Rolling Stone Italia

Viviamo in un mondo di logorroici?

Nella nuova puntata della rubrica/dialogo a due by Robertini & Piccinini per ‘Rolling’: la nuova serie di Salmo, 'Fame chimica', il situazionismo dei P38, Raffaele Alberto Ventura, Guia Soncini e la cancel culture

Foto: Gabriele Micalizzi/Mig

GR: Ti scrivo dalla Milano del Blocco 181, la nuova serie Sky, quella con Salmo, l’hai vista? È un racconto molto anni Novanta, forse troppo, ci sono le pandillas, le gang dei latinos, e le case popolari dei quartieri Barona, Lorenteggio e Giambellino, più mala meneghina post Turatello e Vallanzasca che banlieue da rapper. C’è la Milano da bere e da pippare dei festini alla Genovese, i galoppini con le buste di coca nei cartoni della pizza a domicilio danno un tocco di attualità e l’immagine di Berlusconi su altarino votivo in stile santeria sudamericana che fa capolino nella sigla – fichissima! – sembra benedire dall’alto ogni traffico illecito, sia droga che di sentimenti. Le baby gang in minuscolo o in maiuscolo non c’entrano nulla, così come per ora – ma ho visto solo le prime puntate – mancano all’appello le sfilate di moda e la tribù dei trapper della Milano di oggi dove solo le sneakers da cinquecento euro, ai piedi sia dei business men che dei pusher, rappresentano il vero coefficiente di coesione sociale, altro che bamba. Insomma, per il mercato italiano una serie così è già qualcosa ma non vedo grandi novità tra il mondo de L’Odio di Kassovitz e quello di Blocco 181. Ti dirò di più, la prima cosa che mi è venuta in mente guardandolo è Fame chimica, film cultissimo di quasi vent’anni fa – era il 2004 – di Vari e Bocola che fotografava le piazze e la socialità di strada prima dell’arrivo dei social. E infatti, scorrendo i titoli di coda della serie con tanto di pezzo nuovo di Gué, leggo che uno degli autori del soggetto è proprio quel Paolo Vari. Tutto torna.

AP: Fame chimica, cosa m’hai ricordato! Ti devo correggere perché il film per me fu una mezza delusione, ma il primo mediometraggio di Antonio Bocola-Paolo Vari del 1997, ultra low budget, quello sì che era una bomba atomica. Penso di averlo visto a Milano al Filmmaker, cinema pienissimo di futuri creativi, tu non c’eri? Ora è su YouTube, coi colori brillanti e i sottotitoli inglesi. A mia memoria era la prima volta che lo slang di strada milanese aveva la sua ribalta: i ragazzi dicevano «fai te», «robbosi», «cash», «andatoammale», «smazzare». Sembrava Scorsese e De Niro. In confronto ad oggi sembrano le scuole elementari, ma quello fu uno dei primi semi. Language is a virus, diceva il vecchio Williams Burroughs sempre citato a proposito e sproposito. La trap italiana, credo, dovrebbe fare un monumento ai robbosi di Fame chimica.

GR: Ripensavo a Baby Gang, quello vero. C’è un suo featuring nel nuovo album di Ghali, il pezzo si chiama Drari che in marocchino vuol dire “ragazzi”. E ascoltando il rapper di origini tunisine alla conferenza stampa che dice che Baby Gang gli ricorda la fatica che ha fatto quando era più giovane per affermarsi, che «se uno come lui commette uno sbaglio paga il doppio degli altri» e che è «una vittima del degrado, mentre i colpevoli stanno più in alt0», ho pensato che di questa new wave della drill/rap/trap dove «shisha è il nuovo sushi» (cit. da Drari) Baby Gang e Ghali rappresentano lo yin e lo yang, poliziotto buono e poliziotto cattivo. Da un lato Rondo da Sosa, Neima Ezza, Vale Pain, Baby Gang e il loro immaginario street di passamontagna, rapine, spaccio e Baise la police, dall’altro le sfilate di Parigi, la casa alla mamma e l’universo tropical manga di Ghali. Hai capito? Armi di difesa e di offesa, cyber war e trincee con granate, vedila come una strategia di auto-affermazione e conquista del mercato, ai primi il pubblico dei ventenni, al secondo i bambini e i loro genitori…

