Rolling Stone Italia

Senza Giorgio Armani siamo tutti un po’ maranza

Omaggio all’uomo che ha vestito chi voleva contare più che apparire. Era quasi impossibile sentirsi eleganti senza passare dalla sua estetica, che ha svuotato di barocchismi il Paese più teatrale del mondo

Foto: Rolling Stone

Giorgio Armani è morto da poche ore e Milano è già diventata una città più chiassosa, come se qualcuno avesse hackerato il filtro Graphite di Instagram e ne avesse alzato al massimo la saturazione.

Armani è morto nel silenzio che aveva cucito addosso al mondo, rendendo impossibile sentirsi eleganti senza passare dal suo metro di giudizio invisibile: un silenzio fatto di linee dritte, colori neutri, giacche maschili senza spalline che hanno svuotato di barocchismi un Paese che si racconta da sempre come teatrale. La sua scomparsa ci lascia idealmente tutti un po’ maranza: nel post-Armani qualunque cosa indossiamo sembra improvvisamente gridare «vorrei ma non posso», dopo quel tentativo, durato 55 anni, di sussurrarci quanto sia meglio «posso ma non vorrei».

Ma il suo stile non era minimalismo sterile: dietro la sua estetica neutra c’era un’ossessione monastica per il dettaglio, per il punto perfetto di blu che, se sbagliato di un mezzo tono, perdeva tutta la sua magia.

Re Giorgio, come lo chiamavano per semplificare, ha vestito generazioni di uomini e donne con un’idea integralista di sobrietà: quella che non è modestia, ma supremazia estetica. Una forma di autocontrollo che postula il dominio sugli altri non mediante l’invidia verso ciò che non si possiede, ma tramite la vergogna per ciò che si ha in eccesso.

Era nato a Piacenza nel 1934, figlio di un impiegato, in una provincia che odorava di guerra e povertà. Studiò medicina, poi fece il vetrinista, poi ancora il costumista a teatro; la moda arrivò dopo, ma non per caso, come una conseguenza naturale di un occhio che vedeva geometrie ovunque. Fondò la sua casa nel 1975 con Sergio Galeotti, il compagno di vita e di avventure imprenditoriali: una coppia che inventò il concetto di brand moderno, internazionale, minimalista ma riconoscibile come un sigillo. Nel frattempo, tutto quello che toccava diventava cool: bar, abbazie, alberghi, profumi, jeans, squadre di pallacanestro, la Grande Enciclopedia Treccani; perfino la nostra Nazionale di calcio, vestendola come un team aziendale che scende in campo per una partita scapoli distinti contro ammogliati chic. Armani non è mai stato solo moda: ha creato per primo un ecosistema di spazi e oggetti che riflettono la stessa estetica sobria dei suoi abiti, fino a ridefinire – al pari di Fellini o della Ferrari – la rappresentazione dell’Italia nel mondo.

Negli anni ’80, mentre un Versace sfidava il mondo a colpi di teste di Medusa e varie voci del verbo leopardare, Armani inventava la divisa insuperabile di una generazione che voleva contare più che apparire. La giacca destrutturata di Giorgio Armani è più di un capo d’abbigliamento: è un atto semiotico, un colpo di spugna sul codice vestimentario dell’Occidente. Mentre l’Italia viveva la tensione degli anni di piombo, con piazze infuocate e una società che stava riscrivendo i propri codici culturali, Giorgio Armani prese la giacca — simbolo borghese per eccellenza, uniforme maschile da tribunale e consiglio di amministrazione — e la svuotò dall’interno, con una mossa da samurai del tessuto. Tolse le spalline, le fodere rigide. Ne è rimasta una giacca che scivola sulle spalle, che segue il corpo invece di comandarlo. In termini barthesiani, compì una denaturalizzazione del mito: smontò l’armatura del potere maschile e la trasformò in una seconda pelle. Derrida avrebbe parlato di decostruzione: Armani, con forbici e ago, fece filosofia applicata.

La destrutturazione è togliere per capire, smontare per vedere cosa resta. L’uomo che indossa una giacca destrutturata non ha bisogno di sembrare grosso, perché già lo è nel suo mondo; non deve fingere autorità, la possiede. È un capo che trasforma chi lo indossa in un manifesto vivente: posso vestirmi come se stessi in pigiama e comunque comandare la stanza.

