Andrea G. Pinketts, omaggio in religioso silenzio | Rolling Stone Italia
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Lasciare Andrea G. Pinketts

Personaggio complesso, discusso e discutibile, tra le ombre della provincia, locali notturni e la biografia che si mescolava al romanzo per la storia di un eterno ragazzo, fuori dal tempo e geniale

Lasciare Andrea G. Pinketts

Foto IPA

C’è una domanda che mi sto ponendo da qualche giorno e che ora vorrei fare a voi: quando, secondo voi, può perdurare l’adolescenza? Non mi riferisco all’ubicazione nota, a quella fase evolutiva, da dizionario, caratterizzata dalla transizione dall’infanzia allo stato adulto. Quella si sa: è stata fissata tra i quattordici e i diciannove anni nelle ragazze e tra quindici e venti nei ragazzi. Intendo fino a quando si può vivere da adolescenti, perché su questo piano non ci sono ancora idee chiare.

Quello che mi domando è quindi se esiste un tempo massimo entro il quale sia consentito, per esempio, accompagnarsi a gente dai nomi surreali come Pogo Il Dritto, Gippo o Fuggevole Turchese? Un adulto che deve calibrare tutti i propri cambi turno con altri venti colleghi per comprare almeno un paio di regali per Natale, può condividere le stesse disavventure e gli stessi disastri di un diciottenne che pensa, lecitamente, che il punto più alto delle feste sia l’arrivo di un cugino alcolizzato e fattone come lui? Un quarantenne che deve far i conti per bilanciare il preventivo del dentista all’iscrizione a calcetto del piccolo pargolo, può parlare per versi di canzoni e scene di film come un ventenne che racchiude tutto il mondo dentro quei confini? Mia madre si preoccupa ancora ogni volta che esco la sera, ma lei fa parte di quelle persone che si sono arenate mettendo su famiglia negli anni Settanta e, anche se ogni tanto si concede un teatro o una cena con le amiche, quando mi pensa in giro la notte per lei è un po’ come un salto nel buio.

È comprensibile. Ma io, che nel 2020 mi agito ancora sulla tastiera per condividere i video dei misconosciuti Gender Roles che un’amica “avanti” ha avuto la malaugurata idea di passarmi che cosa ho, un problema di sviluppo? Quando mi ritrovo a sentire le vicissitudini dell’ultimo mese di un giovane del Gambia all’una di notte invece di tornare a casa a dormire di cosa soffro, di un blocco evolutivo? Di una sociopatia congenita? Penso che tutto questo avrei voluto chiederlo ad Andrea G. Pinketts a Le Trottoir di Milano, dove ebbi modo di incrociarlo nel 2003. Ci finii per la citazione presente in un suo libro e scoprii solo in un secondo momento che era uno dei suoi reali punti di ritrovo della città – dove avrebbe presentato poi alcuni dei suoi lavori, da Sangue di Yogurt a La Capanna dello zio Rom. Quell’anno era uscito Nonostante Clizia che di questa protratta e turbolenta adolescenza era summa e tropo. Enormemente rappresentata a neanche venti pagine dall’inizio, quando scrive uno di quei passaggi che meritano di essere trascritti e basta.

In religioso silenzio



Fuggevole Turchese decise di lasciarmi di punto in bianco, di punto in Neutro.

Se avessi avuto ancora le mie budella… il mio intestino, il fegato, avrei avvertito meno la solitudine del mio cuore spezzato. Persino l’ancella della morte, a meno che Fuggevole Turchese non fosse la morte stessa, mi diceva “finisce qui”, come un vecchio disco di Ornella Vanoni.

La fine di un amore comporta l’elaborazione di un lutto. Figuriamoci l’elaborazione del lutto per la fine di un amore con la morte. 

Decise di comunicarmelo mentre stavamo danzando senza musica. Me lo disse senza parole: “Forse è meglio che ci lasciamo”. La stessa frase che usavo io, scherzando, con una ragazza, ogni volte che non era d’accordo con me su una quisquilia: il colore verde acido della mia giacca, il bicchiere della staffa, la sua motivata gelosia.

