Olimpiadi invernali, che se magna? | Rolling Stone Italia
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Olimpiadi invernali, che se magna?

Lo abbiamo chiesto, vaticinando, a Tino Vettorello, che le cucine dei Giochi le conosce bene. Morale della favola: bisogna essere pronti, sempre, a tutto

olimpiadi invernali

Foto: Greg Rosenke su Unsplash

Viene il dubbio che noi italiani non siamo, poi, così appassionati di sport invernali quanto questi meriterebbero, e che ci ricordiamo di apprezzarli solo quando si presenta un grande campione nostrano, o al contrario se succede qualcosa di completamente inaspettato – una squadra di bob jamaicana o uno Steven Bradbury medagliato? Ma la verità è che per una buona parte del mondo le Olimpiadi del freddo sono attese tanto quanto quelle estive, e fidatevi, se un evento è di tale portata da far slittare in avanti l’inizio dell’unico punto fisso nel calendario civile e religioso del Paese, ovvero il Festival di Sanremo, vuol dire che la sua rilevanza deve essere decisamente notevole anche dalle nostre parti.

L’Italia infatti è il paese ospitante di questa kermesse, e nonostante abbia già dimostrato di cavarsela alla grande con Torino 2006, la verità e che quando bisogna far funzionare un evento di queste dimensioni non è mai facile prevedere e analizzare tutti i retroscena e le possibilità. La brutta figura, come ci insegnano i cugini francesi che hanno ospitato l’ultima edizione delle estive, è dietro l’angolo, e Oltralpe non hanno ancora ben digerito le critiche come quelle sul Villaggio Olimpico di Parigi, o quelle sulle camere troppo calde in mancanza di aria condizionata, o ancora quella, mai quietate, sulla controversa cerimonia inaugurale.

Ma se c’è un tema che forse ha offeso più di tutti i francesi è la pioggia di lamentele sulla cucina e l’alimentazione degli atleti: alcune delegazioni infatti hanno dichiarato che il servizio ristorazione fosse di qualità discutibile, e dalle porzioni agli apporti nutrizionali nulla si è salvato – eccezion fatta ovviamente per il celeberrimo muffin, diventato virale dopo il video pubblicato dal nuotatore norvegese Henrik Christiansen, che in un momento di pausa nel Villaggio Olimpico ha recensito il cibo della mensa, soffermandosi su un muffin al cioccolato a cui ha attribuito un voto volutamente eccessivo (11/10). Trasformando così il dolcetto un piccolo caso mediatico, ricercato dagli altri atleti, mentre sui social il “Muffin Man” è diventato virale. Ma insomma, per un paese che vorrebbe essere ricordato per il Poularde demi-deuil, o la Quenelles de brochet Nantua, non è che proprio questa sia una vittoria annoverabile tra le conquiste gastronomiche da raccontare ai posteri.

Ma come funziona davvero la logistica alimentare in un’occasione che movimenta atleti, tecnici, dirigenti, sponsor, capi di Stato, televisioni e apparati di sicurezza? Per capirlo fino in fondo abbiamo voluto parlarne con chi, in questo tipo di situazione, ci si è trovato davvero.

Prima di addentrarsi nella macchina olimpica, conviene presentare la figura che può guidarci attraverso il retroscena gastronomico dei Giochi meglio di chiunque altro, ovvero lo chef Tino Vettorello. Ambasciatore della cucina veneta, con un percorso che lo ha condotto dal ristorante Al Traghetto, sulle rive del Piave, fino agli scenari internazionali più esigenti. Imprenditore precoce, ha aperto locali come Tino Jesolo e Tino Gourmet, affinando una cucina che punta su materie prime nitide e una visione chirurgica dell’equilibrio nutrizionale.

Parallelamente ha intrecciato un rapporto stabile con il cinema: da oltre quindici anni infatti cura la ristorazione della Mostra del Cinema di Venezia, accogliendo attori, registi, produttori e delegazioni internazionali, spesso creando piatti-omaggio dedicati alle personalità del grande schermo. Questa doppia vocazione – gastronomia d’autore ed eventi globali – l’ha portato fino al riconoscimento del CIO come “Chef Olimpico”, ruolo che gli ha permesso di dirigere la ristorazione di Casa Italia a Vancouver e Sochi e di osservare da vicino la complessità alimentare dei Giochi.

