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Sanremo è terminato, il Truman Show in cui viviamo invece non finisce mai

Angelina che vorrebbe essere Rosalía ma suona come i Gipsy Kings, la sala stampa da sostituire con una giuria di stilisti, i marchettoni, la guerra tra ultras. Viviamo in una simulazione col televoto al posto della democrazia, anche fuori dal Festival

Foto: Daniele Venturelli/Getty Images

Alberto Piccinini: La buona notizia è che è finito il Festival. La cattiva notizia è che continueranno a scrivere canzoni di merda, qualcuna ci piacerà pure. La pessima notizia è che dal Festival di Sanremo ci si risveglia, dal Festival del Mondo, insomma dal Truman Show no, mai. Dico Truman Show di proposito perché il termine l’ha usato Ghali nella sua canzone, e ha usato anche la metafora dell’alieno che guarda il mondo da un oblò come avrebbe detto quell’altro poeta, che è tutta roba desueta e facile, poteva fare meglio. Però quando alla fine di tutto ’sto teatrino l’altra notte all’Ariston ha pronunciato l’ultima battuta «Stop al genocidio» come se avesse messo la testa fuori dalla finestra e noi con lui, beh io l’ho votato. Ovviamente il voto non è stato conteggiato, ma a questo dovremmo esserci abituati. Né voglio fare il complottista boomer, ci mancherebbe, però mi sembra perfetta in questa mattina fredda e grigia in cui Sanremo ci appare di nuovo più lontano di Natale e Capodanno, la sensazione redpillata di poter dire che La cumbia della noia di Angelina Mango è l’ennesimo discount milanese da settimana della moda, vorrebbe essere Rosalía, ma suona come i Gipsy Kings, quanto al testo pop esistenzialista di Madame, bah, mi sembrava più estrema la Romina Power del Ballo del qua qua (“basta aver coraggio/ all’arrembaggio col qua qua qua”, kamikaze in piena stagione della caccia). Geolier se la tira certamente di meno, ma la Napoli moderna l’hanno inventata Liberato, i gol di Osimhen e Airbnb ai Quartieri Spagnoli. Preferisco gli originali. Il resto per fortuna l’ho già dimenticato.

Giovanni Robertini: Hai ragione, Sanremo è sempre più milanese, una Ciny o una Rozzi con il mare, l’aveva già scritto l’anno scorso alla fine del festival versione Ferragnez il nostro collega Mattia Carzaniga. Anche a ’sto giro, come da tempo, lo styling dei cantanti racconta molto di più delle trascurabili canzoni quello stanco iperoggetto che è Sanremo. In questi giorni ho sfogliato tutte le gallery online con le pagelle dei look, evitando con cura la moribonda critica musicale – sia quella pimpata da ogni tipo di marchetta che si aggirava per i party dei caruggi, sia quella lasciata a casa che ci voleva catechizzare all’astinenza – e ho pensato alle nostre amiche stylist ai tempi di MTV, oggi intervistate su Corriere e Repubblica in qualità di oracoli, e a come silenziosamente, nascoste dietro a grucce, relle e borsoni di vestiti abbiano conquistato negli anni anche l’immaginario da vacanza Valtur di Fiorello e Amadeus. Le tutine Michael Jackson di Ghali, i pizzi dei Santi Francesi, il monospalla di Mahmood sfidano l’abito da festa un po’ tamarro di Geolier, è Settimana della moda contro Febbre del sabato sera – il link con Travolta è questo, scarpe infortunistiche a parte – di Eros, Ama e Gigi. E per questo trovo ancora più ingiusta la vittoria di Angelina Mango, col voto ribaltato da una Sala stampa che non esiste più, non ha più voce da nessuna parte se non a Sanremo, e quando ce l’ha quasi sempre non capisce un cazzo. Propongo di sostituirla con una giuria di stilisti milanesi e sarti napoletani presieduta dal tipo della protesta dei trattori che indossa il Carhartt, altro che U-Power, pure il workwear ha bisogno di una rinfrescata di contemporaneità.

AP: Bravo. Io una cosa non vorrei dimenticare del festival e della settimana intera in cui a casa m’è rimasta la televisione accesa come in un vecchio romanzo di Bret Easton Ellis: il caso del Ballo del qua qua e delle scarpe di John Travolta. Dunque: Fiorello inventa il suo solito sketch da villaggio vacanze, il ballerino di Grease e quello di Pulp Fiction faranno il ballo del qua qua, tormentone internazionale, matte risate. John Travolta arriva con ai piedi le scarpe bianche di U-Power nuova collezione di cui sarà prossimo testimonial. Il marchettone. Tutti noi che portiamo le Salomon da montagna e i giubbotti Carhartt sappiamo che U-Power è the real thing, il vero stile dei muratori e degli idraulici, e siamo preoccupati da un’eventuale deriva borghese del marchio. Da qualche mese il signor U-Power che sta a Novara fa degli spot intrisi di puro boomerismo trumpiano, con Diletta Leotta pin-up stile anni ’80, con l’attore di action minori Gerard Butler e ora pure con John Travolta. Cultissimi. La voga ha un seguito: c’è uno Schwarzenegger che trapana coi trapani Lidl, c’è pure un Rocco Siffredi idraulico che ripete il vecchio claim di uno spot Fiat anni ’90 («Buonaseeera») doppio cult. Dico boomerismo trumpiano comunque iperpatriarcale ma non so, riflettiamoci, ci sarà magari un sottofondo gaio nelle divise degli idraulici non solo Pornhub. Sono d’accordo con te: il segnale dello stile non mi pare da prendere sottogamba, adesso che abbiamo i trattori alle porte, gli operai e i contadini ci fanno di nuovo impressione ma non per i motivi di un tempo.

GR: Certo, però la vera quota boomer, il cringismo “politico”, appariva tra una canzone e l’altra, Sanremo sembrava avanguardia in confronto alle pubblicità delle fiction di Rai 1, bandiera dell’egemonia culturale della nuova destra. Per un nobile «stop al genocidio» c’erano cento spot di Mameli, la battaglia è impari e c’è poco da star allegri. Ho letto il tweet polemico dello scrittore Jonathan Bazzi sul fanatismo identitario dei sostenitori di Geolier, accusati di essere troppo tifosi, quasi ultrà. À la guerre comme à la guerre, caro Bazzi! Tifiamo e facciamo caroselli, hackeriamo il sistema e prendiamo fuori i nostri cinque cellulari dalla tuta gold per votare Geolier, o Ghali, o chi ci pare. Arriviamo col trattore in sala stampa e sventoliamo la bandiera del Napoli davanti al poretto che voleva escludere la Campania dal voto. Già che ci siamo facciamo pure una fiction su Osimhen che faccia precipitare Mameli all’1% di share e mettiamo nei nostri reel Ghali che risponde alle polemiche dell’ambasciatore israeliano accanto a Mara Venier che gli dice quanto è sexy. Ma non chiamiamola democrazia, semplicemente televoto.

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