Finì che mi lasciò lei. E non scherzava.

“Forse è meglio che ci lasciamo” è di per sé una frase innocua. È il tono che diventa tuono che ti lascia nudo prima della tempesta.

“Forse è meglio che ci lasciamo” detto da una morte muta col tono di una condanna a morte, tuona come una condanna a vita.

Quando la ragazza mi aveva lasciato mi ero leccato le ferite. Ferite alle nocche. Avevo preso a pugni un televisore, cinque vetrine, due ante di armadio e mezza dozzina di malcapitati, nell’arco di sei mesi. Poi me ne lavavo le mani nella birra e lappavo furiosamente le nocche offese, mai quanto me.

Ma lei era una ragazza. Una. Fuggevole Turchese era tutte.

Lei compresa.

Senza Bellamorte sarei morto veramente. E forse dopo aver rinunciato alla Bellavita sapevo ciò che avrebbe significato “Forse è meglio che ci lasciamo”.

“Forse è meglio che non dici cazzate. Forse è meglio che
ci lasciamo per te. Per ciò che mi riguarda di sicuro è peggio se ci lasciamo. E poi perché usi un ipocrita plurale: ci lasciamo. Sei tu che mi lasci. E non mi lasci nemmeno nella merda. Mi lasci nel Neutro, in questo escremento inodore senza sciacquoni”.

“Restiamo buoni amici”.

“Stai scherzando, vero? Se tu non fossi la Morte ti ammazzerei. Restiamo? Restiamo cosa? Se te ne vai. Buoni. Mai stato buono per decisione altrui. Sono buono quando lo decido io oppure quando non me ne accorgo. Uno che è buono sapendo di essere buono non è altro che un fottuto arrivista che aspira a diventare ottimo. Amici? I miei amici sono ancora vivi. Tranne qualcuno”. Il sospetto, sporco individuo, individuò la realtà abrasiva, “…scommetto che te li sei fatti tutta, brutta troia”.
Ero diventato offensivo.

“Se è così che la pensi”.

Mi umiliai implorando pateticamente un ritorno. “Resta, ti prego, prometto che cambierò. Mi rendo conto dei miei errori…”.
Niente da fare. Non si era offesa quando l’avevo offesa, né lasciata intortare dal mio nauseabondo mea culpa, you Jane. 

Sorrise e si limitò a baciarmi a bocca chiusa sulle labbra, con una delle tante paia di labbra che aveva in repertorio. Se ne andò fluttuando Turchese, fuggendo senza sforzo giacché ero totalmente paralizzato.

Le gridai dietro. “C’è un altro, vero?”.

Non rispose, o se rispose, non la udii. Era già troppo lontana.

Rimasi solo nel Neutro, conscio del fatto che quelli erano i miei ultimi pensieri. Tra breve il Neutro mi avrebbe inglobato. Ne avrei fatto parte. Sarei diventato parte di quel terreno senza terra fatto di nulla che il prossimo amante di Fuggevole Turchese avrebbe calpestato.”


Personalmente una delle più argute e riuscite descrizioni della fine di una storia. Qualcosa a mezza via tra Francesco De Gregori in stato di grazia e Woody Allen in coma etilico. Se riuscite a fare di meglio, fatevi avanti. Se avete altri modelli, me ne dolgo. Ne seguono altre duecentosessanta pagine in cui Andrea Pinketts rivive attraverso il suo biblico doppio, Lazzaro Santandrea – già protagonista dei suoi racconti dal debutto fulminante Lazzaro, Vieni Fuori del 1991. Lo ritroviamo risorto, dopo la morte avvenuta nel 2001 in Fuggevole Turchese, e ancora più scombinato e immaturo di prima. In Nonostante Clizia, ossia il nome del medico che ne ha dichiarato il decesso, mischiando le carte e le regole del gioco, l’autore esce dal sepolcro e si mette presuntuosamente in posa tra Nero Wolfe e Dylan Dog come indagatore noir e dell’incubo.

