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Ode al cinema “sgangherabile” di Pietro Castellitto

Lo Sgargabonzi è andato a vedere 'Enea', opera seconda del regista de 'I predatori', e ci ha trovato un sacco di diorami attorno alla solitudine e alla condanna dell'essere vivi

Ode al cinema “sgangherabile” di Pietro Castellitto

Pietro Castellitto e Benedetta Porcaroli in ‘Enea’. Foto: Vision Distribution

Vidi I predatori in un cinema a Modena con la mia amica Laura, appena prima del lockdown, senza aspettarmi granché.

Anzi sapevo già cosa mi si sarebbe parato davanti: un film che tritava a dadini la borghesia, i patrizi, i leggendari “salotti bene romani” (secondo me non esistono, esattamente come le Viverne e i pedofili) e tutti quei discorsi noiosi lì. Io vengo dalla campagna della Val di Chiana, un’ex-palude, la Lousiana italiana, i miei nonni erano mezzadri e hanno fatto la guerra. Noi abbiamo due soldi perché abbiamo investito sul mattone, ma io in ogni caso mi trovo molto più a mio agio in contesti di gente benestante recanti seco spumante Fontanafredda che con le persone che t’offrono la birrettina cosiddetta “IPA”, hanno la lettiera del gatto in bagno con gli assorbenti buttati lì perché “vabbè, tanto dopo scendo” e preferiscono Truppi a Bokassa. Questo per dire che io la borghesia, se ho capito bene cos’è, non solo non la odio ma la trovo addirittura auspicabile.

Per fortuna non potevo andarci più lontano. Quello che vidi fu un film in cui la critica sociale, su cui s’appoggiarono molte recensioni dell’epoca, era solo la scorza. Pietro Castellitto raccontava con occhio clinico un mondo che conosceva bene dall’interno e che tutto aveva per respingere lo spettatore (non me). Solo che non t’instradava mai, non ti portava mano per mano in un posto dove aveva già prenotato per tutti, ma ti lasciava prendere le decisioni che volevi.

 

Davanti a uno schermo forse non mi succedeva dai tempi di Flight Simulator per PC. Castellitto racconta le sue storie con umorismo, con rabbia ma anche se all’apparenza può sembrare il contrario con uno sguardo attento all’umanità di personaggi odiosi e alla deriva, che poi quella deriva è solo la loro soccombenza di mortali, dove ci si può solo riconoscere. E pure sull’“odiosi” avrei da ridire: lo scrivo perché va scritto, ma io non li trovo mai odiosi. Anzi, a volte quasi mi viene da difendere quei personaggi dallo sguardo distaccato, implacabilmente ironico e tagliente del loro demiurgo. E, sempre davanti a uno schermo, questo istinto di protezione dei personaggi dal loro autore non mi succedeva dai tempi di Camerieri di Leone Pompucci, Happiness di Todd Solondz e Nip/Tuck, zenith di Ryan Murphy e a mani basse miglior serie di sempre. E questa così scarsa ansia di consenso mi fa sentire disintossicato, per una volta padrone dei miei pensieri e a mio agio, come solo dinanzi ai classici della New Hollywood degli Scorsese e dei Coppola.

 

Del resto Castellitto si può permettere quello sguardo affilato, perché è uno degli autori meno cinici e misantropi in circolazione. È sfrontato, arrogante, divertente, creativo (la sua regia non è mai passiva, ma ci sono sempre idee, spesso brillanti). Poi un aspetto che mi fa impazzire è che i suoi sono film “sgangherabili”, sceneggiature solide i cui mattoni sono scene madri o comunque piccole sequenze cult che funzionano anche fuori dal contesto, diorami allestiti con passione in cui ogni aspetto mira al proprio massimo potenziale, a partire dai dialoghi, sempre incisivi e insieme originali, laterali, di rinterzo. Isola al microscopio una sequenza de I predatori e già lì trovi un mondo. Viene un mio amico a casa e gli faccio vedere la scena in cui Montanini s’incazza col fratello per il vetro rotto, lo faccio con la stessa urgenza, amore ed entusiasmo di quando da adolescente avevo l’ansia di fargli ascoltare certe righe di testo letali di un disco degli Squallor.

