Alberto Piccinini: I critici degli anni ’70, che trattavano la musica con una serietà invidiabile erano convinti che la partecipazione del pubblico nei concerti, battendo le mani a tempo oppure cantando in coro i ritornelli, fosse un tantino volgare. Una specie di trucco, dal punto di vista degli artisti. Non amavano granché, quei critici, La locomotiva di Guccini, con la sua coreografia di pugni chiusi e giustizia proletaria rimasta immutata nei secoli finché lui ce l’ha fatta a cantarla live. Ascoltavano rassegnati, all’occasione, una celebre versione dell’Internazionale degli Area dove sembrava ci fosse scritto il momento esatto in cui bisognava alzarsi col pugno chiuso, di nuovo, un po’ come la Marcia di Radetzky del concerto di capodanno quando il maestro si mette a dirigere il battimani. Erano degli snobboni, pure un po’ qualunquisti. Certamente stavano dalla parte di Bob Dylan, il quale dal vivo ha sempre cambiato le musiche delle sue canzoni per evitare che la gente le cantasse insieme a lui.
Ho pensato a loro, in questi giorni. Ai critici degli anni ’70, alla purezza intransigente di quegli anni, oggi che i miei social sono inondati di cori di gente che canta negli stadi, da Cardiff a San Siro, reel di migliaia e migliaia di telefonini affiancati come gli occhi di un gigantesco insetto. La prima volta che ho visto gli Oasis nel 1996, in Inghilterra (sarò boomer fino in fondo), mi colpì molto il fatto che tutti i ragazzi del pubblico cantassero in coro le canzoni, tipo curva di stadio. Ovviamente. Se ci penso, fino allora lo avevo sentito fare quasi soltanto nei concerti di Claudio Baglioni, il quale aveva intitolato un suo album dal vivo Alé-oó proprio come il coro da stadio. Non mi fece una bella impressione, ricordo. Non ho cambiato idea. Però penso che La locomotiva avrebbe fatto un bella figura nella scaletta degli Oasis, tra Rock’n’Roll Star e The Masterplan, per intrinseche qualità armoniche e come antidoto all’orrendo fascio spot delle FS sugli italiani fatti di ferro, con Bocelli e la voce di Adriano Giannini, sponsor Salvini. Trionfi la giustizia proletaria.
Giovanni Robertini: Sono affari di famiglia quelli dei fratelli Gallagher. La loro reunion è il falò di confronto, modello Temptation Island. Del resto, nonostante il mondo attorno vada a fuoco, causa bombe e caldazza, è sempre la famiglia a occupare il palinsesto cultural pop estivo: il Premio Strega l’ha vinto Andrea Bajani con L’anniversario, romanzo breve di un figlio che abbandona per sempre il padre patriarca violento e la madre succube. Più o meno la bio di ogni trapper di media classifica o, nella versione più conscious, l’ultimo Fabri Fibra che in Mio padre rappa: “Fanculo, papà, che sparivi per giorni / È la solita storia, mamma in casa da sola / Che tornavo da scuola, in casa c’era la guerra / Tu che poi lanciavi il tavolo, il piatto e la sedia / In famiglia era una merda, tu una mezza sega”. Se a dirlo però è uno scrittore con «un’inarginabile spinta interiore» (cit. Bajani) che dice di svegliarsi alle 4 del mattino perché «se la forza di ciò che volevo scrivere non bastava a farmi alzare la testa dal cuscino, allora il libro poteva anche non essere scritto», allora è un libro Necessario con N maiuscola. Imprescindibile.
Comunque l’ho letto, asciutto, mi ha tratto in inganno la fascetta con l’elogio di Emmanuel Carrère, tanto che mi è sembrato un libro dello scrittore francese, e lo intendo come complimento. Ma quanto a drammi familiari mi ha colpito di più la crisi coniugale dei Coma Cose dopo un presunto tradimento di California, la metà del duo. Sento aleggiare il fantasma di Al Bano e Romina Power – già Cuoricini era un omaggio esplicito – ma il fatto che Al Bano abbia tirato in ballo che Romina si facesse le canne, come causa della rottura, sembra più rock’n’roll. In rete già si complotta di una strategia di marketing per coprire il flop delle prevendite del loro tour (i Coma Cose hanno annullato alcuni concerti) e già per questo mi stanno simpatici, il metodo Temptation Island come arma di distrazione dalla dittatura del sold out. Certo manca l’inarginabile spinta interiore, ma forse è meglio così.
A.P.: Verissimo. Il fatto è che abbiamo un’attrazione morbosa verso i legami di sangue, la famiglia, i fratelli. È l’unico motivo che mi spinge a considerare un lato rituale nella reunion dei fratelli Gallagher, in cui davvero non vedo nessun altro interesse narrativo e scusa se ci ritorno sopra. Una specie di esorcismo da fratelli coltelli. Come sarebbe andata la storia se Caino e Abele, Eteocle e Polinice, Ignazio Larussa e Maurizio Gasparri (fratelli d’Italia)… e i trapper in coro: “Fate un cazzo di casino per mio fratello Tony Abele!”, eccetera. Invece del caso Coma Cose, secondo me molto sottovalutato, mi interessa il fatto che il sospetto di essersi inventati tutto per farsi pubblicità – il gossip, l’amante, le foto – non sia uno sberleffo da social, ma praticamente una certezza automatica. Colpa di Fabrizio Corona, dei no wax, del complottismo? Viviamo costantemente dentro lo spettacolo dei social e abbiamo contemporaneamente la sensazione che sia tutta una cazzata, una messinscena. Non trovi? Penso che qualcosa del genere l’abbia già scritta Debord, adesso non ho il libro sottomano, controllerò. Fai bene comunque a tirare in ballo Temptation Island, perché la domanda è: come fa un reality show così palesemente finto a sembrare così incredibilmente vero? Tanto da vincere la serata in tv: 30%. L’altra domanda è: in caso di scioglimento dei Coma Cose, chi si terrà il nome Cosa e chi il nome Coma?
G.R.: Siamo un po’ a corto di polemiche social, forse gli influencer sono già tutti al mare. Tocca accontentarci dell’ultima newsletter di Selvaggia Lucarelli, il bersaglio è la pagina Instagram da quasi 900 mila follower Essemagazine fondata dallo scrittore Antonio Dikele, che si occupa principalmente di musica rap e trap, accusata di pubblicità occulta prendendo soldi da case discografiche e promoter di artisti per promuovere contenuti sui social. Tutto questo senza la sigla ADV, ovvero “pubblicità”, resa famosa con l’affaire Ferragni-Balocco. È molto trap la faccenda, guardie (Lucarelli e gli hater al seguito) e ladri (anche se rubare due spicci alle major discografiche è molto Robin Hood). Mi stupisce solo l’indignazione di chi scrive «questo non è vero giornalismo» e parla di etica e morale della professione, come se Esse fosse il Guardian. Confesso che quando uscì il mio giallo Morte di un trapper, scritto senza inarginabile spinta interiore, chiesi ai ragazzi di Esse se potevo mandargli una copia e mi informai dei prezzi per avere un pezzo sponsorizzato: 3000 euro per un post sul feed di Instagram, tra i 300 e i 400 euro per una story. Ma ho voluto essere più trap di loro e con quei soldi sono andato a fare shopping da Supreme.













