Resident Evil 2 e l’arte della fuga | Rolling Stone Italia
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Resident Evil 2 e l’arte della fuga

Il remake del classico del 1998 è ancora rilevante nel 2019, perché ci ricorda che i videogame possono andare oltre l'azione e puntare sull'atmosfera

Nel 1998, quando il secondo capitolo della saga survival-horror su un’invasione zombie di origine biotech apparve per PlayStation 1, i videogame stavano ancora capendo se era il caso di imitare il cinema oppure trovare una propria strada. Resident Evil 2, con la sua grafica stupefacente per l’epoca, una regia che muoveva il punto di vista per favorire suspense e colpi di scena, una sceneggiatura perfetta e un sonoro degno di Hollywood, era un’avventura in cui l’atmosfera aveva chiaramente più importanze dell’azione, ma al tempo stesso era uno dei giochi più avvincenti mai apparsi prima, che ha contribuito a far prosperare il franchise fino ai giorni nostri. Non tanto grazie alla sua vita parallela al cinema – che comunque ci ha regalato più minutaggio su pellicola di Milla Jovovich di quanto potevamo sperare all’inizio – ma per l’ultimo, potente capitolo che nel 2017 ha dato nuova vita alla serie: Resident Evil 7: Biohazard.

Il 25 gennaio, Resident Evil 2 ritorna in una versione remake (per PS4, Xbox One e PC), tanto ripensata e levigata da essere quasi un gioco nuovo. Una versione demo one shot di mezz’ora, non rigiocabile ma che immerge immediatamente nell’azione, è stata scaricata da oltre un milione di persone nel mondo – a testimonianza non solo della fortissima nostalgia che pervade chi è stato giocatore vent’anni fa, e di quanto sottovalutati siano questi “inviti all’acquisto” oggi in disuso, ma anche dell’interesse verso un tipo di gioco diverso dal solito: meno frenetico, più legato all’esplorazione e alla tattica, e meno all’azione.

Celeste (Matt Makes Games)

Perché è vero, in Resident Evil 2 al giocatore è richiesto di utilizzare armi e risolvere puzzle, i due cardini intorno a cui ruotano ancora 3/4 dei titoli blockbuster, da Tomb Raider a God of War. Ma queste armi non sono poi così efficaci contro gli zombie che infestano la stazione di polizia di Raccoon City, dove si svolge gran parte dell’azione. E le munizioni sono rare. Per questo, vi ri-troverete, come vent’anni fa, a scappare un sacco. Certo, col procedere del gioco avrete armi più potenti. Ma anche i nemici saranno tali. Spesso dovrete scegliere se mirare alla testa, col rischio di sprecare proiettili, (l’andatura ciondolante tipica degli zombie non aiuta) oppure mirare alle gambe, per atterrare e almeno rallentare i vostri inseguitori.

Lungi dall’essere frustrante, questa vulnerabilità dei protagonisti è una ventata di aria fresca nel mondo dei videogame. Uno dei giochi migliori del 2018, Celeste (sviluppato da Matt Makes Games), un delizioso platformer dalla grafica retro disegnata a mano e dal gameplay perfetto, è affascinante proprio perché privilegia l’abilità e la coordinazione del giocatore all’esigenza di far fuori qualcuno. Nei panni della protagonista (la rossa ragazzina del titolo), dobbiamo scalare una montagna per riacquistare fiducia in noi stessi. Ogni tanto, qualche personaggio che incontriamo ricambia la nostra gentilezza cercando di ucciderci, e noi possiamo fare soltanto una cosa: scappare. E farlo sotto pressione, attraverso un percorso a ostacoli diabolicamente difficile, per quanto mai ingiusto verso il giocatore, è l’aspetto di Celeste più interessante. È possibile essere eroi, o meglio eroine, anche se disarmati.

Alien: Isolation (The Creative Assembly/Sega)

Un altro titolo di qualche anno fa, che però ciclicamente ritorna come esempio di una dinamica di gioco diversa, è Alien: Isolation (2014). Oltre che per una ricostruzione perfetta delle scenografie e delle atmosfere del film originale del 1979, il titolo sviluppato da Creative Assembly è memorabile perché metteva uno contro l’altro una protagonista femminile (la figlia di Ellen Ripley) e l’implacabile alieno creato da Giger/Rambaldi. E come nel film diretto da Ridley Scott, con l’Alieno non si combatte: lo si evita. I proiettili non hanno altro effetto che farlo incazzare ancora di più. Quindi ci si nasconde, oppure si scappa – anche se in genere, quando l’Alieno ci ha trovati, è già troppo tardi.

Ancora, in Little Nightmares, la piccola protagonista dall’incerata gialla deve scappare da mostri antropomorfi (caricature di vecchi con braccia che si allungano a dismisura o cuochi tanto grassi da essere deformi) verso cui è inerme. Anche qui, per procedere nel gioco si può soltanto cercare di non essere scoperti, oppure fuggire il più velocemente possibile. Come nella maggior parte dei giochi di questo tipo, quello che si perde dal punto di vista dell’azione viene guadagnato sotto forma di tensione, anche grazie all’audio ricchissimo di suoni ambientali inquietanti.

Little Nightmares (Tarsier Studios/Bandai Namco)

Questa è solo una manciata di titoli tra i tanti che cercano, con un certo coraggio, di costruire una storia alternativa dei videogame. Ma il ritorno in grande stile di Resident Evil 2 – e la sua introduzione a una platea di nuovi giocatori – è un buon segnale per l’evoluzione futura di questa industria. Nel 2019 Resident Evil 2 è ancora rilevante non per la grafica aggiornata o perché si senta la mancanza di titoli horror, ma perché ci ricorda che i videogame hanno un potere che gli altri media non hanno: quello di rendere unico il nostro ruolo all’interno del racconto. E come in amore, a volte la miglior soluzione è la fuga.

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