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Società

Impariamo a difenderci dal capitalismo della sorveglianza

Credere a bufale e complotti non ci aiuterà a smascherare la logica che ha fatto dell'espropriazione dei nostri dati comportamentali la base di una nuova forma di mercato, impoverendoci

Impariamo a difenderci dal capitalismo della sorveglianza

Cristiano Godano

Foto press

C’è un passaggio emblematico (fra molti) in quel libro che ho avuto occasione di consigliare a volte, fra interviste e dirette streaming: Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff. Un libro che se tutti conoscessero (come tutti dovrebbero, secondo me, vedere e conoscere Social Dilemma, ma ne ho già parlato) si sarebbe attrezzati, sempre secondo me, per sapere con chi prendersela quando tutto dovesse scoppiare.

Cerco di farmi capire meglio: mettiamo che un giorno il mondo dei comuni mortali esploda di rabbia e frustrazione. L’ipotesi non è del tutto visionaria o distopica: anche se probabilmente non accadrà in tempi brevi e ragionevoli (di sicuro altri tipi di turbolenze non tarderanno a comparire, questo a me pare certo, visto che già soltanto a pensare al peggioramento climatico e al fatto che milioni di persone nel mondo cominciano a non avere accesso all’acqua potabile, il destino prossimo venturo saranno gli affanni causati da migrazioni sempre meno controllabili), anche se non accadrà in tempi brevi, dicevo, non è poi così peregrino immaginare che potrebbe accadere. Ora il Covid (chissà perché l’ho scritto in maiuscolo…) sta mettendo a dura prova la pazienza di molti, e la gente ha una percezione più a fuoco della frustrazione che vive nel suo sbattersi spesso a vuoto non sapendo quando finirà e cosa accadrà una volta che “tutto” sarà finito, se davvero sarà “finito” (le domande ormai stanno segnando un’epoca: torneremo come prima? Saremo diversi? Migliori? Peggiori? L’oziosità e la sostanziale, falsa o imbelle, “fintotontaggine” da cui originano è ormai avvertibile dalle menti meno pigre). In assenza di covid (tornatene minuscolo, virus!), il limbo degenerante sarebbe sicuramente più lungo, e sarebbe dunque lungo il processo di avvicinamento alla presa d’atto definitiva. Il covid invece accelera il processo, e la rabbia monta un po’ più velocemente verso tale presa d’atto intesa come miccia esplosiva. I tipi di rabbia sono variegati, e mi limiterò a connettere queste semplici sensazioni a quelli basici, istintivi, di pancia. Quelli poco ragionati, poco riflessivi, poco democratici e poco bendisposti nell’andare a cercare le varie motivazioni dei perché di tale rabbia. Quelli che fanno tanto gola, in buona sostanza, ai populisti, che trovano terreno fertile nella facile fomentazione che si può mettere in atto nei confronti, spiace dirlo, del popolo poco votato alle ponderazioni.

Bene: rischiando un pot-pourri di particolare densità, mescolando immagini che possono provenirmi da una conoscenza molto meno che approssimativa dei fenomeni storici e delle singolarità di ciascuno di essi, immaginiamo la rivolta della gente. I populisti (c’è chi preferirebbe “gli schifosi neoliberisti”) hanno fatto la loro parte, hanno disorientato le capacità di discernimento di grossa parte del popolo, lo hanno in qualche modo domato con promesse non mantenibili se non a scapito della privazione della libertà e con l’illusione da ciarlatani di vari miraggi che prima o poi sono venuti allo scoperto nella loro tangibile fallibilità (come i famosi nodi al pettine), e il vaso è traboccato. Ora il popolo è esploso e va a cercare i responsabili per metterli a testa in giù. Non è necessario ricorrere a Piazzale Loreto per prefigurarsi una immagine che preferisco resti più metaforica che reale (le rivoluzioni non mi stanno molto simpatiche: sono cruente. Preferisco il “prevenire è meglio che curare”, e proprio per questo confido nell’intelligenza, nella lungimiranza, nella alacrità – il contrario della accidia e dell’ignavia – e soprattutto nella diplomazia e nei compromessi, che sono pragmatici lavori dell’intelligenza, a volte cinici, ma quasi sempre utili a evitare il peggio): prefiguriamoci semplicemente una rivolta che scacci a pedate il ciarpame della politica (non sottendo con ciò che tutta la politica e tutti i politici siano ciarpame), semmai lanciando monetine addosso ai peggiori.

