La democrazia in crisi, fra noncuranza e indifferenza | Rolling Stone Italia
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La democrazia in crisi, fra noncuranza e indifferenza

Considerazioni a mente fredda sui referendum dell’8 e 9 giugno. Perché sono falliti? È possibile fare una comunicazione politica efficace senza imitare i populisti? È possibile fare una comunicazione efficace tout court senza passare per trivialità e bassezze?

La democrazia in crisi, fra noncuranza e indifferenza

Cristiano Godano

Foto: Gabriella Vaghini

Prologo Questo articolo è costruito come tutti gli altri miei: parte da un punto, come qualsiasi inizio, percorre una serie di diramazioni che il suo farsi propone passo dopo passo alla mia creatività, e divaga apparentemente inseguendo in realtà un obiettivo ben preciso, che se volete tagliare corto trovate nelle ultime tre frasi contenute in due o tre righe, quelle finali prima del post scriptum. Ogni diramazione in cui vi imbatterete, se invece deciderete di leggermi per intero, è funzionale al racconto, e oltre a servirlo vive di per sé, offrendo piccole parentesi connesse e autonome al contempo, in grado di fornire alla vostra attenzione molti elementi: il lettore attento e paziente li coglie e, se meritano, li apprezza. Nulla è gratuito, nulla è caotico, tutto è concatenato e consequenziale: un po’ quello che accade in grande nei romanzi, ovvero nella letteratura, perché lo scrittore ama raccontare, affabulare, incantare. Questo è il “metodo” con cui scrivo i miei articoli qua, che non considero articoli ma occasioni per la lettura, sperando di raccontare, affabulare, incantare a mia volta. Quando riesco infilo anche la sfera letteraria, se no restano micro-saggi che si occupano di tematiche reali e attuali in assenza della finzione.

Questo articolo, peraltro, è stato scritto una decina di giorni fa, poi tra miei impegni e ripensamenti e dubbi si è protratto fino a stamane, domenica 22 giugno, a poche ore dall’attacco dell’America all’Iran. Le nostre attenzioni sono ormai in balia dei vertiginosi cambi di scenario a cui assistiamo quotidianamente: decine di problemi che si sostituiscono a decine di problemi che si erano sostituiti a decine di altri problemi succeduti a altre decine eccetera: questo è il mondo di oggi. E tutte queste problematiche decine mi sembrano in verità connesse fra loro. Per cui anche se oggi vi faccio leggere di un argomento ormai passato senza poter contare sulla vostra adesione emotiva ormai indirizzata altrove, penso che illustri in ogni caso, dal suo significativo piccolo ambito in cui è relegato, un problema connesso alla deriva di questo mondo. E dunque… buona lettura. 

Com’è possibile? C’è questa canzone da me scritta per il mio primo disco solista che si chiama Com’è possibile. So di averla già segnalata altre volte (spero non più di due), ma a differenza di quelle le dedico qualche riga in più per uno scopo preciso.

Il suo testo non è di quelli che possano dirsi chiarificatori, e nella piena osservanza dell’essenza del linguaggio poetico, che è in versi, posso dire che è al più evocativo. Sta all’autore decidere il gradiente di esaustività da mescolare alla suggestione misteriosa, e il mio in Com’è possibile direi che risiede in alcune parole chiave più una doppia citazione per nulla mascherata. La doppia citazione è da Bob Dylan, per la precisione dalla sua Blowin’ in the Wind, che divenne manifesto di un’intera generazione di giovani alternativi di tutto l’Occidente. Una canzone contro la guerra (erano gli anni del Vietnam) e contro i brutti tempi che si stavano attraversando. Anche lì il linguaggio in Dylan è più evocativo che esaustivo, ma la stigmatizzazione dei brutti tempi in corso emerge nonostante le parole non la esprimano apertamente. “Quante strade un uomo dovrà percorrere prima di essere chiamato uomo?”, “La risposta, amico mio, soffia nel vento”: le canto, modificate ma non troppo, nel ritornello, e in quanto alle parole chiave che vi ho detto prima… il mio testo si può trovare online per chi fosse interessato.