La giacca destrutturata è la più grande rivoluzione sartoriale del Novecento, ma Armani l’ha venduta come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non è stata un abito provocatorio come la minigonna di Mary Quant o le scarpe di Vivienne Westwood: è stata un silenzio che ha fatto più rumore di qualsiasi sfilata.

Quella giacca è stata perfino gender fluid prima che qualcuno inventasse il termine, cancellando la distinzione tra abiti maschili e femminili: la stessa giacca poteva vestire un amministratore delegato e una receptionist. In un Paese dove la moda è spesso teatro, Armani ha fatto del teatro un interno zen.

Richard Gere che apre l’armadio in American Gigolo e si compiace dei suoi filari di giacche Armani è un’immagine più potente di qualsiasi campagna pubblicitaria: un’icona così forte che per decenni il marchio ha vissuto dell’associazione a quella scena (chissà, però, se gli piacque davvero quella scena in cui Gere che sceglie le giacche come un chirurgo plastico soppesa i bisturi davanti al tavolo operatorio).

È così che l’armanismo diventa pop. Negli anni ’80 ogni manager voleva sembrare Richard; negli anni ’90 ogni politico italiano voleva sembrare “autorevole ma umano”; negli anni 2000 ogni ragazzo di provincia che comprava una maglietta Emporio Armani pensava di avere addosso un pezzo di quell’aura. La giacca destrutturata è diventata il primo capo globale della moda italiana, il nostro equivalente di un iPhone: un oggetto di design che funziona ovunque e si riconosce ovunque.

Culturalmente, Armani ha fatto con la giacca quello che i cantautori hanno fatto con la lingua italiana: ha semplificato senza banalizzare. Ha tolto ovatta come Lucio Dalla toglieva aulicismo. Chi lo copia oggi, perfino chi ne gestisce la linea più popolare, EA7, predilige loghi grandi come capi: ma Armani aveva dimostrato ampiamente che il miglior logo è l’assenza di logo.

Armani restò sempre fedele a due cose: a Milano, alle sue piogge sottili e alle luci dei tram, come se la città stessa fosse il suo atelier più segreto; e a sé stesso. Armani era di fatto un architetto mancato che aveva trovato nel corpo umano il suo skyline: nessuna torre di vetro, ma un profilo di spalle scivolate, pantaloni morbidi, camicie che sembravano onde leggere. Oggi che la sua firma diventa epitafio, ci accorgiamo che non c’è stato stilista più radicale e più italiano: perché solo un Paese che si crede rinascimentale poteva generare un uomo che ha ridisegnato il mondo eliminando ogni orpello, come Michelangelo che toglie il marmo superfluo per liberare il David.

Re Giorgio ha vissuto abbastanza a lungo per vedere Milano trasformarsi in capitale della moda globale, una città che gli deve metà della sua influenza estetica internazionale. Oggi che non c’è più, Milano perde uno dei sui centri di gravità senza la permanente. Armani non ha mai avuto bisogno di gridare, eppure ha dettato legge. È stato l’uomo che ha fatto sembrare il lusso una questione di logica, non di prezzo (anche se costava). Armani non ha mai ceduto la sua azienda ai conglomerati francesi, mai venduto il cognome al miglior offerente: preferì il controllo totale alla ricchezza senza regole. L’impero è rimasto suo, e ora il testamento parla di una fondazione che lo governerà: una monarchia illuminata che non si è mai piegata ai mercati. Il suo palazzo in via Borgonuovo resterà come un mausoleo vissuto: non c’è stilista che abbia incarnato una città come lui, con quella camminata lenta, il sorriso appena accennato e lo sguardo da generale che passa in rassegna le truppe e trova sempre almeno un colletto da rifare da capo.

In queste giornate Milano piange il suo re, ma lo fa con discrezione. La camera ardente sarà al Teatro Armani il 6 e 7 settembre, prima di un funerale privato: niente selfie, niente passerelle, niente show. È così che avrebbe voluto l’uomo che provò a insegnare agli italiani a essere meno italiani.

Iscriviti
Exit mobile version