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Lettera di Jigsaw ai ristoratori romani

John Kramer ha qualcosa da dire ai ristoratori capitolini

Lettera di Jigsaw ai ristoratori romani

Saw X. Photo Credit: Alexandro Bolaños Escamilla

Cari ristoratori romani, voglio fare un gioco con voi.

Mi chiamo John Kramer, anni fa mi fu diagnosticato un glioblastoma in fase avanzata. Fu allora che scoprii il valore della vita e decisi così di adoperare il tempo che mi restava per aiutare a riscoprirlo anche a chi non lo apprezzava abbastanza.

Dovete sapere che il corpo è una macchina straordinaria capace di rigenerarsi quando danneggiata. Lo sguardo invece è qualcosa di impalpabile e immateriale ma può essere una lancia mortale. Voi avete guardato i forestieri facendoli sentire carenti, sbagliati, dei parvenu, dei cani allo sbando, financo dei disperati. Vi chiedono con educazione di poter consultare il menù e li fate sentire dei pusillanimi indegni del vostro alito di melanzana fritta e Pasta del Capitano. Tempo fa in un ristorante a Trastevere arrivò questo cameriere con la salopette e l’attaccatura bassa, tutto bello convinto e blocco note dotato, a sciorinare velocissimi i piatti che aveva, con un occhio alla TV accesa su Ballando con le Stelle. Ed era evidente che te ne diceva uno su tre perché non aveva voglia.

Mi accorsi che gli altri tavoli mangiavano cose diverse da quelle che aveva elencato, per questo ebbi l’ardire di chiedergli uno dei menù che vedevo impilati su uno scaffale. Distolse lo sguardo dalla Carlucci e mi mangiò coi panni addosso. “Regà, stasera abbiamo il compagnuccio del menù. Da ‘ndo vieni, da Broadway?” e giù grasse risate di tutti, camerieri, titolare, lavapiatti eschimese e addirittura miei commensali, già ampiamente spediti nella mia privatissima Siberia dei sentimenti.

Cari ristoratori romani. Una volta in un ristorante di Tor Lupara osai chiedere un dessert che nel menù era presente e vidi la cameriera strabuzzare gli occhi per mezzo minuto e ridicolizzarmi perché dovevo capire da solo che le fragole al limone è ovvio che non ci sono e se non lo capivo probabilmente ero un drogato.

Un’altra volta chiesi se il vino bianco ce l’avevano anche frizzante. In Romagna c’è, in California pure, hai l’ardire di chiederlo a Roma e non è che semplicemente ti rispondono di no. No: alzano la voce per farsi sentire dagli altri tavoli e ti devono prendere per il culo in mondovisione con tanto di secchio di coda alla vaccinara ribaltato in testa alla moda di Carrie lo Sguardo di Satana. E guai a chiedere cos’è la coda alla vaccinara, la pajata o la papalina pure nel momento in cui non l’hai potuto fare in autonomia perché internet in quel tugurio non prende. “Avete per caso il Wi-Fi?”. “Eh certo, qua siamo Elon Musk. Vai bello, vai…” e ti accompagnano all’uscita con un calcio in culo.

Se il caffè glielo chiedi macchiato pare che tu gli abbia chiesto quattordici petroliere in regalo. “Per il latte vai in ostetricia all’ospedale qua vicino… Ahò ma tutti a noi capitano?”.

Cari ristoratori romani. Lo sguardo dicevamo. Il vostro sguardo entrante come una rettoscopia e giudicante come quello di Dio, quando siete solo fatti dell’imperfezione degli uomini. E si sa che gli uomini scoprono il valore della vita solo davanti alla morte. Sta a voi oggi scegliere se vivere o morire.
Ora quello stesso sguardo lo rivolgerete non a dei semplici avventori ma a chi avete di più caro: i vostri cani. Dovrete penetrare nella loro stanzetta nottetempo, svegliarli dolcemente, farli accomodare sulla poltrona più comoda e accarezzarli perché si calmino e si rilassino. Poi inginocchiarvi, aprirgli le zampette e, per usare le parole di Thoreau, succhiare tutto il midollo della vita. Organizzatevi come credete per mantenerli interessati. Potete per esempio sculettare e fargli gli occhioni da gattina, da Marysthell Polanco diciamo. E dovrete guardarli, fissarli durante tutto il corso della suzione, non dovete distogliere lo sguardo dai loro occhioni increduli, liquidi e tremanti fino alla loro conclusione. Oppure il plug diamantato con l’effigie di Boniek che state indossando pieno di piccoli chiodi sieropositivi detonerà scarnificandovi fatalmente. Mentre i vostri occhi si riempiranno di lacrime, potrete sussurrare ai vostri labrador “non guardare Schevardnadze, non guardare… papá ti vuole bene”.

Potete desiderare di scomparire nel caos indeterministico, oppure desiderare di ribellarvi a me, farmela pagare e guardare il mio corpo agonizzante con lo stesso disprezzo di quando vi chiedo dov’è il bagno. “Ma tutti qua venite a cacá?” Non è un problema se avrete la tentazione di un moto d’orgoglio, l’importante è che non me ne fate accorgere. Anzi, apprezzerò il vostro mordervi la lingua, cosa che non fate quando un vostro cliente chiede anche semplicemente di poter avere delle posate per affrontare la vostra incredibile carbonara (capirai) perché sul tavolo mancano. In un ristorante a Ponte Milvio ebbi una emorragia cerebrale, aprii uno Scottex per tamponarmi e venni cazziato dal proprietario perché ce ne era già uno aperto.

Cari ristoratori romani, avete rotto i coglioni. Ad Arezzo chiudereste il giorno dell’inaugurazione.

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