Premonizioni Dico queste cose a volte davanti al mio pubblico, quando suono da solo o coi Guano Padano. Introduco il pezzo e racconto che oltre sei anni fa pensavo e buttavo giù le sue parole emerse da un mood intriso di preoccupazioni e presagi immaginando una brutta fine per la democrazia: ero reduce dall’immersione in un testo a suo modo illuminante e precorritore, Contro-rivoluzione di Jan Zielonka, sociologo polacco, che avevo deciso di comprare perché sentivo che parlava di ciò che stavo temendo. «Amico mio, alla fine i populismi arriveranno, e la democrazia e i valori liberali verranno compromessi. Quanto durerà? Dieci anni? Venti anni? Sì, ci vorrà del tempo, e poi torneranno, ma saranno tempi bui» è la sintesi a memoria, dunque approssimativa, di un estratto che alla lettura mi gelò il sangue. “Ed eccoci”, dice infatti la mia Com’è possibile… (Sentite anche questa intrigante coincidenza: poche ore fa ho letto di un libro edito in questi giorni. È di uno scrittore, anche lui polacco, Gustav Herling, che negli anni ’90, bandito dal suo Paese e esule in vari luoghi fra cui l’Italia, coi suoi scritti ammoniva l’Europa dalle velleità russe, in primis sull’Ucraina. Leggete questo passaggio: «Mosca, capitale dell’ex impero aspirante alla sua ricomposizione, è già riuscita ad attirare la Bielorussia sotto la presidenza del compiacente Lukašėnka. Sono, per ora, i primi passi. Il vero bersaglio è l’Ucraina. Se l’Ucraina non sarà sufficientemente sostenuta dall’Occidente le difficoltà economiche la costringeranno ad avvicinarsi alla Russia a scapito della sua importantissima indipendenza nazionale». Lo riscrivo: anni ’90, i filo-putiniani di oggi erano ancora da formare… Herling, per inciso, si fece due anni di gulag).

E dunque: almeno già da sei anni a questa parte il mio umore è immerso nella consapevolezza che il rischio di una deriva autoritaria ci stia per travolgere, come in effetti sta accadendo. Nella mia brutta piega umorale includevo anche le possibili guerre venture (ecco perché la citazione di Bob Dylan), in assenza di cognizioni geopolitiche ma con in dotazione un radar interiore sintonizzato, e anche questa cosa la sottolineo alle persone che ho davanti quando sono su un palco. Perché lo faccio? Probabilmente mi piace l’idea di prendermi sul serio, con molta discrezione e pudore, per l’essere arrivato in tempi non sospetti a immaginare ciò che pochi immaginavano o decidevano di affrontare, ma ho come la sensazione che questo valore, questa attitudine a voler intravedere le future crepe non sia di questi tempi tenuto in qualche considerazione. Io, per inciso, mi emoziono e quasi commuovo a sapere di gente tipo Gustav Herling che negli anni ’90 ammoniva l’Occidente, questo mostro inviso a molti occidentali, di un qualcosa che sarebbe esploso una trentina di anni dopo…

