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La maternità non può essere una narrazione a senso unico

Dopo il caso del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma, il racconto di una mamma che ha fatto scelte “sue”. E le ha pagate

Foto: Helena Lopes/Unsplash

Ho partorito mia figlia quattro anni fa circa in un noto ospedale milanese, dopo cinque anni di attesa accidentata e impervia. L’ho fatta venire a questo mondo con parto cesareo programmato, figlia dell’ansia e delle manie di controllo materne ancora prima di poter dare la prima boccata di ossigeno. Povera gioia. L’ho chiamata Vittoria. Vittoria fin da subito, vista l’immane fatica. E un’altra certezza granitica: fin dal giorno in cui ho saputo di portarmi in grembo la creatura, ho saputo anche che non l’avrei allattata. Io, per scelta libera, molto consapevole e soggettiva, ho deciso, senza alcun tipo di giudizio nei confronti di chi desidera fare diversamente, che non avrei voluto creare un legame così forte con mia figlia, che non avrei annullato la mia vita per lei, che avrei continuato a lavorare e a disporre del mio tempo – oltre che delle mie tette – come meglio desideravo per il mio benessere. Mentale prima che fisico. Vi lascio immaginare la scarsa simpatia che ho potuto suscitare negli addetti ai lavori del reparto neonatale. Ma perché poi?! E di questo vorrei parlare.

Di quanto sbagliata sia la narrazione a senso unico di gravidanza, puerperio e maternità. Ancora. Nel 2023. Di quanto, un po’ come sulla fine della vita anche sul suo principio, in questo Paese dal retaggio cattolico indistruttibile valga sempre e comunque l’imposizione di un pensiero unico dal quale è scomodissimo scostarsi, pena giudizio e pregiudizio e menate collaterali. Va detto a viva voce che ci raccontano un sacco di balle. Belle. Grosse. Balle. A partire dal modo in cui viene definita l’attesa del nascituro: “dolce”, la chiamano. Cosa ci sarà, però, di dolce oltre a quello che trangugi non senza senso di colpa in quei nove mesi non è chiarissimo. Perché ok il romanticismo, l’amore, il suo coronamento e il perpetrarsi della specie, ma poi va anche detto che il primo trimestre è spesso nausea, ansie e aspettative claudicanti non troppe pronte ad accartocciarsi sull’imprevisto statisticamente possibile (probabile?). Poi ci metti le paure, le punture, gli esami, il Dna, la panza crescente insieme al peso, il corpo che cambia, la ritenzione idrica che aumenta insieme alle cosce e al culo – ma tornerò mai com’ero prima? – la fatica, il sonno incontrollabile, il lavoro nonostante tutto, l’incontinenza, il reflusso, i pareri non richiesti, le domande inopportune, i giudizi e pregiudizi sulle scelte prese. Le tue cazzo di scelte.

Infine: il parto. Naturale. Perché sennò che cosa ce ne facciamo di secoli di “donna, partorirai con dolore”? Che donna sei se non sopporti il dolore del parto dopo mesi di ansie, paure, punture, domande, consigli non richiesti?. Solo se la creatura è podalica (cioè anziché con la testa sparata in giù verso la luce che sta in fondo al suo tunnel e anche al tuo, ci si è messa coi piedi) sei giustificata a parlare di cesareo. Ma non per scelta. Il cesareo per scelta, qualunque essa sia, è mal giudicato, sopportato, supportato, tollerato. Dunque: il puerperio. E l’allattamento.

In questi giorni più che mai si parla con indignazione e magone di quanto accaduto al Pertini di Roma, del neonato morto perché soffocato durante l’allattamento da una madre devastata da ore di travaglio che, dice il marito, avrebbe chiesto più volte al nido di lasciare il piccolo per avere tregua. Giusto ieri ho letto l’intervista fatta da un importante quotidiano a Luigi Orfeo, Presidente della Società Italiana di Neonatologia (sigh!), il quale dichiara precisamente questo: “Se dovessimo andare incontro al desiderio, per quanto sacrosanto, di riposo delle neomamme, non sarebbe possibile sostenere l’allattamento al seno che, ricordiamolo, non è un semplice atto nutrizionale, ma è il migliore investimento per la vita del nascituro”. Il migliore investimento per la vita del nascituro. Testuale. Lascerei a chi legge le considerazioni eventuali che si possono fare su un’affermazione di questo tipo.

Vorrei però chiarire al Presidente della Società Italiana di Neonatologia, che peraltro immagino non sappia bene cosa sia davvero il puerperio e nemmeno lo sfinimento dopo aver dato alla luce un bambino non avendolo mai sperimentato, che nonostante io non abbia allattato Vittoria per scelta, non valuto di aver fatto un cattivo investimento per la sua vita. Valuto, invece, che il cattivo investimento – sulla propria, di esistenza, e su quella di un figlio di conseguenza – sia l’accettazione della madre che, vittima del pensiero unico imposto, si obbliga a mettere per mesi la propria vita al servizio del neonato e dell’ipocrisia per non sentirsi sbagliata, a costo di essere infelice. Valuto che bisognerebbe preparare le donne – e gli uomini – alla maternità per quello che la maternità può essere davvero: solitudine, malessere, spaesamento, fatica. Valuto che le responsabilità vadano spalmate sulla coppia e non sbolognate alla madre soltanto. Valuto che alla base di qualsiasi scelta personale dovrebbe esserci informazione corretta e una consapevolezza libera da imposizioni travestite da raccomandazioni.

Valuto che l’allattamento non voluto, non semplice e non gioioso sia una violenza. Valuto che le peggiori conseguenze cadano in questi casi su madre e figlio insieme. Valuto che mettere al mondo un altro essere umano possa essere la peggiore (o la migliore) fatica esistente e come tale dovrebbe essere trattata. E valuto che di tutto ciò bisognerebbe parlare, farlo di più e con maggiore franchezza. Valuto, infine, che alle ostetriche da cui sono andata una settimana dopo il parto a mostrare il mio seno il cui gonfiore spaventoso e doloroso era chiaramente il preludio di una montata lattea indesiderata, ostetriche che mi hanno rimandata a casa raccomandandomi solo di fasciare stretto il petto, evitare docce calde e non bere acqua, bisognerebbe domandare se il loro errore di valutazione sia stato ideologico e stronzo o semplicemente incompetente. Valuto che in entrambi i casi sia stato molto grave. Ma questa è un’altra storia, che comunque è finita bene. E magari la racconto un’altra volta.

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