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Sognare sempre ‘Un altro ferragosto’

Lo Sgargabonzi riflette sull'ultimo film di Paolo Virzì, tra sentimenti blu, folgorazioni di pochi secondi, e mancanze struggenti

Foto: 01 Distribution

Conobbi Virzì con il suo primo film, La bella vita, tutt’oggi uno dei miei dieci lungometraggi preferiti. Da appassionato delle storie raccontate da Baglioni e Califano, mi colpì subito il coraggio e il verismo con cui Virzì descriveva i sentimenti blu della fine d’una relazione, quelli meno presentabili, il capolinea dell’amore, quando non c’è nessun antagonista se non il tempo e la routine, che vincono anche sulle migliori intenzioni.

Negli anni Virzì è stato un grande narratore di storie umane e costruttore di commedie in cui, fra il sorriso e la commozione, la distanza è sempre stata pochissima. L’ha fatto con alti e bassi ma, secondo me, l’ha fatto meglio di tutti. Non posso dire che sia cresciuto nel tempo, solo perché ha iniziato già al suo massimo, senza nessuna incertezza dell’esordiente. Anzi, a oggi, credo che Virzì non abbia mai bissato quel film d’esordio tanto clamoroso quanto poco visto (e introvabile in streaming, DVD o Blu-ray).

Già da Ferie d’agosto quell’equilibrio perfetto, quel camminare sul filo del pathos senza mai mettere il piede in fallo e approdare sul dolciastro, venne un po’ meno. Un po’ troppe missioni-simpatia in quel caso, successivamente sarebbero arrivati degli eccessi di emotività. Niente di grave, se non per me che ho sempre apprezzato Virzì e lo considero un regista unico.

Dopo tre film non particolarmente riusciti (in particolare Ella & John, un film sulla malattia e la vecchiaia che sa più di Sundance che del cinema del regista livornese), con Un altro ferragosto torna il Virzì migliore, che forse non confeziona il suo film più bello, ma di sicuro è lui in purezza.

Sono passati ventotto anni da quella vacanza a Ventotene di Sandro Molino e della sua famiglia allargata, foriera di situazioni, personaggi e dialoghi diventati iconici nel tempo. Fra schitarrate militanti alla brezza serotina e canne al chiaro di luna, li vedemmo pronti a difendere i loro ideali di sinistra contro i Mazzalupi, i loro nuovi vicini di casa, burini romani freschi di vittoria berlusconiana. Adesso le due famiglie tornano a Ventotene. Sandro è in fin di vita, non ricorda il nome del mare e pare capirlo solo il nipote. Per Cecilia, sua moglie, è invece cambiato pochissimo: ancora cerca le attenzioni del marito. Marisa e Luciana Mazzalupi sono vedove, del resto gli attori Ennio Fantastichini e Piero Natoli, che interpretavano i mariti, negli anni sono venuti a mancare. Marisa si presenta con Pierluigi, un sedicente imprenditore dai modi galanti, in realtà un sempliciotto ripulito, mentre Luciana è lì per Sabrina, ormai diventata influencer e prossima al matrimonio con Cesare, un rampante tamarro con la scritta “Memento audere sempre” tatuata sul braccio.

Un altro ferragosto gioca ovviamente molto, se non quasi tutto, sul tasto della nostalgia, e Virzì lo fa da musicista esperto. È un film che tocca corde profonde, riflessioni sulla vita e sulla morte (nel senso più biologico del termine), ma lo fa con apprezzabile onestà, senza troppo calcolo. Del resto ci porta indietro nel tempo solo per il confronto con il capostipite, ma non è una rimpatriata nostalgica: questo seguito è totalmente e violentemente collocato nella nostra epoca, sicuramente più complessa e molto meno scanzonata. Alla nostalgia ci si arriva per sottrazione, infatti lo iato fra quello che succede nel presente narrativo e le immagini del primo film è spesso molto doloroso. Un altro ferragosto è pensato come la seconda parte di un dittico più che un film a sé. I personaggi sono troppi, alcuni sono lì poco più che per fare la loro mossa (Silvio Vannucci e Gigio Alberti) e mancano diversi archi narrativi.

Forse il cedimento maggiore del film sta nel personaggio di Silvio Orlando, dalla caratterizzazione molto monocorde e calligrafica, zavorrato nella sua continua rievocazione del confino a Ventotene di chi si opponeva al regime fascista, con tanto di visioni oniriche con Pertini, Rossi e Spinelli. Un personaggio complesso che qua viene molto semplificato, un’occasione mancata per raccontare davvero la malattia e la morte, senza poesie, scuse, astrazioni e dottrine. In questo si fa sentire la distanza col personaggio consonante a Silvio Orlando e protagonista de Le invasioni barbariche di Denys Arcand – pure in quel caso, rimpatriata vent’anni dopo del gruppo di personaggi de Il declino dell’impero americano attorno al capezzale di un loro amico – un dittico col quale questo di Virzì condivide molte suggestioni e punti focali.

Invece ho apprezzato com’è stata resa presente e tangibile la mancanza di Fantastichini e Natoli, i miei preferiti del film precedente. Sapevo che sarebbe stata come quella sensazione di dover fare una pausa mocaccino ma trovare la macchinetta rotta, e sapere che è rotta sempre e per sempre. La mancanza si fa sentire, del resto erano loro nel primo film a offrire non solo le scene più divertenti, ma anche quelle emotivamente più intense: il confronto finale fra Marcello e Marisa, le parole fra Ruggero e Sabrina dopo aver sventato il suicidio di quest’ultima. Virzì trova un modo per farli vivere attraverso i personaggi rimasti, rievocandoli continuamente e facendoli diventare una presenza tangibile nel film. L’immagine di Luciana che si inoltra in mare e disperde le ceneri del marito fino a scomparire è il momento più forte del film e uno dei più belli del cinema di Virzì, eppure dura pochi attimi.

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