Com'è possibile - Cristiano Godano

Reazioni Bene: ogni volta che ne parlo al pubblico ho sempre come la sensazione di non saper far passare l’urgenza sottesa. Il mio modo di parlare, che reputo calmo e pacato e privo di qualsiasi cedimento retorico, di certo non sa accendere come quello di un oratore (non sono un oratore), ma il semplice por mente al fatto che stiamo rischiando la Terza guerra mondiale dovrebbe provocare una piccola scossa sparpagliata fra tutti gli astanti, disegnata su volti di colpo un po’ ombreggiati dalla preoccupazione, e diffusa come una scossa di corrente a tutto il “corpo” dei presenti raggruppati, almeno per quel piccolo frangente di consapevolezza. In realtà, invece, mi sembra di venir guardato con una certa curiosità («Oh, Godano parla: sentiamo che ha da dire…»), e in quella credo che potrei quasi parlare di qualsiasi cosa, ricevendo lo stesso sguardo di curioso stupore. In quei momenti mi vien da pensare che non sia ancora ben chiaro cosa sta succedendo al mondo (e mica solo a causa delle guerre…), ma poi, a mente lucida, come ora, cerco di razionalizzare il tutto: forse che la gente a un concerto vuole solo divertirsi e evadere? Beh sì, e mi pare giusto, anzi: mi pare bellissimo e necessario. Ma resta un fatto: un accenno alle guerre in arrivo, fatto raccontando di un testo, come fa a lasciar per davvero impassibili? Come fa a non far venire un brivido per un solo frangente che sappia sostituirsi a un accenno di sorriso a sostegno del curioso stupore? Come può non affratellare tutti nella consapevolezza del dramma? Ma d’altronde: che ne so io dei brividi di chi ho davanti? E se le mie sensazioni fossero del tutto errate?

Confusione Però io questa sensazione la provo. E inconsciamente la traduco in una specie di noncuranza. Un po’ come intravedo noncuranza nell’astensionismo. Noncuranza, dice il dizionario, significa “indisponente atteggiamento di malintesa superiorità, riconducibile a ostentazione di disinvoltura, trascuratezza, inosservanza”. E siccome mi sto spostando sull’argomento referendum, mi accorgo che questo significato è più attinente all’astensionismo che non alla reazione del pubblico: difficile che io intercetti nel pubblico una malintesa superiorità, semmai una apparente indifferenza. O una sorta di circospezione, quella che porta a diffidare di un artista che si appropri di un pulpito per ammonire su qualcosa di rilevante in ambito sociale. E a ben pensarci io sono stato il Diffidente numero 1, quando ero un giovane frequentatore di concerti. Ma il mio tono sul palco tutto sa tranne che di predica politica arraffona e sgraziata. È una semplice esposizione di fatti, come quando parlo delle angherie subite dal poeta russo Mandel’štam per sottolineare che cosa vuol dire “regime e privazione della libertà” (non mi stuferò mai di raccomandare il libro di sua moglie Nadia, Speranza contro speranza).

Quando ero giovane c’era anche tutto il fenomeno dell’anarco-punk, i cui gruppi (Crass, Flux of Pink Indians, Conflict, Subhumans…) urlavano tutta la loro angoscia per una serie di temi come la guerra, la violenza sugli animali, le istanze vegetariane, la lotta alle pellicce, per alcuni dei quali ora, a quasi 60 anni, mi spendo: li ascoltavo, ma mi piacevano molto più musicalmente che contenutisticamente. Non sarebbero stati in grado di influenzare la mia sensibilità, che all’epoca era tutta incentrata sull’estetica della rabbia noise, fra stridori elettrici e urla da fascinoso angst esistenziale: sarei dunque stato un distratto ascoltatore di un predicozzo più che giusto fatto da un tipo con la cresta dal suo palco? Temo di sì, e in questa mia personale confusione passo inerme al prossimo capoverso, sottolineando che resta un fatto: lo stato di salute dell’umanità è pessimo, siamo sull’orlo dell’abisso, e se non saranno le guerre a farci fuori, o le democrazie illiberali a farci dimenticare quanto abbiamo vissuto bene dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ci penserà il riscaldamento climatico a farci pentire amaramente di non averci pensato in tempo. E ora il prossimo capoverso.

Racconto Il secondo giorno delle votazioni (era lunedì 9) ero in rientro da Bologna in treno, L’obiettivo era quello di andare a votare: i tempi c’erano, poiché avevo un margine di due ore. Ma voi che siete sgamati avete già capito… Potevano essere rassicuranti due ore col Frecciarosssa? La situazione treni è drammaticamente incommentabile, e anche il 9, come l’80% dei miei viaggi ultimamente, persi la coincidenza col treno successivo e l’appuntamento con le urne. Ma devo dire le cose come stanno: non ci sarei più andato. I dati che stavano emergendo erano impietosi e si percepiva tutta l’inanità dietro all’esercizio del senso del dovere a due ore dalla chiusura dei seggi.

