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Paura?

La casa del terrore spaventoso

Un racconto orrorifico de Lo Sgargabonzi

La casa del terrore spaventoso

Foto di Ján Jakub Naništa via Unsplash

Avrò avuto sette o otto anni.

Ricordo che era notte fonda, stavo tornando dal catechismo e mi sentivo molto triste, perché avevamo fatto una lezione sul fatto che Dio esiste ma il personaggio dell’apostolo Taddeo forse no e a me la cosa aveva fatto estremo dispiace. Fu così che la catechista per tirarmi su di morale mi aveva regalato un biglietto omaggio per il luna-park che tutti gli anni approdava nel mio paese in estate, gestito dagli zingari.

Avevo quindi deciso di recarmici. Il lunapark si trovava in uno sterrato alla periferia, circondato da filo spinato e con attrazioni alimentate a cherosene. Si vedeva che era un luna-park povero, visto che non avevano avuto nemmeno i soldi per un’insegna personalizzata. Infatti ne avevano messa una generica, probabilmente presa in prestito da qualche parte, con su scritto Cartoleria Morandi.
Purtroppo il luna-park stava smontando, causa salmonella, tanto che c’era rimasta una sola attrazione: la Casa del Terrore Spaventoso. Ho pensato se fosse o meno il caso di entrare, perché c’erano dei pipistrelli pitturati sopra e magari dentro era pure peggio. Poi, ricordando il fulgido esempio dei martiri di Belfiore, mi sono fatto coraggio. Un signore vestito da Davy Crockett mi ha fatto il biglietto, quindi mi ha guidato all’interno, insieme ad altri bambini e al clown Cagnacci Oreste, un pedofilo della zona. Da fuori l’attrazione sembrava mastodonticamente immensa, ma una volta dentro mi sono accorto che era tutto un compensato che attraverso uno stretto corridoio ci portava verso un non-so-dove. Allora mi sono fatto piccino piccino, un po’ perché spaventato, un po’ perché deluso, un po’ perché chiaramente sono sempre soldi.

Arrivati in uno stanzino buio, la guida ci ha fatti posizionare dietro una transenna, quindi si è acceso un neon davanti a noi, che ha illuminato tutto l’ambiente. Le pareti erano nere di muffa e c’era solo un cartello di cartone con su scritto “FATE SILENSIO, CRASSIE”. Al centro della stanza, sotto al neon, c’era un lettino da ospedale su cui giaceva un bambino magrissimo e dalla pelle maculata. La guida ci ha spiegato che quel bimbo stava morendo di AIDS, una malattia degenerativa che si prende leccando le tavolette dei gabinetti degli autogrill. “Poverino!”, ho subito pensato. Davano, in sottofondo, una canzone dei Gazosa ma si sentiva appena, per rispetto a questo bimbo malato. La guida è passata a consegnare a ognuno di noi un ramoscello di legno, con cui avremmo potuto toccare questo bambino e giocare con lui con discrezione e senza prenderci le malattie. Solo che da quella distanza era difficile prendere bene la mira e il ramoscello era sì leggero, ma comunque troppo pesante per noi bambini. Ma in un attimo eravamo tutti lì con i nostri rametti, a scuoterlo, a fargli il solletico sul pancino, negli occhi, dentro al naso. Il bambino emetteva dei piccoli gemiti, credo di piacere. Poi ha fatto una smorfia tipo di piacere e ha vomitato di piacere. Tra l’altro ha vomitato del semolino e un cartone del latte vuoto.

Buffissimo!

Noi lo spingevamo di qua e di là verso i bordi del letto, che tanto non cadeva perché c’erano le ringhiere. Un bambino è anche riuscito ad alzargli un braccio e per un attimo è sembrato quasi che ci salutasse. A un certo punto, senza volerlo, col ramoscello gli ho fatto pressione su un dentino cariato, che si è staccato e gli è caduto in bocca. Mi è dispiaciuto, mi sono sentito cattivo e mi è venuto da piangere lacrime di sangue. Poi ho visto che lui come impazzito ha sgranato gli occhi, ha iniziato a muoversi strano, a scatti, prendendo a succhiare quel dentino cariato come se fosse la più golosa fra le caramelle all’orzo!

E allora mi sono sentito felice, per aver fatto del bene ad un bambino malato. Ma poco dopo la guida ci ha mandati via, perché c’era un’altra comitiva che voleva entrare. E io mi sono messo a piangere perché lo volevo vedere morire. Per fortuna prima di uscire c’era anche una statua di Frankenstein e tutti ci siamo spaventati e abbiamo riso e siamo usciti cantando spensierati Piange il telefono.
Una volta fuori però, c’è voluto un attimo perché prendessi coscienza della mia malinconia per il fatto che mi aspettavo di più.
Sono poi restato ancora un po’ al luna-park degli zingari, perché il clown Cagnacci mi voleva offrire un gelato alla mela cotta e dopo mi riportava a casa lui. Ma all’improvviso si è aperta la finestra della casa degli orrori e una donna delle pulizie nana ha scosso fuori un materasso. Il bambino era morto! Quella che sembrava la peggior serata della mia vita, si era salvata, come si suol dire, “in corner”.

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