La maledizione del deepfake | Rolling Stone Italia
The Matrix

La maledizione del deepfake

Dal 2017 si parla delle insidie delle Intelligenze Artificiali, ma oggi il problema del nostro rapporto con la tecnologia è più sentito che mai. Centra la facilità con cui si può incappare in contenuti-bufala e il recente rilascio delle ChatGTP. Ma non dimentichiamoci di Keanu Reeves...

La maledizione del deepfake

Keanu Reeves in ‘Matrix Resurrections’

Foto: Warner Bros.

Keanu Reeves mi guarda dallo schermo del mio computer e mi sta dicendo che gli piace molto, questa idea di vederci per una chiacchierata dal vivo. Sorride un po’, muove i capelli corvini; si gratta la barba mentre si mette più comodo sulla sedia. La sfumatura che assume la sua voce a tratti è quella di Neo, l’agente di quel Matrix che, più di tutti, l’ha reso per l’intera umanità ciò che è (un divo, un’icona, in poche parole: Keanu Reeves); a tratti è invece più gutturale, come quella del picchiaduro John Wick. È tutto molto assurdo, c’è da ammetterlo: io che dal divano di casa mia faccio delle domande a Keanu Reeves; lui che dal suo salotto (californiano, suppongo) si scusa se beve un po’ d’acqua prima di rispondermi (per poi parlare d’altro); questa situazione in generale. E infatti, nulla di quanto sta succedendo è reale: chi è dall’altra parte dello schermo non è il vero Keanu Reeves, ma un tizio che si sta spacciando per lui, sfruttando le potenzialità di quello che ormai sappiamo chiamare col proprio nome: il Deepfake.

Se non fosse che la vicenda che vi ho presentato è del tutto frutto della mia immaginazione (ahimè, nel bene e nel male), adesso non sbagliereste di certo a credere che una truffa del genere si sia consumata davvero. Perché da quando ha avuto inizio questa maledizione del deepfake nel 2017, incappare in un furto d’identità è oggi più probabile che mai; sia che il protagonista sia la celeb di turno, sia che la cosa ci tocchi personalmente. E così, mentre da anni Taylor Swift è (anche) la pornostar che fa di tutto e di più nei cosiddetti deep-porn e Barak Obama (anche) il presidente del video-discorso montato ad hoc dalle sapienti mani del regista Jordan Peele in collaborazione col sito di news BuzzFeed (era il 2018, e già si avvertiva l’urgenza di sottolineare la pericolosità del fenomeno), ecco che nel 2023 siamo arrivati al punto di rischiare persino noialtri di trovarci coinvolti in (e travolti da) una vera e propria tempesta di contenuti diffusi senza autorizzazione e, si diceva, assolutamente falsi. Con tutto ciò che ne consegue.

La nostra faccia può finire in un video hard, danneggiandoci la reputazione; la nostra voce può diventare proprietà dell’intelligenza artificiale, aggirando il sistema di sicurezza di riconoscimento vocale della banca per avere accesso al nostro conto corrente; la nostra intera persona (che è poi la nostra identità) può subire la più tremenda delle violazioni, nonché uno dei più brutali (e quel che è peggio: irrecuperabili) danni d’immagine che possano nascere online, per poi avere un impatto offline. Ma prima che vi monti troppo l’ansia e vi si inneschi un delirio di persecuzione, sappiate che tutto può essere fatto a una condizione: e cioè che su internet si trovi materiale sufficiente alla creazione di un deepfake che sia credibile. In altri termini: per quanto per realizzare un video fasullo (da qui fake, per l’appunto), sfruttando le procedure di apprendimento delle intelligenze artificiali (la tecnica del deep learning), oggi basti smanettare un po’ qua e là scaricando qualche applicazione ben fatta, per noi persone comuni non è poi così preoccupante il rischio di finire nel mirino. A meno che siamo tra quelli che riempiono i social di video (da cui si può prendere anche l’audio, s’intende) e immagini (dove il nostro volto è fotografato da più angolazioni), che nella landa sconfinata e paurosamente intangibile di internet diventano subito materiale di proprietà di tutti e nessuno.

