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Se sopravvivrò a questa quarantena, sarà anche grazie al mio cane

In una situazione in cui di normale non c’è nulla, un cucciolo è diventato il gancio che ci impedisce di scivolare nell’indolenza, che ci tiene ancorati a consuetudini che non sono state intaccate da divieti e dall’angoscia generale

Abby e Will Smith in 'Io sono leggenda'

Da che ho memoria, non ho mai desiderato avere figli, ma ho sempre voluto un cane. Alle elementari avrei fatto carte false per uno yorkshire terrier – non so perché proprio uno yorkshire terrier, magari nella mia testa associavo le sue ridotte dimensioni a uno sbattimento inferiore – e i miei genitori per tutta risposta mi regalarono un pesce rosso, accrescendo a dismisura la mia frustrazione. Così a trent’anni e rotti, non dovendo più dipendere dal permesso dell’autorità materna e paterna, col mio fidanzato abbiamo deciso di assecondare una fissazione che ci accomunava e da un giorno all’altro (nel senso letterale del termine) abbiamo preso un cane.

Nell’ottobre del 2018 è arrivata Zelda – come Zelda Fitzgerald, non come la serie di videogiochi The Legend of Zelda –, un barboncino che avrebbe dovuto essere di taglia toy, avrebbe dovuto essere di colore rossiccio, e in realtà è una piccola nana tendente a una sfumatura albicocca. La parziale delusione delle aspettative iniziali non ha affatto intaccato l’amore che ho provato per lei sin da subito, nonostante i primi tempi siano stati tostissimi. Più di una volta, mentre constatavo che il parquet era il suo gabinetto personale, ho pensato «Ma chi cazzo me l’ha fatto fare?», e la solfa non cambiava quando acquistavo l’ennesimo pacco di crocchette gourmet (agnello, zucca e mirtillo: me le sarei mangiate io) che lei puntualmente schifava. Sto divagando. Con l’andare avanti dei mesi Zelda e io abbiamo risolto le nostre reciproche divergenze, e ora quest’esserino straordinario di tre chili e mezzo è diventato non solo il terzo membro della famiglia, ma la mia ragione di vita.

Alla luce di tali presupposti e da madre fiera dei progressi della propria prole quale sono, non nego che – non appena è scattato il lockdown della Lombardia e poi di tutt’Italia con il decreto #IoRestoaCasa – la mia principale preoccupazione è stata la gestione del cane: no Zelda, non torneremo alla schiavitù della traversina, a costo di imbacuccarmi come Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia tu non perderai le tue buone abitudini e io l’utilizzo della schiena, di ciò puoi starne certa. Già sapevo, grazie a un filo diretto con il veterinario e a una mole consistente di informazioni raccolte online, che gli animali domestici non sono portatori di coronavirus. Il panico attorno a me iniziava a dilagare, eppure io, forte di tale sicurezza, mi sentivo stranamente tranquilla, conscia che il più consisteva nel capire cosa fosse più o meno permesso, e nel mettere a punto una logistica a prova di bomba. C’è di buono che – essendo figlia di una professoressa di lettere – la disciplina è sempre stata un punto fermo della mia educazione, e quella stessa disciplina è stata ovviamente trasferita anche al mio cane. Non importa se la sera prima sono andata a dormire alle undici o se ho tirato fino alle tre di notte sbevazzando con gli amici: alle sette e tre quarti (toh, le otto al massimo) suona la sveglia e non esiste santo o eccezione, ché la Zelda mica se la può tenere all’infinito.

