Perché gli artisti italiani sono diventati incapaci di prendere posizioni politiche? | Rolling Stone Italia
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Perché gli artisti italiani sono diventati incapaci di prendere posizioni politiche?

Mentre Motta non si è fatto problemi ad attaccare la giunta leghista che l’ha invitato a suonare a La Spezia, Cortellesi, Borghi e Amendola commentano la violenza ai ragazzi del Cinema America con frasi di circostanza

Perché gli artisti italiani sono diventati incapaci di prendere posizioni politiche?

Vorrei segnalare un fatto per me terribile. A sei mesi dal 2020, cioè a cinquant’anni dagli anni della contestazione, gli anni Settanta, in cui si è sgomitato, prima, e sparato poi, per l’affermazione degli ideali egualitari e anti-autoritari che animano le coscienze dell’Italia migliore, la gioventù italiana è ancora disprezzata. Derisa e minimizzata. Basti notare come sono state trattate sui social network, ossia la nuova moralità pubblica, quotidianamente aizzata da Matteo Salvini, le coraggiose e attive scelte di vita di Silvia Romano, rapita in Kenya, o degli studenti del Liceo Tasso di Roma, autori lo scorso anno di un’occupazione politicamente netta sui temi caldi del governo. Per non parlare degli alunni del Vittorio Emanuele di Palermo o del gioco al massacro fatto sulla pelle dei giovanissimi Ramy e Adam, additati prima come opportunisti, bugiardi, egocentrici e mitomani, per poi diventare “piccoli eroi” su comando del Ministro degli Interni e del suo staff.

È di pochi giorni fa, l’attacco social subito da Motta, trentenne vincitore del premio della critica allo scorso festival di Sanremo, a seguito di un concerto in Liguria. “Parole ricolme di pregiudizi gratuiti e maleducati” nei confronti di chi “lo ha ospitato e soprattutto pagato”: è quello che ha scritto in una lettera il sindaco leghista di La Spezia, offeso dall’incipit del cantante prima di Dov’è l’Italia. Motta ha spiegato: “Il ritornello me lo ha ispirato un pescatore di Lampedusa che ha incontrato di notte i barconi pieni di profughi. Ho piacere di suonare davanti a tanta gente in un concerto gratis grazie al contributo del Comune, ma una cosa devo dirla: mi dissocio non solo dal sindaco ma da tutta quella gente che deve crescere e girare il mondo. Lo so, non lo dovevo dire ma l’ho detto”. Ovviamente c’è stato un attacco immediato su qualsiasi piattaforma on-line, soprattutto su Facebook. Una spremuta di “Se vuole fare il sindaco si candidi”, “Non canta, va in cerca dello scandalo” e “I cantanti devono cantare non parlare”; tra l’altro, tutti figli dei vecchi adagi già collaudati dal vicepremier. Alla fine, qualcuno ha suggerito al primo cittadino, per la prossima estate, di andare sul sicuro, chiamando un sovranista, “magari Povia”, e chi sa se la cosa non si concluderà davvero in questo modo.

È presto per dire quanti spezzini condividano questa idea, dimostrando così di avere pessimi gusti musicali oltre che politici, e quanti invece vorrebbero di nuovo l’ex-Criminal Jokers o qualcuno di simile, ma politologi e sociologi – due categorie molto realiste – continuano a ribadire che il reddito di cittadinanza è amato particolarmente dalla pigra gioventù e che il “prima gli italiani” per tanti è un chiaro ritorno ai giusti valori della nostra identità; perciò appare impossibile che un’opposizione al governo possa ribaltare il tavolo così, di punto in bianco, tanto più se viene da dei ragazzi. Sara Gama? Corra, faccia correre e stia zitta. Rubio? Ci faccia un buon piatto di cacio e pepe, senza fare politica. Zerocalcare? Che scriva fumetti, si limiti a quello. Addirittura: i cantanti? Lascino perdere i migranti e la politica, cantino e basta. Gli attori? Che si preoccupino di fare bei film senza rilasciare interviste sul presente. Ecco, questo genere di frasi sono sempre pericolose. Perché le parole, specie se ripetute incessantemente, non restano mai solo parole. Nella migliore delle ipotesi radicalizzano i discorsi, estremizzano i sentimenti, fortificano l’attitudine. Nella peggiore, come sembra che invece stia avvenendo, si inizia a prenderle per plausibili e ad agire di conseguenza.