E non pensiamo in questa sede ai revisionismi che ne conseguirebbero, e alle correzioni della storia nei confronti delle degenerazioni indiscriminate della rabbia del popolo che prende abbagli e si scaglia contro tutti, colpevoli e incolpevoli (già, le rivoluzioni…), perché quello che interessa a me è rimarcare il dispiacere (faccio per dire) che provo nell’immaginare che, una volta partita la rivolta, si andrebbe a cercare i responsabili minori, essendo i maggiori i detentori dei mostruosi imperi economici generatisi dal “capitalismo della sorveglianza”. I nomi più facili sono i soliti, e li ho già scritti altre volte: Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Google, eccetera. È a loro e ai loro affini che la rabbia della gente dovrebbe rivolgersi senza troppe premure, nel caso della immaginata rivolta. Ma non accadrebbe, perché, per fare un banale esempio, so che per molta gente Social Dilemma non è affidabile e “esagera” (c’è sta menata, che gira fra i giovani “intelligencij”, che è prodotto da Netflix – ergo, secondo l’accusa, c’è una sorta di vizio formale e sostanziale all’origine – e questo genera un pensiero avvoltolato su se stesso, che, come ho già detto altrove, a me pare sia come guardare il dito quando ci viene indicata la luna). Insomma: Social Dilemma dice cose che un buon numero di persone, fra giovani “intelligencij” e basici ostili di default a tutto ciò che puzza di “radicalchicchismo”, non vuole sentirsi dire. Per me questo è un grave peccato.

Ma qual è il passo interessante del libro che ho nominato a inizio articolo? Questo, che sta in apertura del capitolo 3, paragrafo 6: “Il capitalismo della sorveglianza è stato inventato da un determinato gruppo di persone, in un luogo e in un periodo determinati. Non si è trattato né di una conseguenza resa inevitabile dallo sviluppo della tecnologia digitale, né dell’unica espressione possibile del capitalismo dell’informazione. Il capitalismo della sorveglianza è stato costruito intenzionalmente in un particolare periodo storico, proprio come ingegneri e tecnici della Ford Motor Company avevano inventato la produzione di massa nella Detroit del 1913”.

L’altro passo interessante arriva poco dopo (si proviene da un discorso in cui si dice che l’amministrazione Clinton aveva posto dei freni per regolamentare l’uso dei cookie – mossa commoventemente lungimirante purtroppo fallita a causa dei fortissimi interessi degli inserzionisti pubblicitari – poiché si era intuito che la loro implicita azione di monitoraggio andava a ledere la privacy di noi utenti): “Google cambiò la storia. Come era successo con Ford un secolo prima, gli ingegneri e gli scienziati composero per primi la sinfonia della sorveglianza, integrando una serie di meccanismi che andavano dai cookie ai metodi di analisi specifici e agli algoritmi, secondo una nuova logica che trasformava sorveglianza ed espropriazione dei dati comportamentali nelle basi di una nuova forma di mercato. L’impatto di questa invenzione fu sconvolgente come quello di Ford. Nel 2001, Google mise alla prova i suoi nuovi sistemi per sfruttare il surplus comportamentale, i suoi introiti arrivarono d’un balzo a 86 milioni di dollari (con un incremento di più del 400 per cento rispetto al 2000) e l’azienda per la prima volta cominciò a guadagnare. Entro il 2002, il denaro cominciò ad arrivare a fiumi, senza più fermarsi, prova definitiva che la combinazione tra surplus comportamentale e brevetti di Google era vincente. Gli introiti arrivarono a 347 milioni di dollari nel 2002, a un miliardo e mezzo nel 2003, e a tre miliardi e mezzo di dollari nel 2004, l’anno della quotazione dell’azienda sul mercato. In meno di quattro anni, la scoperta del surplus comportamentale aveva fatto salire gli introiti di uno stupefacente 3590 per cento”.

Lasciando da parte il concetto di “surplus comportamentale” (utile ma non necessario alla comprensione di ciò che sto provando a trasmettere… se leggerete il libro vi verrà spiegato), riscriviamolo: tre miliardi e mezzo di dollari, 3590 per cento di incremento. Tutti guadagnati coi nostri click gioiosi e spensierati sul computer e sul cellulare (Social Dilemma queste cose ce le spiega bene).

