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Panem, circenses e stadi

Scabrosi, eterni, necessari. Dal 30 maggio al 26 ottobre 2025, una mostra al MAXXI di Roma ci parla di mito, di architettura, e di quel bisogno di gridare tutti insieme davanti al gesto sportivo

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Archea Associati, Nuovo Stadio Nazionale dell’Albania, Tirana 2019

Courtesy Archea Associati. Foto: Pietro Savorelli e Associati

Volendo parafrasare Flaiano, a Milano la situazione è grave ma non seria — e quella dello stadio San Siro, più che una questione urbanistica o calcistica, è diventata una metafora antropologica del nostro tempo. In una città che si nutre di storytelling, real estate e rendering 3D, il Meazza è oggi un organismo semi-vivo, una reliquia pop circondata da un culto laico. Memoria collettiva che nessuno ha il coraggio di togliere di mezzo del tutto, ma che tutti vorrebbero ristrutturare come si fa con un parente ingombrante: lasciandolo in salotto, ma cambiandogli i cuscini.

E così eccoci: Milan e Inter, in cerca di nuovo blasone, si mettono d’accordo per comprarlo, questo stadio, e farci qualcosa di “più moderno”, “più redditizio”, “più corporate”. Un’operazione da 73 milioni — cifra che, a detta di molti, è una svendita e pure un po’ un insulto — per poi ridurre i posti destinati ai tifosi da curva a 62.000, perché 9.000 sedie devono andare a sponsor, partner, clienti premium, magari con finger food e hostess in cravatta. Altro che panino con il salamino al terzo anello.

C’è chi protesta, chi minaccia sit-in e chi si arrampica sui tornelli come fossero barricate. Il sindaco Sala alterna frustrazione e rassegnazione. La Procura indaga. E il Meazza, intanto, sta lì, a ricordarci che lo stadio non è un parcheggio emozionale, ma un luogo di culto dove si celebrano liturgie laiche: dalle amicizie ai lutti, dalle adolescenze bruciate in un derby alle paternità scoperte sul divano della curva.

In fondo, gli stadi sono i nostri ultimi templi collettivi. Luoghi dove la città si riconosce come corpo politico, anche solo per novanta minuti. «Un luogo di senso, di controsenso e di non-senso», diceva Marc Augé. Ed è proprio lì, tra il fumo dei fumogeni e la retorica degli inni, che prende forma un’antropologia spiccia ma potentissima: l’identità, l’appartenenza, la memoria.

Lo ha capito bene anche il MAXXI di Roma, che dal 30 maggio al 26 ottobre 2025 dedica la sua prima grande mostra proprio a questi spazi: Stadi. Architettura e mito, curata da Manuel Orazi, Fabio Salomoni e Moira Valeri. L’obiettivo non è celebrare le gesta di Maradona o fare l’elogio della tribuna VIP, ma restituire agli stadi il loro spessore culturale, simbolico, perfino spirituale. Perché il cemento ha una memoria — e pure una voce, se la si sa ascoltare.

Dal Panathinaiko di Atene, tutto marmo e gloria classica, al Maracanã di Rio, che ha vissuto più rinascite di una telenovela, fino ai mostri sacri contemporanei come il Bird’s Nest di Pechino progettato da Herzog & de Meuron per le Olimpiadi del 2008 o il Tottenham Hotspur Stadium con schermi a 360 gradi e tappeti elastici negli spalti (giuro): gli stadi sono diventati specchi del mondo, dispositivi narrativi, teatri civili.

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Valode&Pistre Architects Atelier Ferret Architectures
Decathlon Arena (ex Stadio Pierre Mauroy), Lille, Villeneuve-d’Ascq, 2012. Foto: Julien Lanoo. Courtesy Valode&Pistre Architects

In Europa, questa consapevolezza si fa ancora più stratificata. Il Camp Nou di Barcellona è molto più di uno stadio: è una bandiera catalana in cemento armato. L’Old Trafford è “il teatro dei sogni” non solo per i tifosi del Manchester United, ma per chiunque creda che il calcio possa essere epica popolare. E il nostro San Siro? È l’ultima cattedrale metropolitana non ancora trasformata in centro commerciale. Un luogo che, tra litigi e piani di dismissione, continua a generare storie, polemiche e poesia urbana.

Lo stesso vale per stadi come l’Artemio Franchi di Firenze, opera di Nervi padre, ora nel mirino di un restyling che rischia di snaturarlo, il Dall’Ara di Bologna, che ancora custodisce i segni del regime fascista ma anche le urla di Lucio Dalla in concerto o il Flaminio di Roma, capolavoro del razionalismo progettato da Pier Luigi e Antonio Nervi, oggi chiuso e in attesa di un futuro: architetture spesso dimenticate, ma cariche di significati — sociali, politici, affettivi. Tra una colata di cemento e una rasatura del prato, lì si sono celebrati i concerti di Lucio Dalla, i deliri del sabato pomeriggio, le preghiere laiche in ginocchio al rigore del novantesimo.

Ecco, Stadi. Architettura e mito è un invito a riconsiderare questi spazi come parte integrante del nostro paesaggio emotivo. Non più solo contenitori di folla, ma catalizzatori di identità. Non più solo impianti sportivi, ma macchine narrative.

Perché in un’epoca in cui ci raccontano che tutto può diventare esperienza “premium”, forse l’unica vera che ci resta è quella di stare fianco a fianco, sconosciuti ma uniti, a urlare per una maglia, una città, un ricordo. Lo stadio, in fondo, è una soglia tra la civiltà e l’istinto. Un laboratorio di umanità dove si vedono ancora cose incredibili: l’abbraccio tra padre e figlio al primo goal, il silenzio perfetto dopo una sconfitta, la lacrima di chi capisce, finalmente, che anche perdere può essere sacro.

E allora sì, forse il Meazza può ancora dirci qualcosa. Basta ascoltarlo — e magari, per una volta, non venderlo a saldo come un appartamento in zona Bovisa.

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