Viviamo in inglese per essere meno sad | Rolling Stone Italia
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Viviamo in inglese per essere meno sad

Una guida efficace per rendere meno squallida la vostra vita: buttarla sui social, traducendola in un'altra lingua

Viviamo in inglese per essere meno sad

Konrad Bąk / Alamy / IPA

Sui social si fa più evidente la nostra tendenza a mascherare da parole inglesi l’idiozia. Certo, anche nel mondo dei corpi ricorriamo alla taumaturgia delle tronche, alla salvifica nebulosità di una lingua straniera. “Cibo e bibite” suona da bancarella rionale. Se invece ti occupi di Food & Beverage, wow. Fai il commesso, ma ti definisci Retail Store Seller: da scattare sull’attenti. “Ti mando un promemoria” – e tu pensi: “E che sono, rincoglionito?”. Invece: “Ti mando un reminder” – e tu pensi: “Lei mi lusinga, dottore”. ItalExit: su un mondo sbrilluccicante. UscIta: su un parcheggio di provincia. Accettare i “cookies” è diverso dall’accettare che vengano archiviati i nostri dati personali durante la navigazione: biscottini al Grande Fratello, uova burro e distopia. Però con i social network abbiamo il tempo di controllare grafia e sintassi, verba volant, pixel manent: lì le nostre vite arriviamo a tradurle in blocco, nel tentativo di renderle meno pietose.

L’antilingua di cui parlava Italo Calvino, usata da chi crede di sublimare l’ordinarietà della propria esistenza con l’oscurità espressiva, non ricorre più all’ampollosità burocratica da mattinale del brigadiere, ma alla retorica algebrica da didascalia dell’influencer. Le frasi fatte implicano pensieri fatti e i pensieri fatti implicano un destino già scritto. Con gli hashtag, per essere ascoltati, diventiamo echi in diesis di una sinfonia senza autore, replicanti dietro un cancelletto.

Se devi mostrare che sei andato in un posto figo, se per di più vuoi spacciarti per habitué, non puoi accompagnare la foto con “io qui ci vengo spesso perché sono un tipo che conta”: rischieresti di essere preso a sassate appena in strada, o quantomeno di perdere contatti – molto più grave. Quindi ti rifugi nell’anonimato di una frase codificata dalla Rete, e scrivi: “Ibiza is always a good idea”.

Esci con delle amiche che consideri belle, ma tu ti ritieni perfino più bella di loro. Mica puoi scrivere “guarda qua che gruppetto di stragnocche in cui però io sono la più stragnocca di tutte”. Allora posti la foto di voi, tirate da straccia-mutande, con la didascalia: “My friends are better than yours”. E speri nel commento di un morto di figa che, smanettando (con la mano libera) nel traduttore di Google, tiri fuori un “And you are even better then them”: la sera potrai allora auto-scontarti l’ultima serie di squat con la coscienza a posto.

È da un po’ che non vivi situazioni degne di invidia e sei in astinenza da cuoricini. Scorri la raccolta fotografica del tuo smartphone e ti chiedi se questo o quest’altro scatto sarà sufficiente a vincere la pigrizia dei tuoi seguaci per un colpetto di pollice. Non puoi scrivere: “ragazzi, ho bisogno della vostra approvazione ma non avevo nulla di fresco da postare. Vi prego, questa vecchia foto non è male, no?, guardate qui, aiutatemi, un like, vi prego, io ne ho bisogno di questa merda”. Ed ecco a soccorrerti il tbt, acronimo di ThrowBack Thursaday, hashtag nato quando la Rete, questa imbecille, decise che il giovedì era il giorno perfetto per postare foto del passato (e perché non il venerdì dei bulloni, per un pragmatico Bolt Friday, #bf, o un lunedì delle TAC, il Computerised Axial Tomography Monday, #catm).

Ti sei già giocata il numero di selfie che reputi il limite della soglia patologica (naturalmente ti sbagli, sei abissalmente oltre) e quindi devi inventarti qualcosa. Idea! A quel tizio che ti manda in privato le emoticon dei micini e che sotto le tue foto in costume commenta “hai l’anima di un angelo”, scrivi un messaggio: “ti andrebbe un caffè?”. Il tizio accorre, a rimorchio di un’erezione per la prima volta corroborata da una speranza di compimento. Davanti a un ginseng e a un macchiatone in tazza grande gli proponi un autoscatto a due. Quello si stringe al tuo corpo come i cani che stuprano i peluche. Tu cerchi l’angolo che illumini la tua bocca a bacio lasciando lui nelle tenebre che merita. La decenza ti vieta di scrivere “è un caro ragazzo, ma mica me lo faccio, eh, questo cesso”. Così digiti, per dipanare ogni ambiguità sul vostro rapporto: #bff, cioè Best Friend Forever.

Siamo a un passo dal redimere le nostre intere vite da ogni squallore. Però, coraggio, un ultimo sforzo. Ecco tre consigli per completare la nostra mutazione da creature fragili e italiane in creature divine e americane:
Se hai appena scoperto che tuo figlio in realtà non è tuo figlio, ma quello di tuo fratello, stingetevi tutti e tre attorno al test del DNA bello spiegato e leggibile, e commentate i vostri sorrisi ecumenici e pesti per i freschi cazzotti con: #sadbuttrue #mylittlemonster #wearefamily #momstruggles #shedevil #daddysbaby (che ovviamente va raddoppiato con un altro: #daddysbaby).

Se ti licenziano e ti sfrattano, tu esci in strada e, sulla via per la Caritas, con la tua cravatta lisa e la tua barba di una settimana, rimesta nel primo bidone fino a scovare una fetta di pizza, magari condita con un preservativo usato, poi inclina il cellulare in modo che renda una prospettiva panoramica della città, così gravida di nuove chance, e posta con: #foodporn #freeride #wonderlust #newlook #newlife.

Se ti rimangono pochi giorni di vita e sei intubato all’ospedale, chiedi una doppia dose di morfina per riuscire a rizzare il pollice sinistro in un oh, yeah, dunque guarda il sensore del tuo smartphone (anche se non lo vedi non preoccuparti, è lì nella tua mano ischeletrita), seleziona il filtro col musino da micino per nascondere il volto della morte, poi posta il selfie con didascalia: Dying is the new black, can’t wait #shithappens #nevergiveup.

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