AP: Giusto, il pubblico di riferimento. Ma anche lo sguardo. L’immaginario. Le canotte ispaniche di Blocco 181, per dire, che rapporto hanno con la canotta gaia di Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli? Ma senti qua. L’altra sera in un teatro di Roma ho visto lo spettacolo di Edoardo Ferrario, stand up ormai di un certo culto e anche di più grazie alla Rete e ai podcast. L’avevo visto nei piccoli club, ma lì è tutto più semplice. Lo spettacolo stavolta era il pubblico: universitari, trentenni benestanti, probabilmente della Luiss (che non è la Bocconi, ma ci insegna Orsini, fai te), molte coppie, qualche aspirante incel, ragazzi perbene con la camicia i jeans il casco, di un ottimismo profumato e primaverile romano, già quasi vacanziero. Ferrario-boys. Uguali a lui. Che tenta di tenere alto il livello del discorso. Impara la filosofia dal suo ferramenta cinese, va d’accordo col padre boomer, ironizza con affetto sulle prediche ai matrimoni dei suoi coetanei, si sposa, prende un cane, si prende molto in giro. È ammirevole in questo. Più che Louis CK, ormai roso dalla voglia di vendetta, è il figlio e il marito della figlia che tutti i molto boomer vorrebbero avere. Anzi, ero talmente ottimista sulle sorti del paese e sull’umanità della nostra futura classe dirigente che a un certo punto ho schiacciato un pisolino. Ci sta. Ci sta.

GR: Ma hai visto che al festival Mi Ami, il Lollapalooza dell’it-pop, non suoneranno i P38, la rap band emiliana accusata di istigazione al terrorismo? Certo, sul palco si esibivano con una stella a cinque punte simile a quella delle Brigate Rosse e la figlia di Aldo Moro li ha denunciati perché cantano «zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una R4», però una volta che li hai invitati falli suonare lo stesso, no? Questa smania di togliere di torno tutto quello che dà fastidio non la capisco, e sto semplificando. Che poi c’è del situazionismo, i P38 giocano col fuoco e con Deleuze, come quando in Primo Comunicato cantano «Non siete rapper/siete degli imprenditori del cazzo/Noi abbiamo letto Gramsci, stronzi/Vogliamo tutto».

AP: Una volta si diceva “nipotini delle Br”. Questi mi sembrano nipotini dei Cccp, semmai. Poi adesso che c’è il film di Marco Bellocchio saranno nipotini di Bellocchio?

GR: Dobbiamo approfondire, ora sono troppo preso con la polemichetta Twitter della settimana: lo scrittore Raffaele Alberto Ventura va alle Iene a parlare di cancel culture e Guia Soncini lo sfancula. Tu da che parte stai? Io credo che maschi etero bianchi boomer come noi non abbiano nessun diritto di parlare di cancel culture, tantomeno alle Iene.

AP: Io penso che viviamo in un mondo di logorroici. Rapper, stand up comedian, ospiti di talk show, predicatori religiosi, predicatori semplici, motivatori, psicologi, bestselleristi dello star bene. Pure Ventura e Soncini. Tutti si sentono in diritto di poter dire qualsiasi cosa con ogni mezzo. Kendrick Lamar ci ha fatto un disco doppio per dire che lui può dire f***, n***, e noi no. Aggiungo tra parentesi che ho tirato un sospiro di sollievo leggendo le quasi stroncature del Newyorker e di Pitchfork, critici entrambi afroamericani, che a Kendrick hanno detto di non prendersi troppo sul serio. Tiè. Ma la questione per me è: tutte queste parole ho il diritto di non ascoltarle? E l’eventualità di una replica? Ecco, sta tutto lì. Comunque, se pensavi che fare un monologo alle Iene tra Mammuccari e Belen incorniciato in quella inquadratura da telepromozione fosse una figata, vabbè, ciao.

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