Non chiedetevi i perché o il percome, ci penserà lui, col suo stile funambolico alla Raymond Queneau in salsa Nick Hornby a dirimere la faccenda. Il lettore deve solo prendere posto sulle montagne russe e lasciarsi cadere addosso il nubifragio di situazioni concatenate dal caso, da una vita alla giornata e dall’isterica e poco ortodossa genialità di un narratore capace di trovare ogni volta un’accettabile conclusione alle proprie stravaganze. Portandoci dritti al traguardo, tra risate ingenue, lacrime naif, assurdità da suicidio, colpi di scene e altri di testa, il tutto con giochi di parole da premio Nobel a patto che la statuetta venga consegnata a un Bukowski o qualcuno non in grado di superare il test del palloncino ma quello dei lettori si.

Quando Pinketts lo scrisse di anni ne aveva più o meno quanti ne ho io adesso, mentre io ne avevo venticinque. Entrambi fuori target rispetto al dizionario. Quindi forse si può. Voglio dire, non dobbiamo temere l’assurdità di questo soffio di adolescenza sulla nuca. Il cipiglio di non volersi adattare a una linearità emozionale ancora prima che sociale. Di lui allora come adesso si diceva tutto e il contrario di tutto. Del suo essere personaggio complesso e per qualcuno complessato, ambiguo e assai discutibile si è forse detto di più di quanto si sia letto. Nonostante in lui la biografia si mescolasse alla pagina scritta e viceversa, anzi, forse proprio per questo, è stato uno scrittore che non lasciava spazio alle zone grige, che esigeva adesione oppure odio. Come con Fabio Volo o Dario Fo. E a scanso di equivoci attesto da subito la mia ammirazione per il suo talento irrequieto e grottesco, candido e truculento, colmo di quello che lui stesso definì “Il Senso della Frase” (come titolo dell’ottimo libro del 1995).

Uno da prendere in blocco con le sue particolarità e i suoi eccessi disturba(n)ti. Gli italiani, però, sono irrimediabilmente esterofili e da sempre cercano i loro modelli altrove, i loro eroi, le loro estetiche, le loro rivoluzioni, snobbando quello che hanno sotto al naso. Tipo un milanese Doc (quindi già due volte più antipatico) anarchico e biancinardo che amava fare una vita piuttosto agra tra Porta Vittoria e via Lorenteggio, passando per il Giambellino. Spostandosi così poco dal proprio microcosmo da far sembrare Savona Vladivostok. Facendo giornalismo d’inchiesta, serio, concludente, e annegando la mediocrità nell’alcol, nei sigari e nelle comparsate Tv e cinematografiche dal vago sapore di sberleffo (logico, per uno che volle la G. di “Genio” nel suo nome d’arte).

Senza tante balle teoriche e pasoliniane Andrea G. Pinketts ha descritto la vita di quartiere tra i bulli e i bar di zona ma anche la miopia del consumismo della Milano post boom. Ha portato a galla le infelicità e le piccole grandi gioie dei disadattati, di quelli che non accettano niente e sono ovunque fuori luogo. Ha avuto il coraggio in anni non sospetti di fare della citazione (i Pooh come Il Settimo Sigillo, i Ricchi e Poveri come Quella Sporca Dozzina, ce n’è quasi una per pagina) della retromania (i camperos, la new-wave, la Renault 4, le cassette… sempre in scioltezza) una forma di comunicazione. E tutto questo non a Londra o in un negozio di dischi della periferia di Chicago. Ma qui, in periferia di Milano, nella desolazione della provincia ingrata.

Di tutto questo lascia in eredità una ventina di romanzi di cui oramai la metà fuori stampa per dare spazio ad altri sedicenti “scrittori”, qualche racconto, uno spettacolo teatrale di scarso (o diciamo anche nullo) successo, una serie di caustici interventi su testate “non allineate” pressoché irreperibili e una manciata di inediti scatti nelle vesti di pugile e modello per Versace. Perfetta, per un eterno ragazzo che si rispetti e che ha sempre avuto il coraggio di pagarne di persona il prezzo.

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