Ecco: non voglio trasformare questo articolo in qualcosa di insostenibile anche per la pazienza del più disponibile fra i miei lettori, ma vorrei dirvi che tutte queste parole le ho scritte perché qualche settimana fa mi sono imbattuto in tre cose che mi hanno fatto girare i coglioni o, semplicemente, sollecitato, come sempre quando mi imbatto in evidenze che mi riportano alla memoria ciò che mi è intuitivamente chiaro da anni e che mi fa percepire una rabbia e una frustrazione un po’ meno di pancia di quella istintiva che ho nominato sopra. Non per questo meno rabbiosa e meno frustrata.

La prima: i lavoratori di Amazon si stanno ribellando al massacro quotidiano a cui sono sottoposti in quanto lavoratori di una azienda che li sfrutta in modo serrato (dolce eufemismo) per ottenere i fantastici risultati tanto apprezzati dalla gente, cioè avere tutto a portata di click pagando meno di qualsiasi concorrente che concorrente non è perché non esiste alcuna possibilità di mettersi in concorrenza con un colosso simile. Il 22 marzo i lavoratori di Amazon hanno indetto uno sciopero (è il primo in Italia, ma l’inquietudine mi pare di aver capito stia montando ovunque. Magari fra chi mi legge c’è chi è abituato a comprare Internazionale, il giornale. E… beh, chi ha letto l’articolo di copertina del numero di fine marzo sa di cosa parlo: un dossier piuttosto da brividi sulla situazione dei lavoratori Amazon in America, che bene illustra a quali condizioni si ottiene il risultato stordente di soddisfare la pigrizia e la voluttà consumistica di un pianeta distruggendo mercati qua e là, senza pagare le tasse).

Cerco di tediarvi il meno possibile, ma vi riporto due dichiarazioni di due lavoratori intervistati in Italia, coloro che consegnano i pacchi: “I tempi e i ritmi di lavoro ce li detta l’algoritmo. Ti chiede di fare 140-160 consegne al giorno. Il turno dura otto ore. Tradotto: una consegna ogni tre minuti”. La seconda: “A 63 anni dipendo da un algoritmo. La mattina ti arriva sul device la rotta. Sono tutte le consegne da fare: in media 230 pezzi, ma a volte anche più di 300. Questo pone un tema delicato: la sicurezza stradale. Nostra e di chi incrociamo in giro. Se superi i limiti di velocità ti scalano le multe dalla busta paga. Idem se danneggi i mezzi”. Facciamo pure la tara, se volete fare coloro che avanzano subito dubbi: vi dà fastidio che uno abbia detto 160 e l’altro 230-300? Sentite puzza di bruciato? Lasciamo che siano 160. È lo stesso una cifra da brividi. E ora immedesimatevi in colui che magari vi porta a casa il libro che avete comprato (come faccio io, ahimè) su Amazon: un libro. Un cazzo di libro consegnato da un corriere che zigzagando per le caotiche strade della vostra città e cercando disperatamente di parcheggiare il mezzo in quinta fila per venirvi a suonare al campanello aspettando che scendiate, deve consegnare altri 159 pacchi, alcuni ingombranti (che giustificano l’esistenza dei corrieri) altri no, come i libri, che uno potrebbe comprarsi da solo in una libreria. Vi arriva, il vostro libro, il giorno dopo il vostro click se siete Prime, lo pagate meno del prezzo di copertina, e non siete dovuti uscire di casa per andarlo a cercare, magari rischiando di non trovarlo perché anche la più grossa delle Feltrinelli non può avere “tutto” come “tutto” hanno gli immensi magazzini di Amazon (come possono competere le librerie con questa disparità abissale?).

Quante cose si potrebbero dire… Ken Loach le ha dette benissimo in Sorry We Missed Uou, che è un film (e Ken Loach un regista cazzuto e al contempo poetico, dannatamente poetico). Io quando l’ho visto sono rimasto sconvolto per una buona ora. Giravo per Torino con la mia compagna, scioccato e demolito dentro, e dentro ho pianto. Cercate quel film, guardatelo: se non siete fatti di ferro vi sarà impossibile non empatizzare, ve lo garantisco.

È un terreno minato, la discussione è accesa: Amazon e compagnia bella hanno strenui difensori. La più parte sono in verità più che altro gli acquirenti-consumatori non toccati dalle varie problematiche, ovvero coloro che beneficiano dei prezzi più bassi: come non comprendere? Come non cogliere che «il mondo va avanti e tutto si assesterà secondo nuovi moduli e nuovi parametri?». Peccato che tali prezzi bassi e vantaggiosi siano ottenuti a condizioni discutibili (il dolce eufemismo ritorna).