Uscito dalla stazione presi a camminare innervosito: complice lo scazzo per l’ennesimo ritardo subìto scorrevano nella mia mente un sacco di pensieri, tutti focalizzati su questo magico connubio ferrovie-referendum. Questo nervosismo dava vita a un residuo di energie nonostante il rientro dopo quattro-cinque giorni passati in giro, e sentivo che avrei potuto salire in casa e iniziare a buttare giù qualche frase per un articolo scoppiettante. Ero ispirato. Lo avessi fatto avrei parlato male dell’astensionismo, in buona sostanza, ma una volta salito in casa il divano e una cannetta hanno annichilito il mio impeto, e l’ispirazione non sfruttata è sgattaiolata via nei recessi della mia anima in un soffio. 

Analisi Lo confesso: sono rallegrato dal fatto che quel giorno non ho scritto niente. Così tanti sono affiorati all’unisono i giudizi critici intorno al referendum, che ho avvertito l’ingenuità che pervadeva il mio istinto rabbioso. Avrei bypassato tutte le possibili considerazioni socio-politiche e tecniche in cui mi sarei imbattuto da martedì in avanti, semplicemente perché non le avrei avute in mente. Non è una mia passione la politica: le questioni tecniche non mi incuriosiscono e i tatticismi e gli opportunismi e i calcoli e le strategie in genere mi lasciano perplesso, per non dire di peggio. Ma leggendo in rete e sui giornali i vari commenti nei giorni successivi mi sono reso conto della ragionevolezza e asettica giustezza delle tante criticità evidenziate.

Tento dunque un sunto di queste varie criticità: il referendum è stato comunicato malissimo, è stato messo su un piano ricattatorio (devi andare a votare, devi andare a votare, devi andare a votare…), è stato impostato in modo che chi andava a votare dichiarava sostanzialmente di essere contro il governo ultra-destrorso, rischiando di far stare a casa chi non è di sinistra (ovvero: che motivo avevano i sostenitori della destra di andare a votare se questo avrebbe contribuito a far aumentare “la conta dei giusti”?), i quesiti sono stati formulati malissimo nel loro complicato linguaggio, è stata messa un’assurda asticella alla cifra che, una volta superata, avrebbe reso soddisfacente a prescindere l’esito del referendum, ovvero un numero superiore a quello di chi ha votato il governo Meloni alle ultime elezioni (su questo aspetto le critiche sono state feroci e dalle motivazioni variegate: ad esempio il fatto che non si paragona un referendum alle elezioni, oppure il fatto che ci si accontenti di una cifra bassissima pur se più alta, giustappunto, di quella delle ultime elezioni). Più o meno questi gli strali. Grazie a queste criticità si è desunto che la gente non è andata a votare per una serie di motivi fra cui, anche, quelli intimamente connessi con esse. Non solo dunque l’indifferenza e la noncuranza, ma anche le difficoltà di recepire il senso dei quesiti, la ribellione al ricatto, la percezione della politicizzazione innestata dai promotori, e altro. Ho anche letto, di passaggio, una certa commiserazione per i poveri astenuti, contro cui si sarebbero scagliati, quasi come in un gioco delle parti risaputo, i delusi dagli esiti: promotori, sostenitori e votanti (questa boutade mi ha lasciato francamente attonito).