Tino Vettorello

Lo chef Tino Vettorello. Foto cortesia

La prima cosa che colpisce, ascoltando Vettorello, è il carattere radicalmente itinerante della cucina olimpica. Ogni edizione richiede un esercizio di adattamento, perché non esiste un template esportabile. «La sfida più grande è mantenere l’identità della cucina italiana pur lavorando in contesti completamente diversi dal nostro», racconta parlando delle situazioni in cui si è trovato lui, e in cui ora si troveranno i suoi colleghi. Sembra una frase semplice, quasi scontata, ma basta immaginare la scena: controlli doganali per gli ingredienti che filtrano anche la più innocua delle materie prime e la necessità di garantire continuità a un repertorio che gli ospiti percepiscono come irrinunciabile.

Ma quindi che cosa significa farlo in Italia, adesso? Milano-Cortina non è soltanto un evento sportivo. È una prova di maturità infrastrutturale, una vetrina che arriva dopo anni in cui il Paese si è misurato con fragilità amministrative, accelerazioni, ritardi, compensazioni, comitati, contro-comitati. La geografia stessa dell’evento introduce una complessità nuova: due poli distanti, due territori con identità forti, una dorsale alpina che va pensata come un unico organismo. Cortina è la sintesi della mondanità alpina, Milano è la città che negli ultimi anni ha ridefinito la propria immagine internazionale. Le Olimpiadi invernali, collocate fra queste due polarità, obbligano a ripensare la gestione degli spazi, delle persone e del cibo. Nessun delegato straniero arriverà senza aspettative precise, e proprio lì si gioca una parte consistente della credibilità dell’evento.

Dunque, come si pianifica l’approvvigionamento per migliaia di persone? «Serve una pianificazione meticolosa che parta mesi prima», spiega Vettorello. «Si comincia con i fornitori locali, imprescindibili per garantire freschezza e rispetto delle norme del Paese ospitante. Poi si selezionano i prodotti italiani (nel mio caso ovviamente, ma ogni nazione fa così con i suoi) che possono essere importati senza intoppi doganali. Infine, si costruiscono menu differenziati: piatti equilibrati per gli atleti, comfort food per lo staff, proposte più articolate per gli ospiti istituzionali». Non facilissimo, insomma. «È come dirigere una piccola orchestra», dice. «Ogni componente deve entrare al momento giusto: trasporti, temperature, tempistiche, servizio».

Tino Vettorello

Lo chef Tino Vettorello. Foto cortesia

Ma cosa, della cucina italiana, va bene per tutti i Paesi? In quali ambiti anche gli atleti stranieri possono trovare soddisfazione anche qui da noi? «Alcuni elementi restano costanti. La pasta domina il panorama delle richieste. Resta imbattibile, in tutte le sue forme». Non è difficile capire il perché, essendo versatile, riconoscibile, energetica. Funziona per gli atleti, per lo staff, per chi cerca un appiglio gastronomico nella frenesia olimpica. «Il risotto conquista terreno. La mozzarella fresca diventa oggetto di curiosità quasi rituale. L’olio extravergine d’oliva si sta sempre più imponendo come grasso sano. E il tiramisù è il ragazzo-immagine transnazionale, il dolce più fotografato, replicato, cercato». Altro che muffin, insomma. Dolce con caffè, energia pura. In barba ai controlli antidoping.

Ovviamente in queste situazioni gli imprevisti, e le volte da mani nei capelli, sono all’ordine del giorno, e Tino ben ricorda i problemi che ha dovuto affrontare: «A Vancouver gli atleti comparivano direttamente in cucina, attratti dall’origine dei rofumi. Bisognava stare attenti perché sono tutti ragazzi dai sani appetiti e a vuotare le pentole ci mettono poco. A Sochi, invece, una delegazione arrivò con poche ore di preavviso, dovemmo organizzare un pranzo completo di quattro portate, e ci riuscimmo solo grazie alla rete di fornitori costruita nei mesi precedenti con cui ormai i rapporti erano buoni e non ci lasciarono senza munizioni nonostante il poco preavviso».

Questa Olimpiade lo chef la farà da spettatore, ma una sua linea, comunque, ce l’ha: «Mi piacerebbe che l’Olimpiade di Milano-Cortina fosse l’occasione per mostrare un’Italia contemporanea: legata alle radici, ma capace di innovare. La cucina italiana non è solo tradizione, è anche ricerca, sostenibilità, equilibrio tra gusto e benessere. In futuro vedo una ristorazione olimpica sempre più attenta alla qualità, alla tracciabilità e al racconto dei prodotti. Portare la nostra cucina ai Giochi significa rappresentare un intero Paese, e dobbiamo farlo con orgoglio. Ma anche con la consapevolezza che deriva dall’essere ambasciatori di una cultura gastronomica che continua a evolversi».