La nostra vita è un Titanic dove litighiamo per la precedenza alla toilette | Rolling Stone Italia
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Siamo mortalmente pesanti perché pensiamo di vivere per sempre

Ci illudiamo che le nostre convinzioni, i nostri gesti, i nostri tweet possano cambiare il destino del cosmo. È bellissimo giocare a una missione, ma è ancora più bello sapere che non cambierà proprio un bel nulla, che leggerezza non è superficialità

Siamo mortalmente pesanti perché pensiamo di vivere per sempre

Foto IPA

In Italia muoiono più di 600 mila persone all’anno. Fanno circa 68 addii all’ora. Per essere equamente sensibili dovremmo dedicarci a più di un lutto al minuto: poche decine di singhiozzi a testa di morto. Questo volendo restare sopravvissuti sovranisti. Un lutto globalizzato implicherebbe un contatore di pietà olimpionico: da questo pianeta se ne va una persona virgola qualcosa al secondo. La lacrima non fa in tempo a percorrerci la guancia, che già è da dedicare a un altro cadavere. Fino allo zigomo è per una bimba africana disidratata, da lì al mento per un avvocato canadese che s’è buttato di sotto. Quindi, al di là della ristrettissima cerchia di persone di cui ci importa davvero qualcosa, quelle di cui conosciamo gli odori e i fantasmi, la scelta su chi dispiacersi non può che essere interessata.

La verità è che per lo più, nel profondo, non ce ne frega un accidenti di quasi nessuno. È un naturale meccanismo psicologico di difesa. Il dolore del mondo è troppo vasto per ficcarlo dentro al poco tempo a nostra disposizione. Più prosaicamente, l’alternativa sarebbe quella di diventare presenzialisti da funerale, burial influencer foraggiati da Kleenex e Interflora. Agende fittissime di elogi a bordo fossa e cremazioni, con pranzi al sacco dietro al carro da morto. E invece leggiamo il titolo, il post, ascoltiamo la notizia al tg o al bar, storciamo la bocca, scuotiamo la testa, se non stiamo masticando il panino diciamo perfino “poraccio”, e poi sotto con l’economia che chissà se arrivo a fine anno, sotto col calcio che chissà se andiamo in Champions League.

L’indignazione contro la morte riemerge quando dobbiamo rivendicare il nostro posto nel mondo dei vivi. Con amici e colleghi, sui social e in piscina, protestiamo contro il nigeriano, che in un vicolo di periferia ha accoltellato una ragazzina, per sostenere le politiche anti-migratorie; contro l’ingegnere, che in una villetta a schiera ha strangolato la moglie, per condannare i retaggi della cultura patriarcale; contro il suicidio dell’imprenditore per ribadire la mostruosità del fisco e contro Dio perché l’infarto non è stata per niente una bella invenzione. È probabile – non certo, ma statisticamente probabile – che: nel primo caso viviamo in una periferia degradata, nel secondo ci sentiamo in pericolo o discriminate, nel terzo ci consideriamo a nostra volta vittime di una tassazione spropositata, nel quarto ci sia morto il nonno. Odiamo un pirata della strada perché speriamo che nostro figlio torni a casa ogni sera e la malasanità perché un malanno prima o poi toccherà pure a mia moglie. Ci appassioniamo ai libri e ai film se riusciamo a immedesimarci nei loro protagonisti. Difficile immaginare un mercenario neonazista in brodo di giuggiole per il Diario di Anna Frank. La cronaca nera è una favola della buona notte, l’indignazione un pediluvio per la coscienza, la rabbia contro le morti a nostro giudizio insensate, e quindi tecnicamente evitabili, ci manda a letto un po’ più sereni. Sono ninna nanne travestite da proteste.

Il fatto è che la morte in generale non ha questo gran senso per creature con l’istinto di sopravvivenza impresso nel DNA. Ma tutti, tacitamente, chi s’arrabbia con i rapinatori slavi e chi con gli streptococchi, tutti recitiamo nella stessa commedia: ci convinciamo che la morte sia un accidente che può capitare o non capitare, un errore, un cortocircuito, un espediente per sceneggiatori da serie tv, un fatto che, quando le cose, grazie agli uomini di buona volontà, funzioneranno come dovrebbero, non si verificherà più.

Ed è per questo che diventiamo mortalmente pesanti. Ci illudiamo che le nostre convinzioni, i nostri gesti, i nostri tweet possano cambiare per sempre i destini del cosmo. È bellissimo giocare a una missione, per carità, ma è ancora più bello sapere che se non si arriverà a urlare “tana libera tutti” con la mano sul muro, sul lungo periodo e in termini assoluti, non cambierà proprio un bel nulla. “Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore” diceva Calvino. Invece siamo passeggeri del Titanic che litigano per la precedenza alla toilette. Anche se dovessimo salvarci dalla paventata apocalisse climatica, e poi da un’altra e poi da un’altra, anche se l’orbita della terra dovesse miracolosamente schivare tutti gli asteroidi più devastanti, tra quattro o cinque miliardi di anni si esaurirà il combustibile solare, quel tondo lassù resterà un grosso sasso nel vuoto, e finita la festa.

Voi dite: prima o poi viaggeremo nell’iperspazio e colonizzeremo altri pianeti. In Io e Annie la mamma porta Alvie dal dottore perché il bambino è depresso e non fa più i compiti: ha letto che l’universo si sta dilatando e “questo significa”, dice Alvie, “che un bel giorno scoppierà e allora quel giorno sarà la fine di tutto”. Il medico risponde: “Non si dilaterà per miliardi e miliardi di anni. E noi di qui ad allora dobbiamo cercare di goooodercela”. Bisognerebbe seguire il consiglio del buon dottore, oppure credere nei tortuosi percorsi logici dello stesso Dio che ha inventato l’infarto.

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