La comunicazione Prima di arrivare alle mie impressioni ragionate a una settimana e passa dal voto, sempre che a freddo interessi ancora a qualcuno, vi sbobino quello che ha detto Patrick Facciolo in un contenuto sul tubo. Patrick Facciolo è un esperto di comunicazione, e io, di già che ci sono, ne approfitto per sottolineare la mia antipatia verso certe modalità della comunicazione ritenuta efficace (ed efficace a tutti gli effetti), per la quale quel che conta è raggiungere più pubblico possibile all’occorrenza abbindolandolo, mentendogli, coccolandolo falsamente, blandendolo eccetera. I populismi fanno ciò con chirurgica spietatezza, ma la comunicazione efficace accoglie chiunque da qualsiasi ambito: se vuoi avere successo devi trovare il modo di convincere la gente comunicando quello che conviene dire, addirittura quello che le piace sentirsi dire, e non quello che veramente servirebbe dire… E in fondo la politica è mediamente settata su questa attitudine, a destra come a sinistra. Un’ultima precisazione: la mia antipatia va anche, come definirla?, a questa specie di sacralità del concetto di comunicazione in sé, e all’enorme potere di cui essa gode di questi tempi: non sapendo però come descrivere al meglio questa mia sensazione la lascio così com’è. 

Le parole dell’esperto Veniamo alle parole di Facciolo: «Io penso che noi italiani ci meritiamo una opposizione seria: Schlein, Conte, Fratoianni, Bonelli, Magi vi siete resi responsabili della débâcle comunicativa peggiore in Italia degli ultimi 25 anni. Avete ingaggiato uno strumento, il referendum, che era bollito e lo sapevate e lo sapete che è bollito e che sono anni che non si raggiunge il quorum e che è difficilissimo portare le persone a votare. Ma se vi foste limitati a questo avrebbe anche potuto passare. Il punto è stata la retorica paternalistica di cui avete riempito i social e i media in questi giorni: dovete andare a votare, i nostri antenati si sono battuti per il diritto di voto e voi non andate a votare… È una fallacia logica questa: si chiama appello alla colpa. E se non lo sapete in psicologia questa modalità non funziona, perché genera quella che in gergo si chiama reattanza psicologica. Tu dici alle persone cosa devono fare e per tutta risposta le persone si mobilitano per proteggere il loro senso di mobilità percepito. Se tu mi dici cosa devo fare io reagisco non facendo quello che mi stai dicendo di fare, soprattutto se fai appello alla colpa. Il punto è che qui non si studia né la psicologia collettiva né la psicologia cognitiva né tantomeno la comunicazione e allora ecco che quando io dicevo a Magi in diretta su La7: “Guardi che se si veste da fantasma la gente resta a casa” intendevo proprio questo e oggi dovreste presentarvi dimissionari presso i vostri partiti e dire loro “Noi non sappiamo comunicare, noi non sappiamo comunicare, noi non sappiamo comunicare e quindi non vinceremo mai le elezioni se non impareremo a comunicare”. Un Paese che abbia un’opposizione che non sappia comunicare è un Paese in pericolo e questo lo voglio dire da cittadino prima che da giornalista. Voi non vi rendete conto che il mondo è cambiato: non esiste più il politico che dall’alto dice all’elettore cosa deve fare. Oggi è l’elettore che dice al politico cosa deve fare. Le destre l’hanno capito. Siete riusciti a farvi fregare sul terreno sociale da politici miliardari che hanno vinto le elezioni. Perché il miliardario parla meglio agli ultimi di quanto non sappiate fare voi. Ripetete con me: “Abbiamo bisogno di una opposizione che sappia comunicare, abbiamo bisogno di una opposizione che sappia comunicare, abbiamo bisogno di una opposizione che sappia comunicare”. E visto che le mie storie e i miei reel li guardate, leader del centro-sinistra, invece di ascoltare me che ve lo ripeto aprite un libro e mettetevi a studiare».

