Milano, non c’è più spazio da perdere | Rolling Stone Italia
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Milano, non c’è più spazio da perdere

Caro affitti, sfratti, miraggi della sharing economy, sgomberi: la città è insostenibile, nonostante la narrazione positivista che la domina dall'era Expo

Milano

Foto: Panos Tsilivis su Unsplash

Il 15 maggio nel quadrante nord est della città di Milano, a poca distanza uno dall’altro, sono andati in scena due episodi piuttosto significativi rispetto alla situazione sociale e politica che sta attraversando il capoluogo lombardo. In via Padova 76 un centinaio circa di persone ha eretto un muro solidale respingendo l’ufficiale giudiziario e il tentativo di sfratto ai danni di una famiglia migrante, di cui i due minori frequentano la scuola del Trotter; in contemporanea in via Watteau 7 si teneva il presidio antisgombero del Leoncavallo – poi rinviato al 15 luglio – molto partecipato da tante e tanti giovani, numerosi produttori agricoli de La Terra Trema e artisti del mondo dello spettacolo, che proprio di fronte al centro sociale più famoso d’Italia sono intervenute a vario titolo, in sua difesa.

Ormai è da novembre 2024, dopo la sentenza della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, che il Leonka è esposto a una continua pressione di Prefetto, Questura e Comune di Milano. Un sentenza che rappresenta un pericoloso precedente giudiziario contro i centri sociali e autogestiti, perché condanna il Ministero degli Interni (e quindi la Prefettura) a pagare un’ammenda alla proprietà per non avere ancora disposto lo sgombero dello stabile, appartenente alla famiglia Cabassi che ne reclama la restituzione e minaccia l’intenzione di farsi risarcire per il mancato adempimento (si parla di 30.000 euro al mese).

A oggi, dopo quella non trascurabile giornata di lotta, con il presidio organizzato dal Sicet e da Abitare in Via Padova, con il sostegno di diverse associazioni del quartiere e del Comitato genitori del Parco Trotter, nonostante si sia riusciti a ottenere un rinvio di quattro mesi le risposte da parte delle istituzioni per la famiglia sotto sfratto. tardano ancora ad arrivare. E questo benché al sit-in siano intervenuti diversi consiglieri di zona, comunali e regionali che hanno promesso di occuparsi della vicenda. Tutto tace e in quartiere i problemi restano: gli sfratti per fine locazione si moltiplicano con aumenti del 30% rispetto al vecchio canone con moltissimi degli appartamenti che finiscono sul mercato delle affitti brevi turistici. Fioccano tra Nolo, via Padova e viale Monza le lock-box, i lucchetti per le chiavi, utilizzate dagli host per il check-in da remoto. Del resto anche al centro sociale Leoncavallo solo nuvole nere all’orizzonte e per il momento ancora nessuna delucidazione sul suo futuro. Nessuna notizia certa nemmeno sull’andamento delle interlocuzioni in atto, dopo che è stata presentata una manifestazione di interesse dall’Associazione Mamme Antifasciste del Leoncavallo per l’assegnazione di uno spazio comunale in via San Dionigi, verso Porto di Mare.

Cosa ci insegna il 15 maggio su Milano è presto detto: la solidarietà è uno strumento potentissimo, ma che da sola non può risolvere tutti i problemi, se la politica e i decisori pubblici abdicano al sociale. Occorrono soluzioni adeguate per risolvere problemi complessi come quelli posti dalla deflagrante crisi abitativa che colpisce i quartieri e dalla salvaguardia degli spazi sociali, come luoghi di innovazione e baluardi controculturali di elaborazione politica.

Il modello della città attrattiva inaugurato da Expo 2015 tutto incentrato sul cibo, sulla ristorazione, sul lusso, sul turismo e sui grandi eventi ha fatto ormai il suo tempo (e i suoi danni). Tutta la sua fragilità è emersa vistosamente durante la pandemia, al di là dei proclami a non rinunciare alla competitività, nel nome della garanzia della produttività: alla fine i suoi alfieri non ci hanno fatto proprio una gran bella figura, Beppe Sala su tutti. Dal 2023, anche grazie al lavoro svolto da Lucia Tozzi attraverso il libro L’invenzione di Milano la coperta corta del marketing urbano è stata descritta analiticamente, con tanto di spiegazione sottotitolata, a uso collettivo, sulle dinamiche di privatizzazione e di sussunzione della governance del territorio, ormai terra bruciata sul presunto successo del tanto decantato brand Milano.