E allora dico questo: ribadendo che cedo anche io alle lusinghe della facilità del click a portata di mano (un click che scatena l’inferno delle condizioni lavorative appena accennate, che non si limitano solamente alle problematiche dei corrieri, ma che riguardano anche chi sta nei magazzini a correre come un matto alienato per gli immensi corridoi di mostruose “scaffalature” riempite di ogni sorta di prodotto, in ogni minuto di ogni ora di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese di ogni anno per stare al frenetico passo con le stesse esigenze performative viste sopra – sembra addirittura che a volte preferiscano pisciare in qualche contenitore a portata di mano perché la toilette è così lontana dalla loro area di lavoro da preferire la velocità di una minzione al volo per non rischiare di perdere il posto – così come dietro a un morso di carne ci sta l’innominabile, devastante, angosciosa sofferenza di animali che l’evoluzione ha condannato all’imperitura sfortuna di essere vittime sacrificali dell’ingordigia umana), vorrei, fortemente vorrei, che una legge mi imponesse di non cedere a quelle lusinghe, a me come a tutti, in accoppiata a un’altra che abolisse con un colpo di bacchetta magica tutte le eclatanti differenze che esistono fra una qualsiasi azienda e Amazon, colosso inattaccabile e impossibile da fronteggiare sul mercato della impossibile concorrenza. E facendogli pagare le tasse in assenza dei paradisi fiscali. Sarebbe un mondo meno imperfetto, mentre allo stato attuale è un mondo sotto un grande ricatto. Per esempio: è praticamente impossibile, anche per una band com MK, consapevole di tutto quanto scritto, non essere in quel grande mercato dove tutto il mondo fa acquisti on line. Non esserci (come non essere sui social e sulle piattaforme) vuol semplicemente dire dare una spinta consistente alla propria auto-estinzione. E tutto ciò è sufficientemente frustrante. (Per non parlare dei marketplace, di cui secondo me si può beneficiare con scarsi e avvilenti risultati a fronte di sbattimenti di proporzione mostruosa, tranne le solite eccezioni che confermano la regola del nuovo mondo, ovvero: o sei super mainstream o sei nulla).

Un sacco di gente replica che così è sempre stato: c’erano una volta i calesse, e quando sono arrivate le macchine i produttori di calesse hanno perso il lavoro. È vero (e emblematico diventa l’accenno a Ford nel libro che vi ho suggerito sopra), ma qui c’è di mezzo il mondo, non una sola categoria di lavoratori. La rete e la tecnologia hanno la possibilità di sostituirsi a decine e decine di lavori. È accaduto, accade, e accadrà sempre più. (È bene io ammetta di far parte della fetta pessimistica di chi su queste cose ci pone testa, ben sapendo che c’è anche la versione degli ottimisti. Il mio pessimismo l’ho spiegato e motivato in altri miei Elzevirus). Sarebbe bene leggerselo quel libro: è autorevole, è serissimo, e non è purtroppo scorrevole o leggero; e ci spiega una parte dei vari “perché” che spiegano come ci stanno inscatolando (dice Naomi Klein: “Leggendo Il capitalismo della sorveglianza ho sentito subito l’urgenza di farlo leggere a chiunque, come atto di autodifesa digitale”). So che in pochissimi di voi lo faranno. (Facendolo, ovviamente, si capirebbe che Amazon non è l’unico sul banco degli imputati… Mi sono soffermato su di “lui” perché lo sciopero dei lavoratori di Amazon mi ha fatto venir voglia di scriverne).

Epperò vi ho scritto che altre due cose mi han fatto venir voglia di tornare sulla mia ormai nota idiosincrasia nei riguardi del raggiro della rete (parole forti, lo so…).

La seconda dunque: altri lavoratori hanno protestato in piazza. Sapete chi? I musicisti (ma non quelli italiani). Leggete qua: Justice at Spotify. Ovviamente era ora. E mi verrebbe da cercare di unirmi a quei 28.000 firmatari (anzi: tolgo il condizionale) fra cui il mio mito di sempre, Thurston Moore. I pipponi sul grande ladrocinio delle piattaforme ai danni dei musicisti ve li ho già fatti qua molte volte, e nonostante ritenga che ci sia sempre qualcuno là fuori che ancora non conosce come stanno le cose, mi rendo conto che non posso riparlarne ancora. Non qua. Ma rimarco come mi suoni particolarmente curioso di non aver mai notato qua in Italia un solo collega che abbia osato o saputo o voluto esternare tutto il logico disappunto che serve per far notare alla gente la pena della situazione in atto (inglesi e americani lo stanno finalmente facendo, anche i grossi calibri. I Radiohead è da almeno dieci anni a questa parte che sono sul pezzo).