Cambio di atteggiamento Credo che una cultura progressita – ora anche opposizione – che sappia comunicare nel modo ritenuto efficace non possa altro che essere portata ad abbassare il livello dei suoi contenuti a un tipo di linguaggio più spudorato e aggressivo, come quello adottato dalla destra dai tempi primordiali di Salvini e la sua Bestia, il social media di cui si serviva. Ovvero quel «le destre l’hanno capito» di cui parla Facciolo. Cosa hanno capito? Che in rete gli algoritmi premiano la merda, il caos, la rabbia, la paura, la vulnerabilità, gli assalti, il linguaggio scarnificato e involgarito, i nervosismi e l’astio fra la gente polarizzata, perché su di essi/e sono tarati. E in assenza di pudori intellettuali radicati (dubito che alla destra estrema siano interessati ai valori più importanti delle conquiste illuministe, tipo l’ascolto, il dibattito, i diritti garantiti a tutti, e altre quisquilie simili), hanno affondato il colpo vincendo a mani basse. Ci piace questo mondo? È un tema dibattuto di questi tempi e pare esserci a sinistra una corrente di fautori di questo step comunicativo (ha un nome ma non lo ricordo): diventare aggressivi come fa la destra, unico modo per garantirsi efficacia in rete (per me resta assurdo però dover sottolineare che i miliardari hanno capito come parlare ai poveri. Come avrebbero parlato ai poveri i miliardari se non inculandoli con la narrazione capitalista sempre più vacillante e facendo diventare povero il 90% dell’umanità? È il modello da seguire in quanto vincente? La comunicazione detta le condizioni, e ti ci devi adeguare o… non arrivi?). Di tutto ciò ne parlai quattro o cinque anni fa proprio in un mio articolo qua, e pensavo a qualcosa di simile. Pensavo: o la sinistra e la cultura progressista capiscono che cazzo si deve fare in internet e la smettono di prendere sberle senza saper reagire, o la partita è persa. È aberrante, è detestabile, ma se si vuole parlare di “comunicazione” e renderla efficace le regole paiono essere queste.

Il fuoco amico Immaginiamoci però un uso della rete spudorato, banalizzato, reso basico e aggressivo da parte dei “giusti”, cioè noi che ci riteniamo tali, vero o falso che sia. Quanti missili dal fuoco amico! Quante critiche! E non dai fascisti che danno dei fascisti agli anti-fascisti, ma da quasi tutto il popolo amico, per l’appunto, ovvero la sinistra e il mondo progressista in genere, fra le caustiche derisioni intellettuali e le indignazioni più panciute. Non è difficile immaginarlo: un’elettrica zuffa sdegnosa di “se” e “ma” all’ultimo respiro.

E arriviamo al punto: queste criticità intorno al referendum di cui ho parlato sono tutte piuttosto ragionevoli. Sono tutte “vere”. Mi ci sono ritrovato, le ho comprese, e le ho ritenute giuste e sensate. Mi hanno illuminato. Ma la veemenza con cui sono state scritte (non certo dal mondo di destra… non li ho nemmeno letti gli sberleffi della destra) mi ha ricondotto alla piaga del fuoco amico, che fa sì che il popolo progressista in sé sappia benissimo, nelle sue innumerevoli fazioni e frazioni, come darsi sempre le giuste martellate sui coglioni per mettere a cuccia qualsiasi possibile aggregazione volta a fornire un fronte comune al di sopra delle micro-divisioni. Ciò che il popolo della destra e i suoi rappresentanti sanno fare benissimo.

So altrettanto benissimo perché a sinistra accade e a destra no, ma a volte penso che il pragmatismo dovrebbe illuminare le menti e far andare oltre la filosofeggiante sicumera e il desiderio  di polemizzare, perché il non riuscirci appare come cosa stupida nella sua ricorrente inconcludenza. Da qualche parte, tempo addietro, ricordo che azzardai un parallelo col popolo del rock e dell’indie rock, presumibilmente progressista e non di estrema destra, nelle sue frange elitarie: anziché far squadra e sostenere una scena italiana nascente per un ritorno positivo per tutti (musicisti e ascoltatori), lo sport preferito è sempre stato quello di tentare di demolire, screditare, svalutare le qualità di chiunque si azzardasse a crescere e a far progredire il proprio progetto. Io e il mio gruppo ne siamo lampanti testimoni. 

