Sex Pistols, Lemmy, Grace Jones, Iggy Pop: quando tutti uscivano al Limelight | Rolling Stone Italia
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Sex Pistols, Lemmy, Grace Jones, Iggy Pop: quando tutti uscivano al Limelight

Freak e divinità pop, punk e principi in incognito. Gli archivi del fotografo David Koppel compongono un nuovo volume dedicato al club londinese simbolo di una generazione

Lemmy Kilmister e John Lydon al Limelight

Lemmy Kilmister e John Lydon al Limelight

Foto: David Koppel Archive

Se negli anni Ottanta vi foste avventurati nel West End londinese, all’incrocio tra Shaftesbury Avenue e Charing Cross, avreste scorto una cappella decrepita risalente alla fine dell’Ottocento. Muri scrostati, panche impolverate, pavimenti deformati. Nulla di apparentemente affascinante, se non fosse che quella rovina vittoriana sarebbe presto diventata il cuore della scena notturna londinese, un altare profano dove officiavano Boy George, Spandau Ballet, Iggy Pop, Duran Duran, Grace Jones e un corteo inarrestabile di freak e divinità pop. Il suo nome era Limelight.

Nato nel 1985 da una ex chiesa presbiteriana in disuso (e oggi in vendita per 14,75 milioni di sterline), il Limelight non fu solo un club. Fu un teatro di libertà dove il culto era tutto quello del corpo, della musica, dell’alterità. Ogni notte vi si celebrava una liturgia profana, tra latex, chiffon, lustrini e lamé. La regola: l’eccesso. Tra le navate sconsacrate danzavano George Michael, Malcolm McLaren, Leigh Bowery e centinaia di adepti decisi a farsi vedere, o a perdersi nel buio colorato di un’identità in costruzione.

A documentare quella messa laica fu un ragazzo riluttante. Si chiamava David Koppel, e di club, diceva, non gliene importava nulla: «Non bevo, non ballo, non mi piacciono i vip». Lo chiamarono per una sola sera. Ci rimase un anno intero. E da quell’anno nacque un decennio da paparazzo, uno sguardo iconico e oggi un libro: Limelight, in uscita a settembre per un editore indipendente, corredato da una mostra a Londra dal 9 ottobre. «Ogni sera era un’apocalisse estetica», racconta oggi. «Fotografare lì dentro era come tentare di inquadrare un sogno psichedelico con una torcia elettrica».

Il club era scuro come una cripta, ma pieno di luce interna. Per mettere a fuoco, Koppel spesso chiedeva ai soggetti di accendersi un fiammifero in faccia. L’effetto è quello di un’esplosione effimera, sfocata, vibrante. Un glamour instabile che non si lasciava addomesticare dall’estetica patinata degli anni Ottanta, ma sgorgava spontaneo da una miscela alchemica di generi, stili e classi sociali. Poteva capitare di trovarsi accanto a un comico della BBC, un principe in incognito (pare ci sia passato anche Carlo, l’attuale re), un travestito d’avanguardia, un punk e una popstar appena scoperta da Top of the Pops.

Peter Gatien, il carismatico proprietario del club, lo ripeteva spesso: «Se tutti sono in Armani, è noioso. Se tutti sono in super-sequins, è noioso. Il trucco è l’eclettismo: le persone devono intrattenersi a vicenda». Una regola semplice che, all’epoca, diventava rivoluzionaria. Il Limelight era un crocevia di tutto ciò che non voleva farsi etichettare: un luogo in cui la libertà diventava architettura, e l’architettura diventava manifesto.

Le fotografie di Koppel sono documenti pop, ma pure reliquie laiche. Immortalano celebrità, rivelano apparizioni. George Michael e Boy George, insieme, sembrano evocati da un incantesimo più che da un flash. Leigh Bowery sfida la simmetria, le proporzioni e il decoro come se il suo stesso corpo fosse un happening. Mike D dei Beastie Boys ride con Nigel Planer, Ray Mayhew si fa ritrarre con Leo Sayer, Robbie Coltrane posa accanto a John Lydon come due diaconi scettici alla fine di una veglia elettronica. C’erano Shane MacGowan, Leigh Bowery, Kim Wilde, Nile Rodgers, Lemmy dei Motörhead, Jeff Beck. Qui nel 1986 Bob Geldof celebrò il suo addio al celibato prima di sposare Paula Yates.

In un’epoca in cui la fotografia notturna era raramente considerata “arte” e spesso confinata alle pagine di gossip o costume, Koppel ne sovverte il destino. Non solo restituisce lo sguardo di una scena, ma ne amplifica l’aura. Con una tecnica che sembra intuitiva, rudimentale, quasi ingenua, riesce a cogliere la vertigine dei momenti in cui la realtà si traveste da sogno.

E poi c’era Londra. Una Londra dove il thatcherismo galoppava, l’AIDS mieteva vittime e la crisi economica spingeva molti a rifugiarsi nei club come in un ultimo carnevale. Il Limelight fu anche questo: una zona di resistenza emotiva, dove ci si travestiva non solo per apparire ma per sopravvivere. Non era solo un posto per divertirsi. Era un luogo in cui diventare qualcun altro, o nessuno, o finalmente se stessi.

Quarant’anni dopo, Limelight (il libro) celebra l’effimero come qualcosa che resiste al tempo. Una capsula in cui la fotografia non è addomesticata da filtri o algoritmi, ma guidata dall’ossessione, dall’urgenza, dal desiderio di capire cosa sta succedendo nel momento esatto in cui accade. Nel tempo dei club plastificati e dell’immagine progettata, Limelight non chiede permesso e non cerca la perfezione. Koppel non era lì per costruire miti: eppure ciò che ha visto, ciò che ha fissato nel caos, è diventato mitologico. Come tutti i luoghi in cui si è celebrato un rito collettivo senza santi, ma con tanti profeti in giacca glitterata. In fondo, ogni club è una chiesa. Ma non tutti hanno avuto un fotografo a officiarne il mistero.

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