È doveroso, per essere seri, sottolineare che Spotify ha risposto a quei musicisti, ma la risposta è fuorviante e deresponsabilizzante, poiché non offre nessuna reale ipotesi di soluzione al dramma della impossibilità di remunerare la musica in rete (se siete veramente curiosi la risposta la potete cercare e trovare). Perché, come ho già scritto, secondo me non è nemmeno colpa di Daniel Ek, ceo di Spotify, che si dice sia una azienda mediamente in perdita: è proprio l’impossibilità di ottenere remunerazione in rete il problema. È la rete che appiattisce tutto verso il disarmante, frustrante e annichilente zero. Di passaggio vi chiedo: voi avete una pallida idea di quanto possa essere la paga media di un giornalista in rete – ma anche sul cartaceo, che non vende più – per un articolo al giorno d’oggi? I tanto vituperati giornalisti? (Amerei rammentare chi furono i primi a fomentare sistematicamente l’odio verso tale categoria… È un movimento politico… Contiene i lumi del cielo nel suo nome). Lo sapete? Lo immaginate? Sarebbe curioso vedere quali cifre immaginate guadagnino a articolo i giornalisti al giorno d’oggi… I giornalisti dell’era Internet ovviamente, non quelli che contrattualizzarono le loro posizioni prima dell'”avvento”…

E veniamo alla terza. Un po’ di giorni fa mi sono imbattuto in un messaggio rivolto a me sul messenger dei Marlene. Una persona educata (un ammiratore di MK) che espone le sue “teorie” con tanta rispettosa convinzione ribattendo alle mie affermazioni in risposta al suo primo messaggio (è stato uno scambio fra persone pacate e premurose, io forse ho usato uno o due termini dalla natura un po’ cinica – penso tuttora di averne avuto i motivi – e me ne sono accorto dopo aver percepito il suo disappunto: ho chiesto scusa). Quali queste teorie? Riassumendo in modo un po’ grossolano, quelle che girano in rete su YouTube, dove filosofi, politici o dispensatori di opinioni manichee hanno il loro canale in stretta correlazione, mi pare, con un canale “televisivo” (ma credo sia anche blog, e forse quant’altro) che crea un cortocircuito perfetto e chiuso di pareri-idee-convinzioni che vengono spacciati per libera informazione (il canale è Byoblu). “Opinione” e “informazione” sono due termini ben distinti, che esprimono cose diverse. Questo ammiratore è convinto di quello che riporta e “ha un quadro ben definito della faccenda”. E giù con un florilegio noto di nomi e visioni che si possono riassumere, ancora un po’ grossolanamente, con termini come “cospirazionismo” e simili (voglio essere del tutto corretto con lui, che sottolinea di non esserlo. Ovvero di non sentirsi tale. A sostegno di ciò ammette che il virus esiste e ha mietuto vittime… È già qualcosa).

Immagino che alcuni sappiano molto bene di cosa sto parlando (e fra di essi molti siano a loro volta “seguaci”), e molti no. Per farla breve, se si va in un qualsiasi contenuto di codeste piccole star del mondo YouTube (gente che a mia sensazione ha come obiettivo la banale, ben poco idealistica e men che meno virtuosa monetizzazione, e che per far numeri che la alimentino la spara grossa in modo da essere divisivo e garantirsi le fibrillazioni algoritmiche ben note), i commenti medi sottostanti sono cose tipo: «Il governo ci vuole morti», «Il governo vuole distruggere le classi medie e soprattutto le PMI», «La maggior parte del popolo è totalmente sotto ipnosi», «Il governo fa di tutto perché le aziende piccole falliscano il più rapidamente possibile», «Grazie al lockdown il virus è uno strumento per far fallire il mondo», «Covid truffa mondiale», «Biden due giorni fa ha preannunciato un very dark winter per gli americani, e tra poco tutto avrà inizio» (penso si alluda al big reset, di cui so ancora poco), «Il nostro governo da almeno trent’anni a questa parte ha aderito al piano globale satanista che mira a distruggere le democrazie dando un potere illimitato a quelle poche famiglie che possiedono circa l’80% della ricchezza del nostro pianeta» (lo correggo: la forbice sociale e una maggiore attinenza a una percezione concreta della realtà suggeriscono che sia almeno il 90%, ma molto probabilmente di più. Facciamo 94% e togliamoci il pensiero. Satana però c’entra nulla, se non per procurarci un po’ di solleticante sollazzo). Sono commenti databili novembre 2020, prima del governo Draghi, sotto un video di Valerio Malvezzi, economista della Lega Nord. È l’unica tipologia di intervento in cui mi sono imbattuto: dunque pare una congrega di affiliati.

