Giovanni Robertini: Ci sono rimasto male martedì scorso, quando Ultimo in tre ore scarse ha venduto i 250 mila biglietti disponibili per il concerto del luglio 2026 a Tor Vergata. Record mondiale, di poco dietro a un cantante nazionalista croato che ne ha fatti mezzo milione a Zagabria. Il motivo del mio sconforto non era dato dal fatto che a “fare i numeroni” fosse Ultimo – sospendendo il giudizio sulla musica, mi sta simpatico da quando sfanculò la sala stampa di Sanremo, il male assoluto – ma dall’essermi trovato talmente impreparato di fronte alla notizia da essere stato scavalcato a sinistra (a destra? Vabbè, stiamo parlando di Ultimo, l’ambiguità politica è d’obbligo) dallo spiegone del Post: “Capire l’enorme successo di Ultimo”. Triste boomer, ho cercato di rimediare ascoltando l’album dal vivo – dal tour negli stadi, ovviamente – di Niccolò Moriconi: «Abbelli! Quanto siete belli! Ahò, fatemi sentire», il cantante romano scalda i fan tra un pezzo e l’altro quasi sempre allo stesso modo, dicono sia timido, a lui sicuramente piace farlo credere. I brani in scaletta – Sono pazzo di te, Ti va di stare bene, Il ballo delle incertezze, Ipocondria – ricordano Vasco, il mentore Venditti e Tiziano Ferro per alcune venature r&b, i testi parlano tutti a una lei che si è allontanata nella tradizione della canzone sanremese.
Nonostante l’impegno, non riesco ad andare oltre allo “spiegato bene” del Post che parla “dell’underdog che si sente escluso ma sa di meritare la rivalsa”, della sua “narrazione del noi contro tutti” fatta “includendo anche i fan in questo discorso”. E soprattutto tira in ballo “la sua infanzia in un quartiere difficile e povero come quello romano di San Basilio e le modalità con cui ha raggiunto il successo, con grande determinazione e senza mai piacere alla critica, sono stati fattori centrali per dare credibilità a questa immagine pubblica”. Praticamente un trapper che non trappa, riconoscibile solo dal cappuccio della felpa calato minacciosamente sulla testa.
Il raduno degli ultimi, così si chiamerà il concerto dei record del 2026, è un cazzotto all’algoritmo che lo rifiuta: sempre il Post ci dice che su Spotify Moriconi fa gli stessi ascolti di un Irama e di un Tananai, molto meno di Geolier e Pinguini Tattici Nucleari. È una tribù di gente che non piace alla gente che piace, animata forse da un livore (odio mi sembra esagerato) di classe, da un orgoglio di perif romana che Zerocalcare racconta bene nelle sue storie in cui nessuno si salva. Infatti Ultimo sembra sempre sull’orlo di un precipizio emotivo, triste e incazzato, incompreso e comprensibilissimo, cintura nera di vittimismo. I fan sono lì per salvarlo, e 250 mila bastano appena. Poi poco fa ho letto il post del podcaster Gianluca Gazzoli che, sfoggiando uno scatto con Ultimo, si complimenta con lui per il record così: «In un mondo dove spesso vince il rumore, tu hai scelto il silenzio della sostanza». Ve lo meritate Ultimo, ve lo meritate!
Alberto Piccinini: Sì, sì, ti capisco. Anch’io sono inciampato nell’ultimo exploit di Ultimo. Spiegato così bene dal Post che stavo quasi per farmi convincere a provare un po’ di senso di colpa per gli album di Sofie Birch e Antonina Nowacka, Nick León, Canzonieri e Maria Violenza, Yaya Bey, Matmos che girano nei nostri device e coi quali stiamo svoltando l’estate. Ricatto tipicamente di destra meloniana: la sinistra non si occupa più delle canzonette, delle vere feste di popolo. Per forza, c’è un limite a tutto. Alla nostra età poi. Insomma ho provato a spiegarmelo male, Ultimo. Prima nella categoria delle stranezze, tipo realismo magico sudamericano. “Il concerto più grande del mondo” come “il rigore più lungo del mondo” di Osvaldo Soriano, ricordi? Il concerto talmente grande che certi ragazzi dell’ultima fila si sono mossi verso il palco giorni fa, ogni tanto si fermano, pogano con altri sconosciuti e ripartono. Il palco non l’hanno ancora trovato.
