Non ci siamo ancora fatti passare la voglia di fare la guerra | Rolling Stone Italia
nella giungla dovrai stare

Non ci siamo ancora fatti passare la voglia di fare la guerra

Questo dicono gli ultimi sviluppi geopolitici, ma anche l'odio online, i riarmi e un libro pubblicato da Humboldt Books: 'A War Play' di Giulio Squillacciotti

A War Play

Foto: press

Sembra ormai evidente che gli anni Venti – pur essendo quelli appartenenti al XXI secolo – assumano sempre il sapore di una rivalsa tra il prima e il dopo che non può che sciogliersi in una forma di lotta. La quale, non di rado, finisce per sfociare in conflitti armati dal sapore tragico del déjà-vu.

Per esempio, la cosa che più impressiona dell’invasione russa in Ucraina è infatti non solo l’imperialismo straccione e fuori tempo massimo di Vladimir Putin, ma le modalità di un conflitto che sembra ricalcare guerre novecentesche. Una messa in scena in senso stringentemente teatrale, che mostra il conflitto nella sua forma ancora umana nel corpo e non astrattamente tecnologica come ormai si poteva immaginare. Trincee, soldati in combattimento, carri armati e contraeree, tutto il contrario di quanto ci era stato prefigurato dall’innovazione tecnologica e ancora di più dalle armi nucleari. Le quali avrebbero dovuto dissuadere gli atteggiamenti d’instabilità fuori da ogni logica afferente all’ordine mondiale da parte dei singoli Stati-nazione.

Negli ultimi anni invece i conflitti armati nel mondo si sono decuplicati. La tensione spesso si è insensatamente alzata anche all’interno dell’Occidente, solitamente avulso da ogni conflitto fino alla più ridicola e discutibile indifferenza.

L’Europa vive invece uno dei momenti più alti di tensione dal suo concepimento nel secondo dopoguerra: le frontiere sono fragilissime, molti Stati virano verso condotte di governo autoritario e i paesi fondatori da sempre elementi di guida dell’intero continente sembrano (più) incapaci di cogliere tanto i pericoli quanto le opportunità della contemporaneità.

Dovevamo uscire migliori dalla pandemia; invece siamo impazziti, e abbiamo sviluppato grossi problemi di logica. Insieme a un tasso di aggressività che sembra negare anche ideologicamente molte delle conquiste civili ottenute alla fine del secolo scorso.

La stessa produzione culturale sembra segnalare l’esigenza di ripercorrere le tracce dello scorso inizio secolo, ritornare ai luoghi e alle situazioni che diedero forma a un conflitto che avrebbe per sempre mutato gli equilibri politici ed economici globali. Dal bellissimo film di Maura Delpero, Vermiglio, fino al romanzo d’esordio di Mara Carollo, Promettimi che non moriremo (Rizzoli), il distopico sembra essersi intrecciato con il neorealismo in una strenua ricerca autarchica di salvezza che possa agire tra l’agreste e il naturale, tra la fuga e quel distacco dal mondo da tanti sempre più desiderato. E che, probabilmente, finirà per non portare a nulla di buono.

E poi c’è Trump, che in versione no-global sembra voler tenere insieme il peggio dello sfruttamento globale, elidendo al tempo stesso il meglio di quello che le relazioni promosse dai commerci avevano realizzato. Una chiusura che viene oltretutto accompagnata da una mistica ultraconservatrice promossa proprio dai cultori di quel sogno californiano che appare oggi più simile ai deliri dell’ideologia nazista che a una visione progressista, aperta e inclusiva. Con cui evidentemente ci siamo tutti un po’ confusi a partire dagli anni Novanta, ebbri dalla facilità di soldi per alcuni e dalla facilità d’informazioni per molti.

Invece, la rete come apertura si è rapidamente trasformata nella giungla del risentimento, in cui pensieri scomposti e rancorosi hanno non solo preso piede, ma invaso le coscienze al punto da renderle pronte a tutto: dall’occupazione del Congresso all’avvallo – per la seconda volta – del peggiore Presidente della storia statunitense.

Una cura – in risposta alla pandemia – che per salvarci ci ha isolati gli uni dagli altri, rendendoci non più permeabili all’altro e alle sue inevitabili differenze, ma solo infastiditi e suscettibili. Rinchiusi in un’incomunicabilità che ci lascia come oggetti disadorni, monadi di un sistema di cui facciamo pienamente parte, però inconsciamente.