Questo senso quasi da verità rivelata è d’altronde fomentato e sostenuto dal fondatore di Byoblu (Claudio Messora): in un articolo lunghissimo volto a demolire con rimarchevole veemenza Klaus Schwab (fondatore di Davos, uno dei vari nomi attaccati dai cospirazionisti, tipo Soros, Draghi, Merkel, le élite finanziarie eccetera), chiude con queste parole: «Questo dopo tutto è il motivo per cui hanno dovuto usare la falsa bandiera della lotta contro un virus per cercare di realizzarla. Hanno capito che senza la giustificazione dell'”emergenza” non avremmo mai accettato il loro schema perverso. Hanno paura del nostro potenziale potere perché sanno che se ci alziamo in piedi li sconfiggeremo. Possiamo far crollare il loro progetto prima ancora che sia iniziato. Noi siamo il popolo, noi siamo il 99%, e insieme possiamo riprenderci la nostra libertà dalle fauci mortali della macchina fascista!». Posto che l’articolo andrebbe riportato tutto per giustificare il sarcasmo in arrivo legato a questa estrapolazione, condividendolo o rifiutandolo con livore, non si può non circostanziare e mettere in risalto l’entusiasmo commendevole che rifulge nell’enfasi del gran finale, visto che parla a nome di svariati miliardi di persone (il 99% dell’umanità, niente poco di meno). E utilizza «quel tipo di certezza fiera delle controversie che genera» (parole sue), e che, per l’appunto, fa sì che gli adepti si convincano di avere la verità in tasca.

Potrei non parlarne più, ma Byoblu è un mondo ben preciso e sotto gli occhi di vari tipi di “osservatori” (e mica da oggi), e siccome ho usato un po’ di sarcasmo credo sia giusto spiegarmi meglio. In realtà è un mondo che conosco pochissimo perché non ho alcun interesse a frequentarlo, e dunque non mi spingo a dirne se non in termini di impressioni che mi sono fatto evitando di condirle con un certo tipo di fastidio che provo. Lo faccio perché le volte che certe argomentazioni o certi post messi da noi Marlene o dal sottoscritto hanno scatenato reazioni forti (alludo a articoli o post di natura politica o sociale – anche se ho sempre preferito pensarli interventi di natura etica e civica – tra covid, negazionismi, immigrazioni, sardine, sovranismi, fascismi e simili), la più parte provenivano da quel mondo: c’è stato infatti chi proprio me lo ha sottolineato, e chi usava le “verità” che solo lì si trovano, con l’esibita presunzione di averle in tasca. Mondo che è popolato da persone che ti liquidano come povero ingenuo (la versione educata, se no semplicemente “povero idiota”) se guardi la televisione o leggi i giornali, e quindi prendi, anche, le informazioni dagli organi ufficiali (vedi i commi alla voce “regime” dal loro punto di vista). Organi che, per inciso, sono fra gli unici a poter garantire almeno sulla carta “informazione”, giacché questa si basa su fonti, che sono “persone, istituzioni o documenti in grado di fornire informazione sui fatti e fenomeni che hanno carattere di notiziabilità”, come dice Wikipedia (che dice anche: “Il giornalista se ne avvale quando non è testimone diretto di un evento. La fonte, considerata l’importanza che riveste ai fini della veridicità della notizia, deve sempre essere citata nell’articolo. Più la fonte è autorevole, maggiore è la garanzia della veridicità dell’informazione”), e per la cui acquisizione si impiegano i denari che la deontologia professionale destina a questo comparto della loro attività. Pensate agli inviati nei vari Paesi per raccontarci il mondo: chi fra i blogger o gli “youtuber” o i dispensatori di opinioni può permettersi di fornire altrettanta densità deontologica, quantomeno teorica? L’informazione necessita di soldi e di una struttura efficiente per essere garantita nella sua reale essenza e sperabile onestà intellettuale, se no si elargiscono pareri (meglio sarebbe se con tanti bei “se” e “ma” ad attenuare quel senso di verità in tasca che indispone), e diventa fastidioso sentir parlare di libera informazione in contrapposizione al regime. (Desidero sottolineare che ci sono in rete non pochi siti assai equilibrati e seri creati da persone scrupolose e manifestamente neutrali che meritano le nostre attente letture, perché offrono opinioni e riflessioni assai interessanti).