Rimedi Dunque, per arrivare alla conclusione e ai motivi per cui ho scritto questo lungo papiro virtuale… Intanto: vero tutto quel che si è mosso a critica e, se ne deduce, vero che il referendum gode di pessima salute (sono solo due a essere passati nel corso degli ultimi trenta anni in cui ne sono stati convocati 11: cioè 9 su 11 hanno fallito). Personalmente mi sembra che la cosa più giusta per renderlo importante e fattivo strumento di partecipazione popolare sarebbe quella di togliere il quorum, e parte del dibattito suggerisce questa evenienza, in cui mi ritrovo. Lo scenario appare plausibile: se non vai a votare accetti il fatto che anche un solo 20% di votanti decida anche per te. Non ti piace? Anziché andare al mare vai a esercitare il tuo diritto di dire la tua per contrastare l’avvento di una cosa che non vuoi. Detta così, come potrebbe essere confutabile da un punto di vista logico? Non sono un politologo e nemmeno un giurista: qualche controindicazione ci sarà, io non la intravedo. Temo però che il concetto stesso di “partecipazione popolare” provochi inneschi immediati di orticarie in tutti gli anti-zecche d’Italia, e questo effetto cruciale della propaganda capitalista in decenni di accerchiamento delle popolazioni occidentali è in tutta franchezza, ahimè, un problema grottesco. Mi pare però che sempre più persone, non necessariamente zecche, si stiano rendendo conto, impoverite nelle loro attività private da partita Iva tartassata, che il capitalismo, con o senza turbo, le ha illuse e frodate. Ma andiamo oltre…

Conclusione E arriviamo allora a constatare che alla fin fine questo mio articolo scritto sotto l’egida del raziocinio sconfessando la pancia degli istinti (il mio rientro col treno in ritardo, la rabbia, l’eccitazione di resocontarne in modo polemico) approda comunque e in ogni caso allo scopo che avrei potuto avere quel lunedì 9 di cui vi ho detto: aver da ridire sugli astensionisti. Perché li immagino comunque più indifferenti e noncuranti che intenti a contestare qualcuna delle criticità evidenziate. Ammettendo pure un 20% di quota di astensione a causa di uno dei difetti analizzati ex-post dai commentatori, io ho la sensazione (e siamo in tanti ad averla) che il restante 80% – cifre a caso, sia chiaro – di chi non è andato a votare abbia operato questa scelta con gli stessi motivi di sempre: scazzo, indifferenza, noncuranza, irrisione, delusione digrignante e simili. Ma considerando i tempi del cazzo in cui viviamo nel mondo, considerando cosucce tipo il decreto sicurezza che ci sta portando verso la lenta espropriazione dei diritti (temo che queste parole, tipo espropriazione dei diritti, così spesso usate di questi tempi, provochino un effetto saturazione in molti: ma se questi molti si informassero e approfondissero fuori dalle loro letali camere dell’eco, non potrebbero non provare un brivido per ciò che sta accadendo con questo decreto), e considerando inoltre che uno dei difetti imputati al referendum era la chiamata “dalla parte dei giusti”, io penso che una dotazione minima di senso di responsabilità e urgenza avrebbe dovuto comunque e in ogni caso allertare tutti i non simpatizzanti dell’ultradestra a fare la qualsiasi per arginare qualcosa che ci sta travolgendo, anche un gesto più simbolico che fattivo nel caso… Della serie: sì, ci sono tanti difetti, questa politicizzazione del referendum è discutibile ma voglio e desidero far comunque numero per dare un segnale di qualche tipo a chi ci sta portando in luoghi non piacevoli. Fatico a credere che chi non è andato a votare abbia agito così perché gli stava antipatica la politicizzazione: perché non decidere di dare un segnale forte di qualche tipo PROPRIO approfittando della politicizzazione in sé? Perché non voler far squadra e partecipare, dati i luoghi non piacevoli che ci aspettano?

