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Mangia Prega Costa

Da Londra al Nepal, fino all'Australia. Costantino della Gherardesca racconta i suoi anni giovanili vissuti pericolosamente (o forse no) in giro per il mondo, per capire come starci, al mondo

Costantino della Gherardesca a cura di Scialla Studio

Il primo vero viaggio della mia vita l’ho fatto per salvare la faccia.

Era il 1994, avevo diciassette anni e studiavo in Inghilterra. Me la cavavo bene un po’ in tutte le materie, meno che in teatro. Non è che fossi del tutto negato… diciamo che fino a quando si trattava di mettere in piedi un cabaret, potevo anche fare la mia bella figura. Peccato che in quel periodo i miei compagni di corso, come il resto della Gran Bretagna, erano catechizzati da una personalità totalizzante come Mike Leigh che obbligava i suoi attori a convivere in un capannone per un mese, in modo che trovassero il giusto affiatamento prima di andare in scena e registrare il “Film”.

Appena qualcuno proponeva di mettere in scena qualcosa di serioso come i conflitti di classe di Caryl Churchill, io rimpiangevo Benny Hill e mi dileguavo. Non lo facevo per cattiveria, ma perché sapevo che la mia presenza sul palco avrebbe tagliato le gambe ai miei amici, trasformato un aspirante Daniel Day-Lewis in un potenziale Raoul Bova. Se fossi stato un’aspirante attrice mi avrebbero dato della “cagna”, titolo che avrei rivendicato con orgoglio, perché già allora sapevo di essere nato per fare tv.

Questa presa di coscienza, però, era arrivata molto tempo prima che qualcuno mi pagasse per mettere piede in uno studio televisivo: di solito le mie epifanie si manifestano quasi un decennio prima che si possano monetizzare, quindi nel frattempo ero costretto a inventarmi un modo per tenere miracolosamente a galla il mio curriculum accademico o quantomeno la mia credibilità intellettuale, nonostante quei voti in teatro che gridavano Gstaad. Come fare?

La risposta era una sola: andare in Nepal. Perché in Nepal?, vi chiederete voi. Be’, si dà il caso che in quegli anni Londra era diventata l’hub internazionale del buddismo mahayana, un luogo in cui il Dalai Lama era ospite d’onore delle tante feste organizzate dal Principe Andrew e della sua amica d’allora, la “benefattrice” Koo Stark. Era come se la città fosse in preda a un’allucinazione collettiva: chiunque parlasse di buddismo era automaticamente considerato una creatura di luce, un essere dalla profonda vita spirituale. Già immaginavo la gran figura che avrei fatto annunciando ai miei compagni di corso: «È con la morte nel cuore, fratelli e sorelle di palcoscenico, che lascio il sacro tempio del teatro per cercare l’illuminazione in un monastero mahayana del Nepal!». Pensate a che salto di qualità avrei fatto davanti ai loro occhi, una larva che diventa farfalla, un Montezemolo che diventa Ken Loach. I miei pessimi voti nel corso di teatro dimostravano che ero uno zoticone incapace di comprendere gli scioperi dei netturbini scozzesi del ’73, ma il timbro nepalese sul mio passaporto diceva l’esatto opposto: ero un uomo di mondo, pronto a rimpiazzare il verbo all’eucalipto della mia estetista di Westbourne Grove con il Lotus Sutra. C’era un piano astrale superiore a quello in cui il mio naso si sarebbe disfatto dei punti neri: quello in cui avrebbe emesso luce.

Piccolo problema: ero minorenne, non potevo fare da solo un viaggio intercontinentale. Per fortuna, l’elasticità mentale elvetica mi permise di aggirare questo ostacolo. I miei amici, infatti, mi indicarono un’agenzia di viaggio svizzera (sì, negli anni Novanta c’erano ancora le agenzie di viaggio…) che non batté ciglio davanti ai miei documenti e piazzò me, un diciassettenne allergico alle cose tetre come il teatro socialista degli anni ’70 e la burocrazia, su un volo diretto verso Oriente.

Il viaggio in Nepal fu splendido, fatta eccezione per l’epilogo. Io e una mia compagna di viaggio ci beccammo una dissenteria amebica che ci portammo in aereo fino a Ginevra, dove gli svizzeri capirono che avevamo urgente bisogno di antibiotici. Io mi affidai alle cure di questi paladini del colon, presi tutto quello che offrivano e mi rimisi subito in sesto. La mia amica, invece, che era una strenua sostenitrice della “medicina naturale” (la stessa natura che ci offre l’eroina e l’ebola), rifiutò ogni cura e ancora oggi si porta dentro quell’ameba. Anzi, a dirla tutta è un po’ che non la sento. Potrebbe anche essere morta…

Tornato a Londra, mi resi conto che il trucchetto del Nepal aveva funzionato: la mia ignoranza in fatto di teatro istituzionale era stata perdonata. Anzi, mi ritrovai miracolosamente a studiare in un’ottima università e tutti vissero felici e contenti.