Una narrazione che poco ha potuto nascondere di fronte alle evidenze che si sono manifestate con forza, tra l’estate del 2022 e la primavera del 2023, quando una rappresentazione meno mistificata ha iniziato a prendere spazio nel racconto mainstream attraverso le voci delle persone che venivano colpite per prime dagli effetti controversi dovuti all’assenza di una pianificazione urbanistica responsabile in città. Proprio ad agosto, il Corriere della Sera pubblicò un articolo con un’intervista, molto puntuale, dello scrittore Jonathan Bazzi, che da ex ragazzo di periferia trasferitosi in città da Rozzano testimoniava la trasformazione della metropoli denunciando gli affitti insostenibili e quanto fosse complicato trovare sul mercato privato, in assenza di un’offerta pubblica adatta al bisogno.

Non a caso, a distanza di pochi mesi, dopo lo scandalo dei fondi del PNRR sperperati su progetti di housing privati per studenti con stanze inaccessibili, a canone di mercato, si animò la protesta del movimento delle “Tende in Piazza” che mise in primo piano nel dibattito pubblico il problema abitativo e dimostrò, dati alla mano, quanto fosse complicato per un giovane vivere in una città costosa come Milano. Tutto è iniziato con la prima tenda piantata da Ilaria Lamera, una ragazza fuorisede della provincia di Bergamo, corsista in Ingegneria Ambientale, davanti al Politecnico di Milano, in Piazza Leonardo Da Vinci. Questo piccolo grande gesto diede un impulso determinante alla mobilitazione sulla casa, prima cittadina e poi nazionale, anche grazie al sostegno delle liste universitarie e ai sindacati studenteschi. Il resto è storia: la protesta contro il caro affitti e per il diritto allo studio ebbe una grande risonanza e dilagò in tutto il Paese.

Nel frattempo Milano, come molte altre città ad alta tensione abitativa, è finita nell’agone dell’overtourism, metà Disneyland e metà teatro di posa, grazie soprattutto al fenomeno incrementale delle piattaforme digitali e al successo della cosiddetta “sharing economy”, un’allucinazione di massa che nascondeva il più classico del modelli estrattivi. Siti e applicazioni come Booking e AirBnB si sono trasformati in uno strumento utile per i proprietari di casa che hanno scoperto in modo agile come organizzare il proprio business immobiliare, inizialmente pensato come un’integrazione al reddito e successivamente divenuto un catalizzatore di appetiti speculativi, venne finalizzato, alla massimizzazione del profitto, passando dall’affitto saltuario di singole stanze alla speculazione professionalizzata di società di servizi che gestiscono interi complessi di appartamenti.

La ricaduta sulle città, come a Milano, dove si contano più o meno 20.000 annunci di alloggi per affitti brevi turistici, è stata notevole, perché con il tempo si è erosa una fetta sempre maggiore di case destinate alla residenzialità di famiglie e abitanti, preferendo loro target più remunerativi. Quello della turistificazione però è un effetto che non interessa soltanto i proprietari di casa, ma anche l’assetto complessivo della città, con delle recrudescenze che interessano tutta la cittadinanza: basti pensare allo smistamento dei rifiuti, al funzionamento dei servizi pubblici o all’efficienza del trasporto locale. In questo magma, anche i residenti storici, appartenenti al ceto medio, ma più esposti alla precarietà abitativa, sono finiti ai margini della città, o fuori dall’area metropolitana. Per questo il mercato delle locazioni turistiche è una parte del problema e deve essere governato, perché se è vero che molti proprietari di casa hanno convertito le loro abitazioni in imprese ricettive, grazie soprattutto a un vuoto normativo e a una fiscalità agevolata, di cui hanno goduto non poco per fare affari, oggi è impensabile continuare a immaginare che questo mercato non venga regolato al più presto, supplendo a tale anomalia di sistema, nella filiera turistica urbana.

