Venezia galleggia da secoli tra mito artistico e problemi di innalzamento delle acque anche seri, ma questo fine settimana si è ritrovata col rischio di sprofondare per colpa di un algoritmo.
Mercoledì in Laguna è arrivato Jeff Bezos, miliardario in orbita, per sposare Lauren Sánchez – giornalista, pilota, sirena propulsa a elica, first lady volante, capace di sorvolare i padiglioni del potere e atterrare al momento giusto sul tappeto rosso della fiaba contemporanea, con 27 abiti unici e milioni e milioni di visualizzazioni. Di colpo la Serenissima ha smesso di essere città e si è fatta piattaforma. Quello di Bezos e Sánchez non è infatti un semplice matrimonio, ma una build: un update sentimentale scaricato via jet privato.
In fondo, non è forse il matrimonio la prima app che la civiltà si è autoinstallata per mettere ordine nel caos umano? Bezos ha elevato questo assunto all’ennesima potenza. Ha sì lasciato in mano ad altri la gestione di Amazon, ma non ha smesso di aggiornare personalmente la propria interfaccia: Lauren è il nuovo sistema operativo. Venezia, il design system. Un programma perfetto per gestire capitale e sentimento. L’amore diventa un software proprietario. L’anello? Un wearable. La cerimonia? Un’API emotiva per connettere il proprio branding personale con l’ecosistema del desiderio collettivo. Gli invitati, da Usher a Rania di Giordania, da Leonardo DiCaprio a Bill Gates, sono i beta tester selezionati di questo sogno di ingegneria informatico-affettiva. La promessa di fedeltà è un codice crittografato tra i termini e le condizioni. Ogni bacio, una notifica. Ogni scambio di sguardi, un prompt. E nel cloud l’illusione che qualcosa di eterno possa sopravvivere a ogni logout, grazie alla magia di qualche costosissimo cookie.
C’era una volta un’antica cerimonia veneziana che si chiamava Festa della Sensa, con cui i Dogi sposavano il mare, suggellando il loro dominio sulla città. Era un rito piuttosto sfarzoso: il Doge saliva sul Bucintoro, una grande barca dorata, e gettava in acqua un anello d’oro pronunciando le parole: “Ti sposiamo, o mare”, specchiandosi nelle sue acque. Un matrimonio tra potere e natura, tra città e commercio, tra rappresentazione e possesso.
Ieri anche Jeff Bezos ha sposato il proprio riflesso nel Canal Grande o, meglio, sé stesso nella forma di Sánchez. Siamo tutti un po’ Lauren o Bilbo Baggins quando ci illudiamo che dietro a un anello ci sia il nostro destino e non solo una proiezione altrui.
Al posto del Bucintoro, una flotta di yacht; al posto dei mercanti, celebrità in lino organico: i fortunati destinatari della call to action per celebrare l’amore altissimo spendente. Bezos non fa che proseguire la tradizione lagunare; solo, con un background in cavi USB, ventilatori portatili, ciabatte e fattorini invece che spezie, tessuti, gioielli e schiavi. Venezia si è prestata al gioco: lo aveva già fatto, per motivi diversi, tante altre volte, da Napoleone Bonaparte a George Clooney. Ma con Bezos ha superato sé stessa, come se volesse dire al mondo e soprattutto all’Italia: “Guardate con chi esco adesso! Vi piaccio ancora?”.
Le nozze Bezos e la Festa della Sensa hanno anche altri aspetti in comune: oltre all’apparato e alla teatralità, la vaga illusione che il potere possa innamorarsi e la certezza assoluta che l’amore sia una forma di potere. Ma se il Doge della Sensa rappresentava la potenza collettiva della Repubblica, Bezos incarna quella individuale moltiplicata dall’algoritmo: non un noi, ma un io con Lauren, più Ivanka Trump, più Oprah, più una location da due milioni a notte. Il paradosso è che la Festa della Sensa era una finzione scenica che mascherava una verità politica. Il matrimonio di Bezos, invece, è una verità economica che tenta disperatamente, con ogni mezzo di terra, di mare e, soprattutto, d’aria, di sembrare una favola.
A Venezia Jeff ha sposato soprattutto l’idea che il quarto uomo più ricco del mondo possa ancora mettere in scena qualcosa che somigli a un’emozione nel contesto del presunto apprezzamento di un patrimonio culturale. Dunque, più che una favola, si è trattato di una panzana bella e buona.
Bezos ha scelto Venezia e non una Las Vegas qualunque perché, in fondo, in cuor suo, sa che un matrimonio – oltre alla sua location, prontamente lasciata deserta dai suoi abitanti – è una specie di NFT: un concetto unico e irripetibile, di valore pubblico, ma privo di corpo, che vive solo in virtù del suo possesso nominale.