Oddio, non proprio. La città diventava di anno in anno più cara: faticavo a pagare l’affitto e i miei lavoretti saltuari come produttore per servizi fotografici di moda estremista, per quanto fossero una discreta fonte di soddisfazione omosessuale, non rendevano abbastanza. La soluzione, per quanto deprimente, era una sola: dovevo tornare in Italia. E così, se il giorno mi stavo facendo sbattere in faccia porte di studi dentistici mentre ero alla ricerca di denti umani appena estratti con cui fare una collana, l’indomani ero in Italia, a rimpiangere quella Londra pre-gentrificazione.

Perché se in Inghilterra il disagio era colorato ed elettrizzante, qui in Italia il disagio era un gorgo di brutture: erano tutti vestiti uguali, i programmi televisivi erano indietro di anni, che dico, dimensioni e i film erano sistematicamente doppiati. I miei vivevano in campagna, ma in città la situazione cambiava di poco. Londra mi mancava da morire.

Avendo sempre avuto una grande passione per la musica e, non sapendo suonare nessuno strumento ero diventato l’anello di congiunzione tra moda e musica: in Inghilterra conoscevo tutti e non mi perdevo in chiacchiere noiose su quali corde usava Kevin Shields per le sue chitarre. È vero, non si guadagnava niente, ma ti sentivi al contempo protagonista e testimone di un sacco di cambiamenti. Per esempio, lavorando su tanti set fotografici, avevo assistito alla fine dell’estetica grunge e degli innocui no-global della Moda che si ricoprivano di stracci gualciti per sembrare degli squatter, salvo poi tornare nei Palazzi Giacobini dei genitori quando finivano la droga. Da un giorno all’altro, mi ero ritrovato catapultato in un mondo post-grunge in cui i vestiti erano rovinati per finta e i ragazzi che prendevamo per i servizi fotografici erano criminali per davvero. E adesso ero nell’Alta Maremma a languire. Ecco perché nel 2002 decisi che un viaggio, preferibilmente di sola andata, mi avrebbe salvato.

Arrivare in Australia non è uno scherzo: il viaggio è lunghissimo e impone svariati cambi. Sui voli che avevo prenotato l’economy era davvero scomoda. Roba che se Amnesty International avesse visto qualche foto, quelle compagnie avrebbero dovuto rispondere di crimini contro l’umanità. E come se non bastasse, all’atterraggio devi vedertela con le inflessibili dogane australiane: una milizia convinta che il polline di una genziana svizzera potrebbe distruggere il loro delicato ecosistema di pitbull umani e fauna dadaista.

Portavo i capelli alla Dee Dee Ramone, con la frangia un po’ più lunga, perché ai tempi ero più grasso e mi ero convinto che la frangia lunga avesse più effetto di una serie di liposuzioni. Avanzai verso la dogana avvolto nel mio trench nero di pelle con epaulettes militari che Raf Simons mi aveva fatto su misura (perché all’epoca la taglia 54 non esisteva). Gli agenti mi chiesero: «E lei qui che ci è venuto a fare?».

Dopo un cordiale interrogatorio di neanche quattro ore e mezza, mi lasciarono andare e raggiunsi i miei amici, che nel frattempo avevano evidentemente riso tutte le loro lacrime. Non mi lasciarono il tempo di incazzarmi perché nel giro di qualche minuto mi ero innamorato perso dell’Australia: avevo capito al volo che con i miei dieci dollari di plastica a Melbourne potevo campare per una settimana. Anche agli antipodi, come una mosca con la merda, mi ritrovai nel giro della musica e della moda, quindi ripresi a produrre servizi fotografici. Ma più avanti mi sarei anche trovato un lavoro vero, come ogni bravo italiano emigrato in Australia: consulente di immagine e di marketing per un’azienda di logistica.

Stavo così bene che non davo neanche peso alle rogne quotidiane del vivere in un continente così remoto. Se volevo un cd di importazione, andavo da Greville Records a Prahran, chiedevo un disco degli Acid Mothers Temple, tornavo un mese dopo e lo trovavo. Oggi un’attesa di cinque minuti potrebbe farmi perdere la fede nella scienza, allora aspettare quattro settimane mi sembrava il giusto prezzo in cambio della serenità.

Nei primi 2000, Melbourne era un polo magnetico per il garage rock e attorno alla città gravitavano non solo le glorie locali come i Rose Tattoo, ma anche gli allora quasi sconosciuti White Stripes, che il mio amico Greg, proprietario del negozio di dischi International Trash, considerava degli impostori. A quanto pare, se non suonavi già negli anni Sessanta, per un purista del garage punk sarai sempre un impostore. Eccezione fatta, ovviamente, per tutti i gruppi di Greg Cartwright.

