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Nat King Cole… solo lui

Il talento precocissimo, l’attivismo black, il successo anche hollywoodiano, e quel qualcosa in più che lo pone una spanna sopra i colleghi del tempo. In una parola: ‘Unforgettable’

Foto: Franz Hubmann/Imagno/Getty Images

Il film si intitola Istanbul, è del 1957, firmato da Joseph Pevney, protagonisti Errol Flynn e Cornell Borchers. I due sono seduti a un tavolino di un locale di Istanbul. Si guardano negli occhi, mano nella mano. Bastano a se stessi, niente potrebbe distrarli. E invece succede qualcosa che li distrae, e non può che essere così. Perché al pianoforte si siede Nat King Cole (1919-1965) e comincia a cantare. La canzone è When I Fall in Love, scritta da Victor Young, il grande compositore di colonne da film, al quale ho dedicato una rubrica in questa sede. Il film è un “avventuroso” con relativa storia d’amore, un corretto prodotto hollywoodiano, ma se lo ricordi è grazie a Nat. Sempre nel suo ruolo di cantante, Cole partecipò ad altri film, e tutti ci guadagnarono.

Nathaniel Adams Coles nacque a Montgomery, in Alabama, che non era il luogo ideale se sei nero. Suo padre ebbe un’offerta dalla chiesa battista di Chicago. Fu un colpo di fortuna perché coinvolse anche la madre, che divenne l’organista della chiesa. Fu dalla madre che Nat, bambino, imparò a suonare il pianoforte. Era dotato e, quando aveva dodici anni, la famiglia gli fece prendere lezioni regolari. In breve il ragazzo assunse i registri del jazz, della musica gospel. Senza ignorare i grandi fondamentali classici. «Appena ne avevo l’occasione», dichiarava il musicista-cantante, «suonavo Bach e Rachmaninoff».

Giovanissimo, aveva già mostrato qualità straordinarie, oltre a un talento naturale e completo possedeva un’enorme energia, soprattutto gli apparteneva un dono che è di pochi: era un inventore. E poi la famiglia: suo fratello Eddie era un bassista accreditato. È con lui che incise il primo disco nel 1936, quando aveva 17 anni. Dunque la precocità, un’altra delle sue doti.

Il successo era alle porte, e si parla di precocità ma anche di esclusiva, perché Cole fu il primo artista nero ad avere un suo programma radiofonico e un suo show televisivo. Ma doveva sempre fare i conti con la sua etnia. In quegli anni non bastava il talento, e neppure il successo. Poteva accadere che un impresario fosse costretto, da influenze, a ignorare un artista nero, o a licenziarlo. A Cole accadde più volte, anche quando era popolare, e così prese posizione e per tutta la vita combatté il razzismo, rifiutandosi di esibirsi in locali dove venivano applicate le norme sulla segregazione razziale. A Birmingham, in Alabama, che pure era casa sua, venne attaccato e ferito da membri del movimento razzista White Citizens’ Council. Giurò che non si sarebbe mai più esibito in uno Stato del Sud e mantenne il giuramento.

E poi la voce, naturalmente. Nat aveva un registro che… solo lui. La sua voce era dolce ma sapeva essere decisa e potente. Buona per tutti i generi. Era corteggiato da tutti i produttori. «Dài una canzone a Nat e sei sicuro del successo». E dunque il suo repertorio è… infinito. Tante sono le pietre miliari. Nel 1951 mantiene il podio della hit parade per diverse settimane con Too Young. Tre anni dopo ottiene da Charlie Chaplin il diritto di cantare Smile, il tema che accompagna quel capolavoro che è Tempi moderni, e una delle più belle canzoni americane.

When I Fall in Love, citata all’inizio, diede il nome a un album che si attestò nelle classifiche non solo americane. Rimase in vetta al gradimento anche in Inghilterra. Dai titoli “tutti”, vale una selezione. Tutti brani cantati dalle voci più famose, da Frank Sinatra a Dean Martin, da Bing Crosby a Louis Armstrong. Ma Nat King Cole, non è blasfemo se dico che ci metteva qualcosa di più. Ecco alcuni titoli: Unforgettable, Tenderly, Mona Lisa, Love Is a Many Splendored Thing, Around the World, Fascination. Aveva solo 46 anni quando morì. Che peccato.

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