Soumahoro come Balotelli: non esistono neri italiani? | Rolling Stone Italia
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Soumahoro come Balotelli: non esistono neri italiani?

C’è ancora una sinistra moralista, reazionaria – e vestita malissimo, zero stile – che va dalla Serracchiani a Bonelli e che vorrebbe gli ex immigrati più buoni, onesti, ligi ai doveri dello Stato di quanto lo siamo noi. Più doveri che dirittI

Soumahoro come Balotelli: non esistono neri italiani?

Foto di Antonio Masiello/Getty Images

Alberto Piccinini: Sai che ho pensato? Che Aboubakar Soumahoro è come Mario Balotelli. Più parla e più si mette nei guai. L’hai visto l’altra sera da Formigli, no? Ma la verità è che nei guai siamo noi. In trent’anni di normalissimi arrivi in Italia da tutto il mondo – Africa, Cina, Bangladesh e Sudamerica compresi – gli immigrati e i loro figli che hanno avuto una visibilità pubblica si contano ancora sulle dita di una mano: Aboubakar, Balotelli, Bello Figo. E poi ancora chi? Ghali, Idriss quello che parlava bergamasco da Fazio, Fidel Mbwanga Bauna che leggeva il tg regionale e votava a destra. Paola Egonu, scappata a gambe levate prima di finire triturata dalla vandea social. Questo Paese non è razzista a parole. È razzista nei fatti. Continua a trattare l’immigrazione come un “problema da risolvere” soltanto per speculare voti alle elezioni. A destra e ahimè a sinistra. E chiediti perché non ci sono commercialisti, avvocati, autori tv di seconda generazione, non c’è la cittadinanza: è proprio il sistema dell’Apartheid. Vabbè, fine del comizio. Quando però Soumahoro da Formigli difende la borsetta Louis Vuitton della moglie dicendo che c’è un diritto all’eleganza e alla moda io sto con lui. La moda è un diritto, non il superfluo. Dopo decenni di hip-hop e musica pop centroafricana, qualcosa sull’eleganza avremmo dovuto impararla.

Giovanni Robertini: Certo, e c’è ancora una sinistra moralista, reazionaria – e vestita malissimo, zero stile – che va dalla Serracchiani a Bonelli e che vorrebbe gli ex immigrati più buoni, onesti, ligi ai doveri dello Stato di quanto lo siamo noi. Più doveri che diritti. Poi hai voglia a rispondere alla destra che si lamenta che “arrivano in Italia e hanno pure il telefonino”, mi segui? Chi è bianco scaglia la prima pietra, sempre. I rapper americani, francesi, inglesi (a proposito, l’hai sentito il nuovo di Stormzy? bello) l’hanno capito da tempo e non hanno paura a mischiare nei loro testi statement contro la discriminazione, inni alla gangsta life, all’illegalità diffusa e il razzismo e esibizionismo del lusso: Louis Vitton, Prada, Balanciaga e Gucci. Soprattutto Gucci. Quindi non si può non citare sua maestà Alessandro Michele, stilista e direttore creativo che questa settimana ha fatto svenire i commessi di ogni negozio di via Montenapoleone dopo l’annuncio che avrebbe lasciato Gucci. Fine di un’era in cui il diritto al lusso era arrivato fin dentro alle trap house di Atlanta proprio grazie a Michele che aveva usato la musica, e i musicisti, come manichini, da Francesco Bianconi dei Baustelle, protagonista di una delle sue prime campagne pubblicitarie, a Harry Styles e i Maneskin, passando per rap ed elettronica intelligente. Quindi diritto al lusso non solo per ovvie ragioni di marketing ma pure megafono di una consapevolezza sociale in trasformazione. Anche un marxista come Zizek ha detto che per lui il comunismo è una società dove tutti hanno un Rolex e girano in limousine. E, aggiungo, vestono Gucci. Pensa se Alessandro Michele avesse usato come manichini del suo show quelli del PD. Probabilmente avrebbero vinto le elezioni. E ora non staremmo qui a deprimerci davanti a Tunisia Australia in questo Mondiale amputato da tifo e Nazionale, col lusso cafone dei qatarioti.

AP: Parole sante. Il mondiale boh. Sto con Manu Chao che grida viva el futbol de barrio, viva il calcio di quartiere, ma non se crederci, la prospettiva di giocare a calcetto al gelo contro la Fifa mi pesa un po’. Ormai la Fifa fa di tutto per far assomigliare le partite a quelle che si giocano sulla playstation, al calduccio di casa e senza pubblico vero (che rompe i coglioni, si ubriaca ecc) ma certo poi se l’Arabia batte l’Argentina, e il Giappone la Germania, io sono lì davanti al televisore. Ho ceduto subito alla megaretorica del gol di Richarlison in rovesciata contro la Serbia, come nei vecchi pacchetti di figurine, perchè poi scopro che Neymar ha votato Bolsonaro e Richarlison probabilmente ha votato Lula, comunque è di sinistra, è un bravo guaglione di favela, tutto mi torna. Anche la retorica dell’Argentina mi interessa, neoperonista, pervasa di malinconia e lacrime: hai visto lo spot dove un finto Maradona dal paradiso invita la squadra a vincere nel suo ricordo, con nell’1986? Che invidia. Pensa uno spot nostro con Paolo Rossi dal paradiso, tipo quelli della Lavazza con Bonolis. Vabbè, che vado a pensare.

GR: Credo pure che questo lutto dell’Italia fuori dai Mondiali stia avendo delle forti ripercussioni sulla nostra salute psicofisica. Cerco una giustificazione agli sbrocchi di nervi della Meloni alle conferenze stampa, alle uscite del Ministro dell’Istruzione Valditara sull’umiliazione (anche se questo tema, dell’umiliazione come fase di una processo di crescita artistica occorrerebbe divagare citando il saggio wired di Cynthia Cruz Melanconia di classe – Manifesto per la Working Class) e alle gaffe esplicite di Dargen D’Amico a X Factor sulle mestruazioni. Merito e talento, reality show e talent show, ma soprattutto scazzi, figuracce (e torniamo a Soumahoro) e litigate. Ridateci il campionato, subito!

AP: Infatti. Per questo alla ricerca di pace interiore ho sentito dal vivo all’auditorium di Roma uno dei capolavori del ‘900, Einstein on the Beach di Philp Glass. Estasi pura, cattedrali gotiche, grattacieli, mantra, matematica, tempo sospeso. Tre ore e 20 nell’esecuzione dell’ensamble belga Ictus con il coro di Gent. Meno delle cinque ore dell’originale teatrale, anni ’70. Secondo le istruzioni del compositore il pubblico può uscire e entrare dalla sala quando vuole per rifocillarsi, fare due passi eccetera. Qualcuno l’ha fatto. Io no. Ero seduto accanto al grandissimo critico di un grande quotidiano, ottantenne, ora in pensione. Elegantissimo nel suo tweed marrone. Non si è mosso dalla sedia, ogni tanto prendeva appunti un quadernetto, ma per almeno tre quarti ha dormito. Invidia. Ecco cosa manca al nostro boomerismo consapevole, mi sono detto, una bella dormita, un’estetica ipnotica della vita e delle cose. E il campionato. Ci sto lavorando.

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