Un giorno, mentre ero alle prese con un altro servizio fotografico, scelsi di usare come set una casa modernista anni ’50 che, secondo il resto della troupe, era un orrore. Il casting mi aveva portato dei modelli completamente inadatti (bellocci regolamentari con i classici denti in ceramica di cesso) e io li sostituii con ragazze e ragazzi dai lineamenti decisamente più interessanti. Non volevo fare una roba da Postalmarket, ma neanche insistere su quello stile ironicamente sfigato alla Harmony Korine che ormai aveva stufato chiunque avesse un minimo di gusto e amor proprio. Il servizio stava venendo davvero bene, ma io ero sfinito da tutti i cambiamenti che mi ero dovuto inventare in corsa. L’ultima serie di scatti da fare era vicino a una piscina vuota, ricoperta di foglie marcite dall’umidità. Il fotografo continuava a scattare e io non ne potevo più. Cominciai a camminare su e giù, fino a quando poggiai il piede su una foglia.

Costantino della Gherardesca in Australia

Immobile, schiantato di schiena sul fondo piastrellato della piscina. Negli occhi solo un cielo autunnale, nelle orecchie un coro di urla. Stanno urlando tutti. Tutti tranne me.

E penso che fino a un attimo fa andava tutto benissimo. Andavo in giro per Melbourne vestito con tre fili di cotone (i miei jeans) e dei brandelli di una maglietta degli MC5. Ma soprattutto: avevo dei capelli pazzeschi, anche perché ci spendevo metà del mio tempo e del mio budget. Certo, non ero più a Londra, ma meglio essere primi a Tirana che secondi a Roma. E io a Melbourne ero primissimo. Adesso però sono qui, in un ospedale che mi dicono essere il migliore da queste parti. Mi fanno una tac, mi sento la schiena a pezzi, ma secondo loro è solo una frattura alla gamba. Mi danno una stampella e mi rimandano a casa.

Una settimana prima dell’incidente avevo detto alla mia famiglia di spedirmi quello che avevo lasciato a casa perché ero sicuro che in Italia non ci sarei mai tornato: il viaggio all’andata mi era bastato. Dischi, vestiti e tanti libri, incluso Lexicon Devil, la biografia di Darby Crash dei Germs. Peccato che la prima mandata di pacchi fosse arrivata mentre ero in ospedale: a riceverli fu la mia vicina, una bigotta che appena vide il libro di Darby lo buttò via.

«Quella roba è pedopornografia gay!» mi dice appena arrivo. A che serve farle presente che quella è la storia di un ragazzo che si è tolto la vita a soli 22 anni nonché del punk californiano? A niente, i miei amici londinesi mi chiamavano quasi tutti i giorni per ricordarmi che ero in Australia: non aggiungevano altro.
Chiamo mia madre.
«Senti, ma per caso mi hai già spedito le altre cose dall’Italia? Non so, il trench di Margiela…?»
«No, è ancora tutto qui».
«Oh, menomale! Non mandare più niente. Torno».

Sono dovuto andare fino in Australia per trovare una buona ragione per tornare in Italia. E non si tratta solo del sistema sanitario, che da noi è tarato sugli stellari livelli di ipocondria dell’italiano medio. La ragione l’ho trovata nel negozio di dischi di Greg, in un cd che si intitola Roma Rave Up, una compilation di musica beat italiana. In quel disco c’è un pezzo incredibile, intitolato Atto di forza N° 10. È dei Ragazzi del Sole, una band formatasi a Torino nel 1965. Perché si chiamano così? Perché era il modo perfetto per rimarcare l’unica differenza tra la musica che facevano loro e quella suonata dai loro contemporanei di Liverpool, Boston o Seattle. Una differenza sottolineata dalla ragazza inglese di uno dei componenti del gruppo: “Voi vivete in un posto dove c’è il sole”. Sembra quasi una battuta, visto che Torino non è certo Amalfi, ma per una donna cresciuta sotto i cieli plumbei del Regno Unito, anche le nebbie sabaude fanno Copacabana. Scherzi a parte, sono cresciuto in mezzo a gente molto più vecchia e navigata di me. Ho ascoltato racconti pazzeschi dalla viva voce di gente che ha visto di tutto, e da loro ho sempre sentito ripetere la stessa cosa che mi disse la moglie del manager dei Rolling Stones: «Ho vissuto la New York dello Studio 54, la Los Angeles di Sue Mengers e Jack Nicholson, la Swinging London e via dicendo, ma niente è stato spettacolare come l’Italia della Dolce Vita».

Sono passati più di vent’anni da quel mio viaggio in Australia. Eppure, oggi come allora, continuo a pormi la stessa identica domanda: come può un Paese risvegliare meravigliosi ricordi nella vita di intere generazioni di viveur cosmopoliti e allo stesso tempo spingere un ventenne a saltare su un cargo per andare dall’altra parte del mondo a schiantarsi sul fondo di piscina vuota?

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