Un tempo, il presente ossessivo di questi anni, colto perfettamente da Jacopo Gassmann con la sua ultima regia teatrale, Il Golem, scritto dal filosofo e drammaturgo spagnolo Juan Mayorga e arrivato in prima nazionale questo marzo al teatro India di Roma. Tra Kafka e Borges, tra Bernhard e Sebald, Il Golem coglie l’abrasività del contemporaneo, in cui ogni parola impatta densa ed è, allo stesso tempo, emotivamente nulla. Sassi fatti esclusivamente del loro peso.

Il Golem Jacopo Gassmann

‘Il Golem’ di Jacopo Gassman. Foto: press

È un testo raffinato, complesso come essenziale nell’allestimento, che rivela una continua impossibilità al contatto: quello degli attori con il pubblico, quello degli attori con i personaggi e quello infine, forse più drammatico, che intercorre tra i personaggi stessi, sempre separati e liberi da ogni parete solo quando ogni reale riconoscibilità emotiva e storica viene annullata, come esseri la cui anima è stata lasciata in pegno.

Il Golem Jacopo Gassmann

‘Il Golem’ di Jacopo Gassman. Foto: press

Dialetticamente all’opposto eppure coerente e affine al lavoro di Gassmann è invece il progetto artistico di Giulio Squillacciotti. L’artista e regista, con A War Play – ora in libreria grazie alle raffinate edizioni di Humboldt Books con un libro d’artista -, mette in scena l’interpretazione storica di una guerra. Una forma di gioco che svela la tragicità di un gioco tutto reale, fatto di regole e condotte eppure segnato da una violenza perenne che non afferisce ad alcuna norma civile.

Da sempre interessato alla fragilità di un’Europa in crisi d’identità e deprivata da ogni pensiero politico, Squillacciotti realizza un lavoro sull’opera del pittore Giuseppe Augusto Levis che a sua volta diede forma a un’immagine stereoscopica che doveva rappresentare alcuni soldati della Grande Guerra. Un progetto dunque di riscrittura della finzione dentro alla quale scorgere da una giusta distanza le inquietanti similitudini di un secolo che si è lanciato letteralmente e insensatamente nel vuoto. Un fronte di guerra continuo, diffuso e concreto che potrebbe portare a conseguenze ancora del tutto imprevedibili quanto enormemente tragiche.

A War Play

Foto: press

La Grande Guerra rappresenta il primo conflitto globale o quanto meno è così percepito grazie alla presenza della fotografia e alla sua non meno fondamentale diffusione. L’aura fotografica soppiantò infatti totalmente la parola, per la prima volta nella Storia. Nulla di epico sarebbe mai uscito dalla bocca dei suoi reduci, spesso anzi ridotti al silenzio dal terrore e dall’impossibilità di dare un nome alla tragedia vissuta.
Un’assenza di parole che porterà il racconto della guerra al cinema grazie alla forza icastica delle sue immagini in movimento. Il cinema come veicolo di una sovrapposizione aderentissima tra reale e finzione.

A War Play

Foto: press

È attorno a questo margine anzi, interstizio che agisce Giulio Squillacciotti con A War Play. Il cui volume ripercorre il progetto artistico portando i curatori, tra cui Kamil Dalkir, Claudia Ferri, Vittoria Martini e i collettivi Cripta 747 e Arteco a interrogarsi sulla forma della percezione. Su come muti l’immaginario giocando, se così si può dire, sulla distanza temporale. Non si tratta qui infatti di tradurre, come invece avviene con Il Golem di Mayorga e Gassmann, ma di riprodurre, quasi affiancando alla realtà una finzione che diviene reale nel momento stesso in cui se ne coglie la distanza temporale. Una realtà che finisce per suggerire una possibilità, quella di un accadimento passato che ritorna prepotentemente nei corpi del presente.

A War Play

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Una necessaria presa di coscienza che sembra non appartenere però a chi oggi fomenta su più fronti una possibile guerra continua, che ha ampiamente superato i confini della dialettica per penetrare in tutta la sua violenza nei corpi degli uomini e delle donne al fronte come nelle città sotto assedio.

A War Play

Foto: press

Gli avvertimenti che il pericolo è più reale di ogni possibile immaginazione vengono anche da chi, come Giulio Squillacciotti, sa cogliere la crisi di un’identità che è intimamente comune, una presa in carico del sé oggi quanto mai necessaria e urgente se non si vuole precipitare in una caduta infinita, il cui esito non offrirà il campo (come prima) a una possibile alternativa o quanto meno a una distinzione tra vincitori e vinti. Ma solo a un nero assoluto di totale inesistenza.

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