In una situazione in cui di normale non c’è nulla, il dovere – fisico e morale – di «portare giù il cane», in particolare al mattino, mi sta aiutando non poco a non scivolare nella pigrizia e nell’indolenza. D’altronde, il netto calo lavorativo che la pandemia ha portato con sé è una piaga non da ridere per noi freelance, e la mancanza di impegni stringenti (sommata alla reclusione forzata) rischia di generare mostri esattamente come il sonno della ragione. Ma non è il mio caso. Ho imparato a calcolare al millesimo la resistenza del mio cane così da programmare uscite chirurgiche: tre al giorno in totale, tre giri dell’isolato durante i quali io ne approfitto per svuotare la mente e lei il resto, compensati da lunghe sessioni di tiro della pallina in casa, per la gioia dei miei vicini del piano di sotto.

Essendo un’entusiasta sostenitrice del mio quartiere, nei dintorni di piazza Buozzi la Zelda è una specie di celebrità in grado fermare (nel vero senso della parola) le masse: conosce la tintora, il tabaccaio, il farmacista, le cassiere del supermercato, il titolare del negozio d’animali che ogni mese la lava e, chiaramente, quasi tutti i cagnetti della zona. Il mio personale bisogno di socialità – che non è mai stato così alto, forse in reazione all’isolamento imposto dall’alto – viene in parte appagato proprio da questi rapidi e fugaci incontri con i proprietari degli amici del mio cane, che si risolvono in conversazioni urlate dai capi opposti del marciapiede, mantenendo la distanza di sicurezza e i guinzagli perennemente in tensione. Abbiamo voglia di guardarci in faccia, di parlare, pure di sparare due battute e di confrontarci sulle rispettive routine: l’argomento caldo del periodo sono le salviette disinfettanti per le zampe alla clorexidina (funzioneranno sul serio?), ma anche l’organizzazione dello spazio domestico per lo smart working, le serie tv e film da vedere, dove andare a fare la spesa per non beccare la fila. Si tratta di scambi brevi che nessuno dei due interlocutori vorrebbe mai interrompere, perché ci lasciano penzolare per qualche minuto attaccati al ricordo di un’epoca pre-Covid fatta di abbracci, baci sulle guance e caffè al bar. Noi canari però siamo persone pratiche, e cerchiamo di raccattare le briciole di convivialità che rimangono facendocele bastare per almeno ventiquattr’ore, nella speranza di ulteriori appuntamenti fortuiti e non preventivati che – senza i vari Zelda, Coco, Teo, Mirta, Deejay e compagnia bella – ci sarebbero preclusi.

La mia quotidianità, a eccezione dei giretti la cui durata s’è dimezzata, non è cambiata poi così tanto: lavoravo da casa prima e lavoro da casa adesso, solo con più tempo da dedicare a quel pupazzo in carne e ossa che m’osserva adorante e mi segue ovunque vada. Sì, forse sarà la fortuna di possedere un cane e doverlo accudire a salvarmi – se non altro da un punto di vista psicologico – dalla quarantena, unita al fatto (non di poco conto) che la Zelda è l’unico essere con il quale interagisco che non ha la più pallida idea di ciò che sta succedendo e che non mi chiede né spiegazioni, né rassicurazioni. Il mio cane, in un certo senso, è diventato il gancio che mi tiene ancorata ad abitudini che non ho stravolto; a consuetudini che non sono state completamente intaccate da divieti, dalla paura e dall’angoscia generale; alla “vita precedente” che talvolta rischia d’apparire molto, troppo lontana.

«Guarda che con un figlio è la stessa cosa. Anzi, non è una cosa nemmeno paragonabile!»: già li sento (e li ho sentiti pure di recente), gli estremisti appartenenti al partito dei piccoli esseri umani che mi danno dell’egoista e della stramba perché non mi converto al loro credo politico, e che prendono la questione come una gara a chi è più virtuoso. Con l’età e la saggezza da essa derivata, ho imparato a non ribattere e a lasciarmi scivolare addosso scetticismo e diffidenza, evitando di infierire ulteriormente: tutta la mia solidarietà e comprensione ai genitori che preferirebbero un elettroshock alle scuole e agli asili chiusi fino al 3 aprile, ma non abbiatecela con me, se continuo a preferire la Zelda.

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