Dopodiché ho iniziato una breve ricerca sul rocker nazionalista croato che ha chiamato mezzo milione di persone all’ippodromo di Zagabria, battendo così il nostro Ultimo. Si chiama Marko Perković detto Thompson come la mitragliatrice americana, che è il suo nome di battaglia in tutti i sensi. Ha quasi 60 anni, un fisico da mercenario di tipiche guerre dimenticate dell’est, è un fan degli ustascia, la milizia fascio croata che a suo tempo ammazzò 700 mila serbi, 60 mila ebrei, 25 mila rom. Consiglio di guardare qualcosa della ripresa integrale del concerto coi telefonini del pubblico su YouTube (finalmente servono a qualcosa): un’ora e mezza di hard rock stile post-sovietico aperto dalle mega proiezioni di spade, scudi, aquile e torri del castello, laser, botti, altre lingue di fuoco. «Per la patria, pronti!», ripete spesso Perković. La notizia della presenza alla prove del primo ministro croato e una veloce traduzione dei commenti al video (che qui tralascio) non depone a favore di un futuro tranquillo per l’Europa e per nessuno.
Ecco infine cosa ho pensato: fino a 20 anni, diciamo, un concerto allo stadio può essere angst giovanile, brivido adolescente, esperienza religiosa. Dopo i 20 anni qualsiasi cosa allo stadio che non sia una partita di calcio rischia il raduno paramilitare, Leni Riefenstahl, generale Pinochet. Oppure il viaggio aziendale, premio corporate e non va tanto meglio. Lo abbiamo visto coi Coldplay: il Ceo di un’azienda che processa dati per l’IA segretamente abbracciato alla direttrice del personale, la boomerata perfetta, statevene a casa che è meglio. Io la penso così, chiedo scusa, lo stadio è sempre ultimo.
G.R.: Ti ricordi il video con Claudio Santamaria e il sindaco Beppe Sala per annunciare il ritorno dei Club Dogo? Milano veniva ritratta dai droni come Gotham City, e in questi giorni di maxi-inchiesta Joker sembrerebbe avere il volto dell’archistar Stefano Boeri, mr. Bosco Verticale, incarnazione di quella borghesia di sinistra illuminata e ZTL che ha fatto del restyling della città un programma politico, mentre era anche “cash, money, gang gang” come un Sfera Ebbasta qualsiasi. Del resto i grattacieli non nascono sulle buone intenzioni, né queste pagano gli affitti al metro quadro.
Ho recuperato un’intervista del 2021 a Boeri su Billboard in cui presentava il digital talk (T)rap&Architecture alla Triennale di Milano, di cui è presidente. A proposito del desiderio dei trapper di uscire dalla periferia sognando un futuro di cash, villone (e grattacieli) così dice: «È una forma di liberazione. Come se parlassimo della ricerca di qualcosa che simboleggi un’emancipazione da una forma di marginalità: l’accesso all’eccesso. Si dimostra che si può conquistare il superfluo». Ecco, se un Lazza può conquistare il superfluo, e se oggi ci sono un sacco di Lazza, Boeri avrà molto da lavorare, con ogni mezzo necessario. Ascoltavo in questi giorni uno dei primi pezzi rap milanesi, epoca posse, La casa è un diritto!?! dei Comitato. Credo di avere ancora il vinile da qualche parte ma si trova anche su YouTube: “Questa storia me l’ha ra-raccontata un amico/ L’ho riscritta a rime e ora ve la dico / Abitavo in una casa a Milano / Piccola, al sesto piano / Avevano lo sfratto e dopo quattro anni li buttarono fuori / Per quei malanni che lo stato non riesce a curare / La casa è un diritto sì / Ma i politici non sanno che fare”. E ora, noi, che fare? Occupare il bosco verticale?
A.P.: Il Bosco Verticale, come sanno gli amici della boomer gang milanese, sorge sulle macerie della Stecca degli artigiani e nel quartiere Isola di Pergola e Garigliano che negli anni Zero fu poco meno che Londra per musica e qualità umana della festa. Adesso Sandrone Dazieri nel torracchione con le fioriere ci ha ambientato uno dei suo gialli radical Uccidi i ricchi, che spero in molti si porteranno sotto l’ombrellone. Ma quello è il monumento alle nostre sconfitte, tipo sale sulle mura di Cartagine, che neppure la storia minore ricorderà. Ventiquattro anni fa, te lo devo ricordare, eravamo a Genova più o meno verso quest’ora. Anche lì c’era uno stadio, il Carlini. C’era il rumore degli elicotteri sulla testa, ancora non ho capito come abbiamo fatto a scappare indenni. Adesso rivedo la città nei videoclip di Sayf, uno dei rapper più bravi che hanno lassù, italotunisino, la nuova scuola genovese, girati nell’ultimo anno dal regista Giulio Cocco, da recuperare. Li segnalo perché bisogna guardare avanti. Bellissima la serie Genovarabe, set tra la tangenziale e il fronte del porto, con un gusto francese anche un po’ Manu Chao. Sayf si è affacciato in questi giorni su Instagram con il piccolo video del suo Sinner freestyle, tutto vestito di bianco da tennista: “Mi sto scopando una leghista”, comincia così, “grande giocata su fascia destra, colonialismo di riconquista”. Che gli vuoi dire?