Non c’è niente più bello e relativamente a buon prezzo dell’Italia, almeno per un gran signore che ha già tutto a portata di drone. Non perché gli serva davvero, ma perché disporne di un pezzo — una manciata di basiliche, una dozzina di affreschi, due o tre tramonti a noleggio — è come dire: posso permettermi tutto, anche ciò che, apparentemente, non è in vendita; anche ciò che, fino a prova contraria, non capisco. E di questo Bel Paese a equo canone (almeno per lui: non più di qualche decina di milioni di euro) Venezia è la ciliegina sulla torta: fragile, inimitabile, decadente al punto giusto. È la città che tutti vorrebbero salvare con la mano sinistra mentre, con la destra, procedono a pizzicarla per ridimensionarla al meglio come cornice del loro mega-evento, così come noi facciamo con lo schermo del cellulare.
Povera città! Ha già il problema delle grandi navi, ma ecco che arriva Jeff Bezos con il suo corteo di motoscafi, elicotteri, bodyguard e Jenner. L’impatto sull’ecosistema lagunare non è dissimile, solo un po’ più profumato. Le grandi navi trasportano turisti con le infradito e i bastoncini per i selfie. Il matrimonio di Bezos porta con sé stelle del cinema in sandali invisibili. Ma il principio è lo stesso: un colosso che entra in punta di piedi per poi occupare ogni visuale, ogni racconto, ogni canale. Con l’aggravante che le grandi navi, almeno, non pretendono di fare grandi gesti romantici. E se l’UNESCO si allerta per l’erosione delle fondamenta dei palazzi storici, chi si prenderà cura dello sgretolamento del buon senso, in barba alla comunità che protesta?
Un altro paradosso è che proprio le proteste sono diventate lo status symbol più ambito del matrimonio di Bezos. Altro che corsetti tempestati di diamanti: l’ultimo ritrovato del lusso è avere un gruppo di attivisti che ti contesta in piazza San Marco, con uno striscione in inglese corretto. Perché non c’è vera opulenza senza indignazione pubblica, non c’è vera cerimonia di ostentazione del potere contemporaneo senza qualcuno che gridi al sacrilegio con un megafono riciclato, possibilmente comprato sul tuo stesso e-commerce e, come magra consolazione, beffardamente reso dopo cinque o sei giorni di uso intenso. Nessuno nel 2025 sembra davvero ricco e famoso se gruppi di cittadini non lo odiano pubblicamente. Le nozze Bezos sono state sì blindate, ma non abbastanza da impedire che Greenpeace srotolasse la sua disapprovazione in alta definizione, trasformando la protesta in parte integrante dell’evento. Come se fosse un piano ben congegnato: da un lato le foto degli ospiti discesi dai loro 90 jet privati, dall’altro i cartelli “No Space for Bezos”. Solo qualche cartello un po’ fuori contesto del tipo “Everyone hates Elon” prova a rovinare la festa a Jeff.
Fortuna che i coniugi Bezos ci hanno impartito un’importante lezione a riguardo: godersi davvero la vita significa potersi permettere non solo tutte le meraviglie del mondo, ma anche tutte le cadute di stile possibili. Indossare un corsetto trasparente per il pre-wedding diffuso? Far sbarcare Kim Kardashian su un motoscafo come se fosse la Madonna della Salute portata in processione? Tutto è concesso, se il godimento è autentico. L’unico vero pudore di Jeff Bezos, a ben guardare, è stato non far coincidere le nozze con le solennità commerciali di Amazon, previste per la prima settimana di luglio. Sarebbe stato l’apice assoluto del capitalismo cerimoniale: il matrimonio come promo, il velo come packaging, le lacrime come recensioni a cinque stelle. E invece no: ha scelto, con insospettabile modestia, la fine di giugno, lasciando almeno la possibilità che l’amore — per quanto ricoperto d’oro e tempestato di tutto il resto — fosse fuori sincrono con il Prime Day. Ma chissà se non ci sia comunque uno sconto applicato da qualche parte, invisibile: sull’ingenuità collettiva, sul senso del ridicolo, o sul costo simbolico e finanziario delle parole “Per sempre”.
Forse non è così assurdo che il matrimonio più atteso dell’anno si sia svolto nella città d’arte più vulnerabile del pianeta. Magari c’è qualcosa di profondamente e tragicamente umano in questo desiderio di mettere in scena l’infinito su un palcoscenico che ogni giorno rischia di affondare. Bezos, con la sua cerimonia galattica, ha cercato di eternare un legame, un’immagine, un’idea. Ma proprio Venezia gli risponde, purtroppo per essa, che anche l’oro si può ossidare: una diabolica quanto dolorosa vendetta morale.
C’è allora un possibile sottotesto sublime in queste nozze, che avvengono nel luogo che più di ogni altro ha fatto della decadenza un progetto politico. Venezia è la città dove la storia non si conserva più, ma si esibisce nel suo disfarsi; e anche un uomo fautore dell’autoesaltazione, come Bezos, nel celebrarsi qui, accetta, volente o nolente, di essere parte di questo teatro lento e glorioso dell’estinzione. Anche il potere si consuma, anche i software invecchiano, anche le posizioni della classifica di Forbes slittano.
Sposarsi a Venezia, oggi, è il più profondo e triste monologo involontario sulla caducità della grandezza che Jeff Bezos potesse regalarci, con lo smoking addosso e i porteghi che scricchiolano.