Le coppie sdolcinate ci ricordano che siamo dei sacchi di fluidi corporei | Rolling Stone Italia
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Le coppie sdolcinate ci ricordano che siamo dei sacchi di fluidi corporei

Le smancerie altrui ci riportano al nostro innegabile status di viventi. Vale a dire sacchi di saliva e succhi gastrici che, per riempirsi, devono svuotarsi. Sacchi cuciti per essere egoisti: una costituzione quantomeno imbarazzante

Le coppie sdolcinate ci ricordano che siamo dei sacchi di fluidi corporei

Foto: Getty

Le effusioni delle altre coppie ci ricordano l’ottusità riproduttiva della vita senza che possiamo prendervi parte in maniera biologicamente vantaggiosa. Per questo ci irritano in aereo, in treno, al parco, in spiaggia. Le mani che si stringono in una promessa di unione eterna: noi le traduciamo istintivamente in promessa di replicazione di un codice genetico che non è il nostro. La saliva che schiocca nei baci non è la nostra saliva: ci è nemica, o almeno indifferente. Da quei corpi che sgusciano e sudacchiano non verrà fuori nulla di buono per noi in quanto animali. Le voci che si fanno infantili rimandano alla nascita di una creatura a cui non abbiamo motivo di tenere. E così il 54% degli italiani rifugge le coppie sdolcinate, che cioè ostentano la solidità del loro patto biologico. Secondo un sondaggio del motore di ricerca di voli e hotel, queste sublimazioni dell’atto sessuale sono lo spettacolo più indesiderato per i vacanzieri.

Nessuno dice: che disgusto, quel sasso. Né: che schifo, quella nuvola. Né: bleah, quel bullone. Può capitare con l’acqua quando, da materia inanimata, acquisisce un qualche attributo vitale: la puzza di pesce, una limacciosa organicità. Perché solo la vita è capace di disgustarci. E le smancerie altrui ci riportano al nostro innegabile status di viventi. Vale a dire sacchi di fluidi corporei – saliva, sperma, feci, urina, succhi gastrici – che, per riempirsi, devono svuotarne altri, siano vegetali o animali. Sacchi cuciti per essere egoisti: una costituzione quantomeno imbarazzante.

Per lo stesso sondaggio e per lo stesso motivo, i bambini indisciplinati sono mal visti dal 27% di chi vuole rilassarsi o svagarsi – e cioè essere un po’ più morto per qualche giorno. La vita è maleducata, prepotente: sporca, puzza. La vita vuol vivere, a qualsiasi costo. Non vuole soffrire per uno sbalzo di pressione in aereo o per un sonno troppo a lungo negato. La vita se ne fotte del galateo. Che invece è uno degli svariati e giustificati mezzi a cui ricorriamo per edulcorarla, per avvicinarci al nostro sempre meno segreto ideale: il frullatore. La macchina. Si accende e si spegne con un bottone. Il male che può causare è stato deciso a priori: basta non metterci dentro il ditino. Non prevarica nessuno. È morta. La civiltà è un colossale e sacrosanto sforzo di nascondere una semplice verità: la vita di un essere implica la morte di un altro. Nelle sue innumerevoli declinazioni il politicamente corretto è questo nascondimento e niente di più.

La morte è così silenziosa ed educata. La vita impone, la morte decompone. Il nulla è per bene. La civiltà ci convince, a ragione, che la nostra esistenza conti tanto quella di chi ci sta accanto. Non c’è nessun motivo razionale perché io sia più importante di te. Solo l’istinto, un decrepito prozio che ci fa vergognare ogni volta che lo portiamo a spasso, ci suggerisce con ostinazione il contrario. Se cercassero di sfondarti il cranio con una mazza, messo alle strette preferiresti sfondarlo tu, il cranio, a quell’altro. Una preferenza davvero cretina se analizzata con pacatezza, da una prospettiva universale. E allora di rado il fastidio provocato da saliva estranea e vocette assortite si trasforma in odio manifesto. Bofonchiamo, sbuffiamo, ci giriamo dall’altra parte: noi sì che siamo persone civili.

I siti porno, si sa, sono tra i più visitati in assoluto. E in effetti anche lì assistiamo alle effusioni degli altri. Ma la contraddizione è solo apparente: il porno non ci schifa perché innesta nelle coppie i meccanismi di un ingranaggio. Percepiamo l’eiaculazione finale come non più organica di una sequenza di pixel. E, in questo caso, alle effusioni degli altri noi partecipiamo. Le facciamo nostre, ci immedesimiamo negli attori, diventiamo quel pene e quella vagina, inganniamo l’istinto: come se dopo nove mesi il computer dovesse partorirci un figlio programmato col nostro stesso codice binario.

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