E c’è proprio da dirlo: con grande sollazzo generale. Perché finché la questione non ci tocca direttamente, come ogni diavoleria che si rispetti il deepfake è quella cosa che piace e diverte; soprattutto se fatta in buona fede (sì, vabbè). Altrimenti come spieghereste il successo di tale Jesse Richards, un content creator che dall’arte del deepfake è riuscito a tirare fuori non solo dei corsi online (spoiler: sono a pagamento), ma soprattutto collaborazioni con celebrità come Will Smith, Jason Derulo, Tom Brady, Pink, Alicia Keys (e via dicendo)? Per non parlare di Miles Fisher, il deepfaker ufficiale (per così dire) di Tom Cruise; nonché la star dei social che in un’intervista dello scorso luglio all’Hollywood Reporter, ha raccontato come dalla sua (pare soffertissima) somiglianza di sempre con l’attore sia stato per lui possibile ricavare una professione e, paradossalmente, riconoscibilità; e proprio grazie alla tecnologia del deepfake. Anche se, per favore: non scordiamoci del contributo di Paris.

 

 
 
 
 
 
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Arrivati a questo punto, so cosa state pensando: perché scrivere l’ennesimo articolo sul deepfake? Ma soprattutto, perché diavolo proprio Keanu Reeves? La risposta sta tutta in quanto successo negli ultimi mesi: da una parte il rilascio, lo scorso 30 novembre, del prototipo delle cosiddette ChatGPT (acronimo per Chat Generative Pre-Trained Transformer) con l’organizzazione non-profit OpenAI, che, sviluppando questo chatbot legato a un sofisticato modello di machine learning, ha scoperchiato ancora una volta il vaso di Pandora degli interrogativi sulle IA (leggi: intelligenze artificiali); dall’altra, una (ben meno complicata) intervista rilasciata neanche un mese fa da Keanu Reeves a Wired, in occasione dell’uscita di John Wick 4.

Per quanto queste due vicende possano sembrare distanti (e di fatto, sì: lo sono), in realtà il denominatore comune c’è, ed è lì: nell’inesauribile discorso sul nostro rapporto con quelle che (in termini molto Matrix) possiamo definire “macchine”. Sia che questo dibattito venga affrontato da un punto di vista più etico e teorico, come nel caso dell’ultimo intervento del linguista Noam Chomsky per il New York Times, dove si parla di “giudizio” e “pensiero” nella differenza tra “noi” e “loro”; sia che verta verso la condivisione di una consapevolezza per così dire pratica, come fatto dall’Economist in una recente puntata di Babbage, il podcast dedicato al mondo tech Babbage in cui, grazie a una serie di interventi di professionisti e studiosi, si è svelato come riconoscere un deepfake.

Sia che, infine, il dibattito assuma i toni più leggeri e (per noi tutti) più squisitamente comprensibili di un’intervista tra due che, attore e giornalista che siano, rimangono comunque due esseri umani in dialogo. Tanto che, tolto quel contesto, oggi non sarebbe poi tanto assurdo sentire al bancone di un bar due tizi che parlano di deepfake mentre sorseggiano caffè, con uno dei due a sostenere che «le tecnologie stanno trovando un posto nella nostra educazione, nella nostra medicina, nel nostro intrattenimento, nella nostra politica, e come facciamo la guerra e come lavoriamo». Fino a concludere il discorso nel racconto di quella volta in cui un quindicenne, ascoltandolo parlare del film Matrix e della lotta per ciò che è reale, ha svelato il pensiero delle nuove generazioni e il futuro che ci aspetta nel nostro rapporto con la tecnologia, tagliando corto con una sola domanda: «A chi importa se è reale?».

E decidete voi se a bere quel caffè e a raccontare quella storia ci volete piazzare un deepfake di Neo. Ma secondo me, reale o non reale, a questo punto è meglio chiamare in causa direttamente Keanu Reeves.

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