condimento molto piccante tipico di questa tradizione.
Altro elemento imprescindibile, come sottolinea Beyoncé, sono i collard greens, cavoli a foglia larga, cucinati per secoli nelle case afroamericane. Furono una delle poche verdure coltivabili durante la schiavitù e rappresentano il legame diretto con le tecniche culinarie africane originarie. Anche Barack Obama li mangiò la sua prima sera alla Casa Bianca, un gesto politico che probabilmente ha voluto coronare lo stanziamento di una nuova cultura in un luogo-caposaldo della cultura americana “bianca”. «In Italia», racconta Ilaria, «non si trovano facilmente, cosi li abbiamo sostituiti con il cavolo nero».
Il vero re della tavola però è il pollo fritto, noto anche come gospel bird, il piatto per eccellenza della domenica. Le sue origini risalgono alla cucina scozzese, ma furono gli afroamericani del Sud a trasformarlo in un’icona, arricchendolo con spezie e migliorando le tecniche di frittura. È il cibo delle feste, delle riunioni di famiglia, delle funzioni religiose. «Dopo la messa, dopo il gospel», precisa Vitale, «nelle comunità afroamericane si condivide il pranzo dove ogni famiglia porta qualcosa, si mangia tutti insieme in una sala piena di cibo. E poi, prima di andare via, le mamme e le nonne ti riempiono la doggy bag per la cena della sera o per il pranzo del giorno dopo».
A chiudere ogni pasto c’è la sweet potato pie, la torta alla patata dolce, uno dei dessert più identitari del soul food. La patata dolce è un surrogato dello yam africano, un tubero carico di significati simbolici, diventato oggi emblema di potere culturale. Non è un caso che Kendrick Lamar lo celebri in King Kunta, cantando: «What’s the yam? The yam is the power that be». Per molte famiglie afroamericane, questa torta non è solo un dolce: è un pezzo di casa, una dichiarazione d’appartenenza.
Il soul food è molto più di un insieme di ricette. È una cultura affettiva ed emotiva, una forma di memoria viva che continua a raccontare la storia di chi ha lottato, resistito e trovato nel cibo una via per affermare la propria esistenza. Ancora oggi, ogni boccone, ogni assaggio è un atto di celebrazione e di libertà.