Pillola anticoncezionale e contraccezione ormonale: in Italia non ce la faremo mai | Rolling Stone Italia
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Pillola anticoncezionale e contraccezione ormonale: in Italia non ce la faremo mai

La scarsità di medici non obiettori non sarebbe un problema se pochissime donne ricorressero all’aborto perché sanno come non rimanere incinte: allora come mai politica e movimenti femministi continuano a focalizzarsi sull’effetto, anziché sulla causa?

Pillola anticoncezionale e contraccezione ormonale: in Italia non ce la faremo mai

Foto: Unsplash

Non voglio usare l’aneddotica personale per spiegare fenomeni e situazioni sociali, ma. Nel mio circolo di amiche e conoscenti – tutte donne mediamente sopra ai trentacinque anni, istruite, indipendenti, in maggioranza single, sufficientemente scafate e navigate – sono l’unica a utilizzare la pillola come metodo contraccettivo. Chiunque si affida, se non al preservativo (la verità? All’HIV, alla clamidia, all’HPV e al resto ci pensiamo il giusto, il che è sia un dramma che un altro paio di maniche), al sistema più vecchio e fallibile del mondo: il sempreverde salto della quaglia. Il che, oltre a essere scomodo – dove? Sulle lenzuola? In mano? Addosso? Per terra? Ma perché sobbarcarsi simili preoccupazioni in quel momento? – e un po’ squallido in senso stretto – per le medesime ragioni – è anche la Brebemi per la gravidanza. Che nessuna di noi ricerca o desidera.

L’idiosincrasia tutta italiana nei confronti della pillola, la cui efficacia (se assunta correttamente) è pari al 99%, è uno di quei temi che più mi turba e mi causa nervosismi. L’adozione della contraccezione ormonale per via orale in Italia è bassissima, limitata al 14% della popolazione femminile in età fertile contro il 22% del resto d’Europa, e il dato italiano è addirittura in calo. Il tasso d’abbandono è altissimo: dopo un anno, circa il 30% delle donne smette la pillola il più delle volte per piccoli effetti collaterali come aumento di peso, lieve calo nella libido, perdite irregolari. Grattacapi che, a fronte di un buon rapporto col proprio ginecologo, possono essere aggirati con un cambio di progestinico: se quando ho mal di testa ho a diposizione il paracetamolo o l’acido acetilsalicilico, allo stesso modo se non voglio un bambino posso contare sul dienogest o sul gestodene (per citarne due tra i tanti) e decidere quale fa al caso mio in base alla risposta del mio corpo.

A ogni modo, il risultato non cambia: da un lato c’è l’ormonofobia, ossia la diffidenza che molte donne nutrono verso i contraccettivi o la terapia ormonale sostitutiva e che cavalca la tendenza ‘naturalista’ che investe – oltre all’ambito alimentare – pure quello medico. In secondo luogo, il fatto che nel nostro Paese l’aborto sia ancora vissuto come una forma di contraccezione d’emergenza totalmente gratuita (o, meglio, a carico dello Stato e dunque dei contribuenti). Poi, una forte resistenza da parte degli specialisti di illustrare approfonditamente le diverse possibilità a disposizione di chi non desidera figli per le ragioni più disparate – che rimangono insindacabili e ingiudicabili, a partire dalla più banale e innominabile: mi piace il sesso, non mi piacciono i bambini.

A seguire, la mancanza di una comunicazione forte, incisiva e adeguata che parta da un presupposto fondamentale: un alto numero di aborti coincide con il fallimento di una campagna contraccettiva che spieghi come prevenire una gravidanza. Paradossalmente, la scarsità di medici non obiettori non rappresenterebbe un problema se ci fossero pochissime donne che ricorrono all’IGV poiché sanno come non rimanere incinte: perché allora politica e movimenti femministi continuano a focalizzarsi sull’effetto, e non sulla causa?

Infine, una totale e sconfortante ignoranza: «Non c’è dubbio che la pillola non sia uno strumento perfetto» – spiega Emilio Arisi, ginecologo e presidente della Società Medica Italiana per la Contraccezione su Elle – «Ma è anche vero che gli effetti positivi siano spesso sottaciuti: si preferisce allarmare sul tumore al seno, mentre è difficile leggere titoloni sulla protezione del rischio di cancro al colon, all’endometrio, al sistema linfoemopoietico e all’ovaio, tra i più temibili per le donne». L’assurdità è che, oggi, la pillola riduce la mortalità delle donne che la usano rispetto a quelle che non la usano, nonostante la narrazione popolare l’additi tuttora tra le principali cause di cancro alla mammella – correlazione che è stata ridimensionata da più parti: per le utilizzatrici il rischio complessivo di incappare in tale malattia oncologica, in generale, rimane basso.

La recente decisione dell’AIFA di prolungare ulteriormente un’istruttoria che va avanti da mesi – pillola anticoncezionale gratuita in farmacia per le donne sotto i venticinque anni – era prevedibile e non sorprende. A differenza di Paesi come Francia (con una legge approvata il mese scorso), Belgio, Regno Unito e Svezia, in Italia i contraccettivi orali non sono né gratis, né mutuabili: soltanto tre regioni (Emilia-Romagna, Toscana, e Puglia) prevedono una qualche forma di gratuità della contraccezione distribuita nei consultori per specifiche categorie di persone e comunque con molte limitazioni, ma anche qui il problema sta a monte. Non è tanto il costo della pillola a essere proibitivo – in base alla tipologia, si va dei cinque ai venti euro al mese –, quanto quello della visita ginecologica per farsela prescrivere. È difficile che quindici euro al mese siano in grado di spostare il bilancio famigliare di una donna; al contrario, un consulto richiesto privatamente comprensivo di pap test si attesta in media tra i duecentocinquanta e i trecento euro.

Di nuovo, la questione causa-effetto: forse bisognerebbe battersi affinché il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2017 – sull’aggiornamento dei servizi e delle prestazioni che il servizio sanitario nazionale è tenuto sempre a offrire per una procreazione libera e responsabile – venga finalmente attuato, permettendo alle donne di rivolgersi a un ginecologo gratuitamente, evitando lunghe attese o di incappare in uno sprovveduto. Forse allora quei quindici euro al mese, a fronte di informazioni puntuali, precise e corrette, nonché di un reale supporto medico, peserebbero meno non soltanto a livello economico, ma anche a livello psicologico.

Morale, non se ne esce, o, meglio, se ne esce soltanto se si hanno i mezzi – economici, culturali e caratteriali – per pretendere di avere una contraccezione in linea con le proprie esigenze. Perché contrariamente a qualsiasi discorso fatto e rifatto su patriarcato, sessismo e affini, la verità è sempre e soltanto quella: scegliere di avere un figlio, così come scegliere di non averlo, è ancora, fin troppo spesso una questione di classe. E pochi, anzi, quasi nessuno, ha il coraggio non solo di ammetterlo, ma pure di agire per facilitare entrambe le decisioni alle donne.

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