I piccoli ragionamenti messi in fila qua sopra non servono però a un bel nulla: chi sta di qua sta di qua, chi sta di là sta di là, e non arrivo certo io a contribuire a mettere in discussione la parzialità nascosta da una pennellata di (finta) imparzialità e l’impeto a volte tonitruante e sovente fanatico che avverto aleggiare in quei luoghi a ogni parola in procinto di essere detta o scritta e poi ascoltata o letta. O perlomeno, queste sono le mie impressioni, proprio come avevo detto poco sopra.

Di passaggio noto che Byoblu necessita di 40.000 euro al mese per la sua attività… (è una affermazione del suo stesso creatore). Essere paladini della verità in rete (regalando opinioni forti, spesso coi link, che sono in definitiva le nuove fonti di “informazione” di quest’epoca) ha quindi un costo di rilievo, e considerando la gratuità della rete stessa pare miracoloso raggranellare quella cifra ogni trenta giorni. Sembrerebbe che le donazioni dei sostenitori siano alla base del tutto (una sorta di crowdfunding perenne), ovvero che coprano i 40.000 euro (ma in realtà sempre il deus ex machina dice che la raccolta fondi arriva a 20.000. E gli altri 20.000?), e io mi limito a sospirare un “beati loro che hanno di certi fan”, con due punti esclamativi al seguito.

In ogni caso: è il tipo di mondo creato, e la più parte popolato, dagli elementi sulla carta meno democratici della società, che urlano a gran voce “libertà” (e questa è una delle cose che più mi lasciano allibito e sconcertato in relazione alla comprensione di questi tempi internettiani sgangherati, a volte terribili, sostanzialmente ribaltati dalla post-verità). Ed è un mondo che ha molti ammiratori, i quali, secondo me, chiudendosi scientemente e un po’ morbosamente nella rete e rifiutando con metodo il confronto con qualsiasi altro organo di diffusione di opinioni e informazioni, si parlano addosso con una autoreferenzialità di sorprendente efficacia, monodirezionando il pensiero verso le uniche cose che vogliono dire e sentirsi dire, in ciò aiutati, oltre che dalla indiscutibile abilità incantatrice dei migliori fra i possessori dei canali personali su YouTube della scuderia, dalla galassia algoritmica, fra i cui sport preferiti c’è proprio quello di creare le già altre volte citate echo chambers.

In virtù di questa convinzione se ne autoalimentano un’altra attitudinalmente vittimistica e gustosamente contraddittoria, lamentando il fatto di essere ostruiti dall’odiato mainstream, che ripudiano, e che, cattivo, non li invita alle loro trasmissioni, un po’ come se i Marlene Kuntz rivendicassero il loro orgoglio sdegnato di non essere mainstream, rifiutandolo e sfanculandolo con esibita altezzosità e ostentando la dirompenza di tale attitudine con l’orgogliosa incorruttibilità della propria arte, e cercassero al contempo, con mirate lamentele, di portare avanti con il loro pubblico una crociata ego-riferita, malmostosa e piagnona, attraverso cui martellare continuamente: «guardate quanto è cattivo con noi il mainstream e i programmi x, y e z, che non ci invitano mai nelle loro trasmissioni!». Ma martellare proprio eh, diciamo quotidianamente, non una tantum! Perché è così che accade da quelle parti, mi è sembrato di capire, e così facendo si autoalimenta una comunità compatta e convinta di essere unta dalla vera verità, e il mondo là fuori è un’accozzaglia di poveri idioti illusi e collusi, ipnotizzati e lobotomizzati. Forse, chissà, è con tale spudoratezza un po’ volgare (posso dirlo questo?) che si arriva a 20.000 euro al mese di donazioni un po’ fanatiche.

(Per la cronaca: MK non sfancula il mainstream – né quello musicale né il sistema – e non rivendica con orgoglio sdegnato di non farne parte. Semplicemente prende atto, con molto dispiacere, che il mainstream – quello musicale nella fattispecie – ben difficilmente la invita).

E in fin dei conti mi chiedo: e se avessero ragione loro e non io? In fondo entrambi stiamo cercando di individuare “la grande colpa”. O forse chissà, magari certe convinzioni si potrebbero reciprocamente ritrovare intrecciate e “amiche” in certi rivoli della riflessione… E se ci fosse per davvero la grande cospirazione ai nostri danni? (Uhm, qua sento la perplessità rifiorirmi dentro… un sorrisino le dà sembianze esteriorizzate… penso al covid come arma di distruzione di massa… e no, a me interessa di più ciò che si dice con la serietà granitica dello studioso – e non con l’illazione da bava alla bocca del ringhio rabbioso e istintivo – nel Capitalismo della sorveglianza).