La crisi abitativa però non è legata solo a studenti, a giovani lavoratori precari o al turismo, ma è il prodotto di precise indicazioni politiche. La gravità della situazione milanese è particolarmente acuta e riconosciuta nel suo stato patologico relativamente da poco ma arriva da lontano: da più di dieci anni di amministrazioni di centrosinistra, a geometrie variabili, tutte a trazione democratica, prima con Pisapia e poi con Beppe Sala. Le quali hanno puntato, con le loro Giunte, sull’attrarre investitori e capitali privati senza considerare il fabbisogno reale di chi vive la città e ha bisogno di garanzie sociali. In questo senso la vicenda del “Salva Milano” è divenuta paradigmatica, anche nel tentativo di Sala, Giunta e Consiglio comunale di nascondere la polvere sotto il tappeto, invocando una norma nazionale che avrebbe legittimato ma danneggiato tutta l’Italia, con l’estensione del “rito ambrosiano”.

La Procura di Milano infatti sta indagando da più di un anno su una serie di fascicoli che riguardano alcuni dei principali progetti edilizi che sono stati realizzati sul territorio milanese negli ultimi anni, grandi progetti residenziali privati come Torre Milano, Park Tower e Bosconavigli. Questi progetti hanno infatti beneficiato di una prassi non conforme di accettazione dei lavori secondo cui privati, costruttori e architetti, con il placet dei funzionari comunali, si avvalevano di un’autocertificazione per ottenere il permesso di procedere ai lavori senza che nessuna supervisione o controllo venisse esercitato dai funzionari comunali. Questa prassi ha consolidato il fatto che fosse il privato a determinare i processi di valorizzazione economica su Milano, e che le compensazioni e il costo degli oneri dovuti alle casse pubbliche venissero scontati senza alcuna distribuzione significativa della ricchezza per la collettività. Da uno studio sono stati stimati 2 miliardi di mancati introiti per la comunità. L’assenza totale di una regia pubblica, che esercitasse una funzione sociale, di tutela dell’interesse comune, ha portato a una situazione tale che interi grattacieli sono stati fatti passare per semplici ristrutturazioni. Proprio questo tipo di abusi, attenzionati da comitati e associazioni di quartiere ha portato le autorità giudiziarie ad aprire le indagini sull’urbanistica a Milano. Tra gli indagati compaiono non pochi imprenditori, professionisti e dirigenti pubblici. L’ex dirigente comunale, Giovanni Oggionni, dopo trent’anni di lavoro nel servizio pubblico è stato arrestato per corruzione a marzo.

Nonostante questo scenario possa apparire vagamente desolante, c’è traccia di resistenza, e qualche piccolo segnale di cambiamento si avverte, se non altro nel sociale. Il 3 luglio si terrà infatti una manifestazione sul diritto all’abitare a Milano, convocata in convergenza da movimenti, sindacati e partiti contro caro affitti e sfratti, mentre contemporaneamente sempre più città si organizzano contro gli affitti turistici per chiedere una regolamentazione del mercato. Nuove reti politiche nascono e si autoconvocano, come il Social Forum dell’Abitare, un movimento nazionale per il diritto alla casa che conta più di 400 organizzazioni aderenti, che lo scorso maggio si è radunato a Napoli per un meeting di tre giorni. Si moltiplicano quindi le opportunità di organizzazione e di fare network, anche tra realtà europee: il 15 giugno la rete Set convoca una mobilitazione contro l’overtourism e alla fine del mese European Action Coalition, dopo aver coordinato un’azione globale durante gli Housing Action Days ad aprile, si trova in Polonia per proseguire e coordinare i lavori in vista delle audizioni pubbliche al Parlamento Europeo sul tema casa.

Qualche mese fa è stata lanciata, inoltre, dalle liste giovanili dei partiti di centrosinistra un comitato dal nome esplicito, “Ma Quale Casa?”, per introdurre in Costituzione il diritto all’abitare, con il lancio di una raccolta firme verso una legge di iniziativa popolare.

Insomma, se dalla politica tutto tace, in giro c’è fermento, magari non nei palazzi del potere o nelle sale consiliari dei comuni, salvo rare eccezioni, ma ci si organizza su vari livelli per coordinare territori e convergere su alcune questioni specifiche, cercando di darsi una prospettiva comune di lavoro tra consenso e conflitto con l’obiettivo esplicito di provare ad aprire un dialogo sociale intorno ai temi dell’abitare. Non è molto. Ma nemmeno così poco. Non si tratta della risposta che il movimento per la casa si aspetta, ma la domanda resta quella giusta: da qualche parte si dovrà pur cominciare.

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