 

Proprio perché Castellitto non fa niente per compiacermi, finisco che mi trovo coinvolto emotivamente, sfruculiato nel profondo, e non riesco sempre a individuarne i tiranti e le cremagliere. Cosa mi porta allo smottamento interiore nel montaggio alternato della famiglia Vismara ferma al semaforo dopo la visita alla madre in ospedale (che oltretutto non ha niente di grave) e la mamma stessa che, sotto le coperte, guarda in TV uno show con un bambino che canta Aeroplano (che fu la sola hit di Caterina, unico flop di Claudio Cecchetto insieme alle lattine a doppia apertura)? Non lo so, non voglio saperlo, mi va bene così. Ma potrei anche citare la sequenza in cui Bruno Parise e Ludovica Pensa ballano leggeri e divertiti a bordo piscina sulle note della dylaniana Love Minus Zero nella versione (migliore dell’originale) di Ricky Nelson, il racconto biascicato della svastica sul ginocchio durante la tragica risonanza magnetica di Bruno, Claudio Vismara con la maglietta gialla canarino che va a trovare Pierpaolo Pavone nel suo studio, il sorriso finalmente pacificato di Claudio (Montanini attore clamoroso deluxe royal edition) in carcere con gli Zetazeroalfa in sottofondo. 

 

In questi anni mi sono visto I predatori credo più di venti volte. Ho spulciato la sceneggiatura (provando invidia), l’ho acquistato su Amazon Prime e me lo sono anche preso su DVD. Perché non su Blu-ray? Perché il lettore Blu-ray un cretino me l’ha spaccato. “Ma questa è un’altra storia”, come direbbe il garbato Michael Ende nel pregevole La storia infinita.

 

È uscito Enea e già sapevo che non avrebbe potuto bissare la bellezza dell’esordio, almeno ai miei occhi. E infatti non mi aspettavo niente se non un buon film. Anzi, mi ero fatto due calcoli e già dal trailer intuivo una versione de I predatori meno distaccata e un po’ più tutto: melensa, cazzuta, retorica e compiaciuta, con personaggi che di sicuro mi avrebbero appassionato meno dei componenti delle famiglie Vismara e Pavone.

 

L’ho visto stasera e mi sono accorto che dal primo momento pendevo dalle labbra di ogni personaggio, ben attento a non lasciarmi sfuggire mezza frase (cosa che mi succede solo con le canzoni dei Baustelle e i libri di Eraldo Baldini) e ogni tanto guardavo l’orologio per vedere quanto tempo durava ancora perché volevo trattenermi il più possibile in quella cena di Natale con il racconto del capitone, e intuivo che fuori da quel desco erano in attesa le tenebre, l’entropia e la morte. Non vado oltre perché le recensioni le so scrivere solo dei giochi da tavolo.

 

E di nuovo, Enea è ancor meno del precedente un film che trita a dadini la borghesia, ma che invece racconta la solitudine abissale e irrisolvibile dell’uomo di fronte al suo destino ultimo e l’eroismo e la condanna di essere vivi nelle ultime generazioni in cui ancora si muore e in cui si vedono morire amici e genitori e, nonostante questo, si cerca di strappare attimi di felicità mentre ci consumiamo come zolfanelli.

 

Dico solo che, anche qui, c’è un pacchetto di diorami che mi porterò dentro per parecchio. Valentino vestito da re che canta davanti alla madre Spiagge di Renato Zero con il testo cambiato e poi ma lì è troppo facile le chiacchiere di Giordano (un bravissimo Adamo Dionisi) prima al bar poi in macchina appena prima dell’agguato. Anche quando questi personaggi insopportabili mi stanno sulle balle (mai) o la commozione potrebbe apparire fuori luogo, finisco per sentirmi commosso alle lacrime, perché in quei piccoli potenti diorami vedo l’ingiustizia dell’esistenza, della natura, della vita che dura finché sei giovane (“poi comincia un’altra cosa”) e di contro la tenerezza insita nell’eterno annaspare dell’essere umano. E io non ho pianto nemmeno quando sono nato. Infatti l’infermiera pensava avessi delle tare mentali e da un’analisi del genoma risultava pure ma evidentemente sono un portatore sano.

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