Mi chiedo anche: perché Google, Facebook, Apple, Amazon, Microsoft (ma non nel senso delle ossessioni grottesco-folkloristiche per il cospirazionista Bill Gates) eccetera, non sono mai nelle loro mire? E qui vengo a ricollegarmi al senso dell’articolo, che non voleva parlare di Byoblu (quello è un ginepraio, e già così mi sono garantito, contro la mia volontà, qualche nuovo nemico), ma delle solite cose intorno alla rete (chi mi legge sa che ho di certe idiosincrasie…) così come ce le spiega il libro più volte citato. Ma siccome ho appena detto che è un mondo che non frequento, magari mi sono semplicemente perso le volte in cui l’hanno fatto. Sarei curioso in tal caso di leggerne.

Chiudo con altri due estratti dal Capitalismo della sorveglianza e un veloce invito a un’ulteriore riflessione. Grazie per la pazienza di essere arrivati fin qua. Spero ardentemente di non aver irritato troppa gente: ho cercato in verità di essere moderato.

1) “Questa nuova forma di mercato sostiene che servire i reali bisogni delle persone è meno remunerativo, e pertanto meno importante, che vendere previsioni sul loro comportamento. Google ha scoperto che valiamo di meno delle scommesse altrui sul nostro comportamento futuro”.

2) “Non siamo più il soggetto e nemmeno, come ha invece affermato qualcuno, il prodotto delle vendite di Google. Siamo invece gli oggetti dai quali vengono estratte le materie prime, espropriate da Google per le proprie fabbriche di previsioni. Il prodotto di Google sono le previsioni sui nostri comportamenti, che vengono vendute ai suoi reali clienti, e non a noi. Noi siamo i mezzi per lo scopo di qualcun altro. Il capitalismo industriale trasformava le materie prime naturali in prodotti; allo stesso modo il capitalismo della sorveglianza si appropria della natura umana per produrre le proprie merci. La natura umana viene raschiata e lacerata per il mercato del nuovo secolo”.

3) (L’invito alla riflessione): è molto gustoso il passaggio nel libro in cui si ragiona sulla faccenda della libertà di espressione che la rete sventola da sempre come il vessillo della giustezza etica della propria ragion d’essere e della propria missione. Quante mistificazioni! La rete ha bisogno dell’espressione libera di chiunque perché le serve il maggior numero di persone che la bazzichi ogni giorno, proprio per carpirle i dati (nella fattispecie il sopracitato surplus comportamentale – la quintessenza delle materie prime – che è il generatore della sua spaventevole ricchezza). È per questo motivo che aziende come Facebook, Google e Twitter sono recalcitranti a rimuovere anche i contenuti più offensivi, al netto di quelli degli estremisti. E sapete perché quelli degli estremisti non li tollera? Perché minacciano il coinvolgimento degli utenti, mettendo in pericolo volume e velocità del surplus comportamentale, ovvero erodendo la possibilità di raschiare la nostra essenza. Così non fosse anche gli estremismi (tipo Trump) probabilmente non sarebbero rimossi. Tutta una faccenda di opportunità economiche insomma.

Post scriptum: questo articolo è stato scritto tre settimane fa circa. Poi l’ho riletto almeno una ventina di volte alimentato da vari dubbi, sempre procrastinandone la pubblicazione. Perché su certi argomenti la “vera verità” è così complessa che non può escludere certe ragioni che sì, infastidiscono per come vengono esposte, ma che potrebbero anche essere l’esito di riflessioni e esperienze sul campo così composite e stratificate da rimanere nascoste a chiunque approfondisca un po’ meno accuratamente (non sto pensando a Byoblu, ma a certe menti “visionarie”, tipo quelle del giornalista Paolo Barnard, che mi è sempre malretto, e non poco, ma che chissà, quasi quasi, forse forse, sotto sotto, qualche illuminazione non peregrina ce l’ha avuta eccome… Ma sono solo impressioni, in ossequio alla mia impossibilità illuministica di rendere facile il percorso dell’irraggiungibile verità). Non posso però in ogni caso essere a mio agio né con il cinismo altezzoso del depositario del vero né con la tracotanza e la veemenza del fanatico (avrei altre precisazioni da fare, ma se vado avanti così l’articolo non finisce più).

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