Alberto Piccinini: La cosa che preferisco dell’album nuovo di Tony Boy è quando non capisco quello che dice. Esperienza boomer totale garantita. Te la consiglio. Si mangia le parole, inghiotte le sillabe, ha come dei glitch fonetici, a tratti il linguaggio è completamente spappolato dall’Auto-Tune. Mamma mia se fosse stato ancora vivo Jacques Derrida, il sommo. Sarà l’influenza di Playboi Carti e gli altri suoi modelli, sarà lo sciroppo (la lean come dice lui che ne sa), un uso finalmente psichedelico dell’Auto-Tune. Il distacco plastico tra i pensieri e le parole, 51 anni dopo Mogol-Battisti, lo trovo di grandissimo interesse. In 2000 pensieri, lo stesso tema del tipo sul punto di lasciare la tipa viene riproposto con una confusa e disarmante sincerità che al testo di Mogol – puro sadismo patriarcale – mancava: “Ho 2000 pensieri nella testa”, canta Tony Boy, “ma anche oggi penso a te”, modalità Baglioni svogliato. E poi: “Per stare insieme ti va bene anche la guerra”. La guerra, coi tempi che corrono. Del resto: “Aiutare me è una mossa suicida”. Nella vita reale, per quel che conta, Tony Boy ha una figlia con l’influencer Gaia Bianchi, ma il loro rapporto è molto in crisi: «La creator ha raccontato che bloccarsi a vicenda è il loro love language», ho letto da qualche parte in rete, e capisco che se ti cacci in una situazione simile il silenzio può essere una specie di benedizione.
Ancora Tony Boy in Anomalia: “Per ogni pensiero aumento la dose/ per ogni pensiero aumento le gocce”. Prima cancellare le parole, ridurre il linguaggio a un ronzio. Quindi passare a distruggere i pensieri, la cosa più imbarazzante (sempre ripensando a Mogol-Battisti). “Stress coscienza sporca / ma sempre in giro con outfit costosi”. E quel titolo pazzesco: Uforia. C’è chi sospetta c’entrino gli ufo, o un videogioco giapponese. Uforia potrebbe essere letteralmente un sentire che non c’è, il nirvana emotivo che abbiamo perduto. Non ho trovato altre spiegazioni in giro, quindi mi sono perso tra le reaction all’album dei critici di YouTube e Twitch, i nostri colleghi del futuro. «Vi spoilero tutti i feat del disco», scandiva uno, «cercherò di farlo in un minuto». Sotto gli partiva il cronometro per davvero. «Bro, le robe che dice sono crazy», faceva un altro che si stropicciava gli occhi e i riccioli totalmente posseduto dalle sue vibe: «Oh raga per me quel feat lì ha spaccato». Tutti maschi. Tutti su una sediolina rossa imbottita da videogiochi. Come Andrea Scanzi, praticamente, ma con trent’anni di meno.
Giovanni Robertini: Adoro Tony Boy e i suoi 2000 pensieri, criptati – come una chat di Telegram o un conto bancario svizzero – e inaccessibili al Crepet, al Recalcati che c’è in ogni genitore preoccupato che la trap sia un demonio vestito in tuta. Non c’è nulla di più emo – e Tony Boy è il reuccio della emo trap, che fu Soundcloud e pure mumble rap – di non far capire nulla dei propri sentimenti, ingoiando in un singhiozzo ogni rima. E ciao boomer, come dici tu! Del resto cosa vogliamo capire se passiamo il tempo a discutere dei biglietti dei concerti negli stadi e dei finti sold out col piglio da podcaster investigativi di true crime? Tua cugina ha preso a 10 euro il biglietto per Elodie? E sti cazzi.