Indifferenza, noncuranza, irrisione, scazzo: per me di questo si tratta. «Sono tutti uguali, fanno tutti schifo!»: c’è del vero, ma c’è anche del vero nel fatto che no, non sono tutti uguali. “Libertà è partecipazione” cantava il Gaber tanto ammirato dai tanti che si accorgono della sua intelligenza vivida nel tratteggiare i contesti sociali in cui si viveva, ma io sospetto che fra questi ci sia anche chi non partecipa per nulla. E scrivendo queste cose mi sovviene di quando vi ho raccontato della reazione di molte facce a certe mie parole sui palchi quando introduco Com’è possibile: non so, è come se non ci si rendesse conto della gravità delle cose intorno a noi, in Italia e nel mondo. Questo porterebbe, di nuovo, a parlare di comunicazione e di camere dell’eco, e di manipolazione, eccetera eccetera eccetera: cose di cui spesso mi sono occupato in questi miei scritti. Resta un fatto, per me e per tanti italiani: esiste una astensione che giudichiamo irresponsabile, condannevole, e nociva quanto meno per noi. La più parte dei non-voti degli astensionisti è un contributo alla condanna a cui sembriamo essere destinati: la lenta fine delle democrazie, o un loro drammatico depotenziamento. E ci dà francamente fastidio.

Post scriptum C’è una cosa che ritengo molto grave ed emblematica dalle risultanze del voto: i molti “no” al quinto quesito, quello sull’immigrazione. In un mondo destinato a produrre sempre più migranti a causa di un caldo insostenibile connesso al riscaldamento climatico e dunque alle nostre attività, di cui siamo responsabili a prescindere senza dover per forza invocare un senso di colpa mortificante, questa cecità alimentata da un problema sostanzialmente falso propagandato dai populismi, che vorrebbero scaricare sui migranti le nostre magagne, disarma e frustra. State sentendo il caldo di questi giorni? State immaginando che ogni estate sarà sempre un po’ peggio? Potete figurarvi la canicola mortifera in certi Paesi da cui sempre più si fuggirà (verrà il tempo che anche noi fuggiremo, visto che l’Europa e l’Italia nello specifico sono una delle aree del mondo più a rischio di surriscaldamento e desertificazione)? Provate a porre mente – per favore, fatelo – ai poveri incarcerati che si smezzano insieme ad altri corpi sudati come il loro una cella angusta, sporca, non igienica, priva di aria condizionata e di letti decenti eccetera: riuscite a provare un brivido di terrore per la condizione bestiale? Proprio oggi, mentre mi leggete al riparo dell’aria condizionata, nelle celle d’Italia ci sono cinque o sei persone che dividono uno spazio malsano di una ventina di metri quadri… Senza aria condizionata, giorno e notte, ogni giorno e ogni notte: immedesimarsi non dovrebbe essere così difficile… «Se sono in carcere è perché se lo sono meritati!»: ah sì? E se un giorno vostro figlio grazie al decreto sicurezza si dovesse trovare a morire di caldo e di sudore e di odori umani da un giorno all’altro per aver commesso un reato del cazzo, sareste così convinti che se lo fosse meritato? Che si fosse cioè meritato di rischiare di suicidarsi per la disperazione di trovarsi in un posto privo di umanità? Ma sto andando off topic…

Torniamo a noi: non possiamo farci carico dei mali del mondo, non possiamo accettare l’imposizione di sensi di colpa distribuiti con faciloneria dalle tante possibili narrazioni che ce li propongono, ma potremmo almeno impegnarci nel comprendere i fenomeni e nel provare empatia, non perdere il contatto con l’umanità, e andare a votare ai referendum che si proponessero di osteggiare il peggio in arrivo. Non dico tutti, ma i tanti che potrebbero arrivarci e non ci vogliono arrivare per pigrizia.

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