Ne sanno qualcosa i ragazzi del Cinema America, che nel giro di qualche settimana si sono dovuti subire a raffica le dichiarazioni generiche di Alessandro Borghi (“Non sono fascisti, sono parassiti”), Claudio Amendola (“Attacchi vili e codardi”) e Paola Cortellesi (“Diffondono cultura senza fare politica”) riferiti a loro o ai loro aggressori. Partendo dal presupposto che, come indossare una maglia dei Ramones non fa di te un punk, indossare la maglia di un cinema non fa di te un antifascista, la domanda resta una: quindi, di che stiamo parlando? Come mai si sente quest’aroma di pavidità e auto-censura da parte di persone adulte che dovrebbero rappresentare (almeno una parte) degli intellettuali nostrani? Intendiamoci subito: io sono ben lungi dall’essere perfetto, e potrei portare molte testimonianze a riguardo. Però non mi riconosco in queste dichiarazioni, e se devo dirla tutta non ci riconosco neanche una fetta dei miei amici vicini ai ragazzi del Cinema America, se non assai genericamente, e solo in certi casi. Sorvolando la capriola di senso mica da ridere di Borghi, per cui i partigiani evidentemente hanno combattuto i parassiti e non i fascisti, e l’abc del luogo comune di Amendola, manco fosse Alemanno durante raid di CasaPound nel 2009, mi soffermerei sulle parole di Paola Cortellesi. Perché questo mettere le mani avanti? Soprattutto, in un contesto come quello odierno, dove in genere a diffondersi è l’odio razziale, diffondere un po’ di cultura non è di per sé già un gesto politico meritevole di supporto? Ci si deve forse giustificare (o magari nascondersi) se si va contro il razzismo, il sessismo e/o il fascismo a suon di film, rassegne, incontri, dibattiti e quant’altro organizzato dai ragazzi di Roma in questi anni? Non mi pare essere una buona idea: rispondere a un attacco politico dicendo che la politica non c’entra non può che peggiorare le cose. È possibile che Paola e i suoi colleghi abbiano un problema di comunicazione?

Sarebbe allora d’uopo costruirsi in autonomia un linguaggio, ancor prima che un ideale, così quando si parla davanti a una telecamera chi ascolta possa avere l’impressione che si stia davvero dicendo qualcosa. Le parole della cultura, oramai da molti anni, sono sempre uguali perché hanno sempre la stessa funzione: sono parole in risposta a qualcuno o qualcosa. Un costante, eterno catenaccio contro gli attacchi, fisici o anche solo verbali, del presente che ci ospita. Attacchi alla democrazia, ai diritti, alla Costituzione, al puro e semplice buon senso, a questo e a quello, come se l’ultimo residuale compito che rimane alla sinistra sia quello di difendere il difendibile e resistere a un futuro avverso. È un ruolo funzionalmente conservatore, che stride con il ruolo e la psicologia insita in una forza che si definisce progressista. Manca sempre, invece, il colpo di teatro, il cambio di umore, di sguardo e di energia soprattutto, sottovalutando sempre il prezzo di quel cambio mancato: la perdita radicale di identità. Bisognerebbe raccogliere le idee. Fisicamente: andare dove le idee ci sono, nel mondo produttivo e creativo, come ai concerti e tra i ragazzi dentro al volontariato, nelle nuove socialità di strada e di quartiere, e farsi spiegare bene come hanno fatto a fare le cose giuste e farle bene, a inventarsi qualcosa di buono, di energico e di allettante. C’è un qualcosa di tristemente auto-riferito, in queste tre dichiarazioni, che le rende poi non molto dissimili dal tornacontismo del sindaco di La Spezia all’opposto e le condanna ad avere occhi e orecchie solo per le proprie carriere personali. Vanno a segno se a sentirle è un fan, ma deludono totalmente un orecchio critico. Spero tanto di sbagliarmi, perché i giovani hanno bisogno di supporto autentico, non di frasi di circostanza.