Sono stato mercoledì a San Siro a vedere il concerto di Marracash – accredito stampa, gratis, tiè! – e al di là dell’artista che, leggo ovunque, «ha alzato l’asticella». Posso solo dirti che i concerti negli stadi sono un’esperienza fredda e noiosa: in quei “lager”, come scriveva Nanni Balestrini ne I furiosi (“dappertutto reti muretti sbarramenti per controllare la gente”) si sente male, si vede poco, tutto sembra distante come se fosse una puntata dei Tim Music Awards, Battiti, Cornetto live pre registrata e già teletrasmessa. Lasciate lo stadio agli ultras del calcio e a quelli di Vasco, e accontentatevi di un buon locale con un impianto decente. Ieri per esempio ho ascoltato il set di DJ Anderson do Paraíso, producer di funk dark e minimalista from Belo Horizonte, al Teatro Continuo di Alberto Burri al Parco Sempione per il festival Terraforma: Milano come Londra, Parigi, Berlino, finalmente per qualche ora non più provincia dell’impero… Ve lo buco sto tour negli stadi!
A.P.: Ho visto su X il filmato dei Bob Vylan a Glastonbury, il duo di Londra un po’ Bad Brains un po’ Disposable Heroes of Hiphoprisy (guarda cosa ti tiro fuori). Di loro non sapevo granché. Si nascondono dietro lo pseudonimo per proteggersi dalla società della sorveglianza, dicono. Dopo aver lanciato i cori “free Palestine” e “morte all’Idf” dal palco in diretta streaming con la BBC, che ha immediatamente cancellato l’esibizione, ne avranno parecchio bisogno. So che tempo fa hanno attaccato apertamente i loro colleghi di sinistra tipo Idles per aver taciuto sulla Palestina per tutto questo tempo. Hanno ragione da vendere, ti ho già detto che la cosa più terribile è stato il silenzio di tutti in questi due anni infiniti. Pure i Kneecap, anche loro sul palco di Glastonbury, sono stati pesantemente editati dalla BBC («non voglio essere nei panni di quello che dovrà montare questa roba», ha detto uno dei due di fronte al mare di bandiere palestinesi tra il pubblico), sono ancora indagati dalla polizia per aver paragonato Israele/Palestina all’indipendenza dell’Irlanda del nord, più o meno. Nel frattempo Ghali ha suonato a sorpresa a Roma in piazza per Gaza, e per Medici senza frontiere. Una buona notizia. È ripartito da Casa mia, la canzone che due anni fa è stata la sliding door dell’aria brutta che tira. Non si può dimenticare il processo politico al quale fu sottoposto da Mara Venier-Fabio Fazio in duplex. Perché puoi scherzare finché vuoi sul nirvana di Tony Boy, ma è proprio quel giorno che abbiamo perso il controllo sulle nostre parole e sui pensieri, e le cose non andranno bene finché qualcuno non riuscirà a riprenderlo.
G.R.: Ce li avremo prima o poi dei Kneecap italiani? Non la versione LOL, tipo P38, ma veri? Dubito, non mi sembra un progetto buono per un tour negli stadi. Tocca accontentarci di qualche bandiera palestinese ai concerti pop di Elodie e Mengoni, comunque un bel gesto, bravi. Ho letto il libro di un giornalista arabo, nato al Cairo, cresciuto a Doha (dove da ragazzo aveva comprato Nevermind dei Nirvana con la cover censurata dal regime) per poi trasferirsi prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Per lavoro è stato in Afghanistan e Guantanamo, ha documentato Primavere arabe e Black Lives Matter, ma ora «quello che è successo a Gaza sarà ricordato come il momento in cui milione di persone hanno guardato all’Occidente, all’ordine basato sulle regole, al guscio del liberalismo e a come è asservito al capitalismo, e hanno detto: non voglio averci più niente a che fare». Omar El Akkad lo chiama «il resoconto di una fine» e il libro si intitola Un giorno tutti diranno di essere stati contro. Ecco, Omar per quasi 200 pagine ci dice una sola cosa: parlatene, manifestate, mostrate anche solo una bandiera o un post sui social. Tutto è meglio dell’indifferenza. Quindi non chiedetevi se, ora che l’hanno fatto Elodie e Mengoni, sventolare la bandiera della Palestina sia diventato retorico, uncool, fuori moda. Sventolate, sventolate ancora.