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Siamo stati davvero Charlie Hebdo?

Cinque anni dopo l’attentato, nei pressi della ex redazione della rivista sono state ferite altre persone. Oggi come allora è in atto una sfida violenta alla libertà che non sembra mai avere fine

Siamo stati davvero Charlie Hebdo?

Foto: Franck Pennant/AFP via Getty Images

Un giorno di qualche anno fa tutto il mondo si è svegliato improvvisamente monopolizzato dal dovere di essere Charlie Hebdo. In un senso di appartenenza ideologica e moderna, tutti erano una piccola parte della rivista satirica francese colpita da un attacco brutale che è costato la vita a diverse persone colpevoli di fare satira. Servivano milioni di soldati ideologici sulle loro comode poltrone, pronti a tutto per difendere la rappresaglia di chi voleva uccidere la libertà personale e quella di espressione.

I disegni caustici e dissacranti di Charlie Hebdo su Maometto sono stati puniti con il prezzo più alto che un essere umano possa pagare: la vita. Il loro umorismo, però, non era (e non è) monopolizzato da questo tema. Prendono di mira anche la politica, la società e soprattutto le altre due grandi religioni monoteiste, in maniera ugualmente pesante e spesso fastidiosa. E questo non sempre è un male se si riesce a non prendere quello che si vede o si legge solo sul personale. Una vignetta può essere bella o brutta, ma indubbiamente funziona quando provoca qualcosa, anche di terribile. Molto spesso un senso di fastidio che può portare a una risata o a un rigetto irritante.

Tra i moltissimi che il giorno dopo l’attentato usavano un hashtag massificato per dichiarare di essere Charlie e far parte – almeno sui social – del lato giusto della netta divisione tra bene e male, ce n’erano pochi che sapevano veramente cosa stavano difendendo e in cosa si stavano immedesimando. La prova tangibile è che, poco tempo dopo, un gran numero di loro si sono indignati violentemente per le vignette di Charlie Hebdo sul terremoto di Amatrice, sorpresi dal fatto che la brutalità di quei vignettisti poteva colpire anche loro come aveva fatto con gli estremisti. Crudeli, cattivi e ingiusti verso chi era morto sotterrato dalle macerie.

Si può lottare per la libertà di espressione, almeno fino al momento in cui non intacca il proprio orticello. La satira, ormai, si accetta solamente quando è fatta contro un “nemico”. La riflessione su questa rivista e sul loro modo di fare satira ha una matrice lontana, semplicistica per certi versi, che risponde alla domanda: “Si può ridere di tutto?”. La risposta è soggetta a interpretazioni perché per alcuni la risposta è sì e per altri, invece, ci vorrebbero dei paletti per limitare la risata dentro un recinto da cui lasciare fuori le cose che possono urtare la sensibilità. Però la sensibilità è qualcosa di soggettivo che cambia da persona a persona ed è quindi difficile delimitare il perimetro di questo recinto.

Quindi siamo stati davvero Charlie Hebdo? No, probabilmente abbiamo provato un senso di forte empatia per le persone uccise da un nemico comune, ma non abbiamo mai fatto parte di quel gruppo di vignettisti morti per quello che disegnavano e che hanno continuato a farlo anche dopo, nonostante tutto. La mattina successiva mentre si scriveva #JeSuisCharlie sui social la lontananza con quella rivista è stata la stessa che c’era prima e che ci sarebbe stata dopo.

Cinque anni dopo l’attentato a Charlie Hebdo a Parigi, nei pressi della ex redazione della rivista, sono state ferite altre persone. Oggi come allora è in atto una sfida violenta alla libertà che non sembra mai avere fine. Questa volta saranno in pochissimi a essere Charlie, a sventolare la bandiera della giusta giustizia (ne esiste anche una sbagliata?), perché qualcuno – da qualche tempo – incomincia a pensare che se la siano cercata. Colpevolizzare le vittime è sempre una buona scorciatoia per liberarsi dalla zavorra delle responsabilità sociali e civili. Per questo motivo la satira riesce a infastidire gli estremisti così come i perbenisti, perché nella totale follia delle sue molteplici espressioni può essere libera come nessun’altra cosa al mondo. E questo, per alcuni, è assolutamente inaccettabile.

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