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Il problema di Facebook siete voi

Condannare i social network per la vendita dei nostri dati non servirà a nulla se non cambiamo prima le nostre abitudini: mettereste la stampa di una vostra foto su una parete della Stazione Termini di Roma?

Mark Zuckerberg al Senato USA, foto Sipa USA / IPA

Sto progressivamente abbandonando Facebook. È una decisione presa qualche tempo addietro, dopo un po’ di ragionamenti che mi hanno portato a una considerazione forse scontata ma sostanziale. Su Facebook scrivo solo di ciò che so e, salvo qualche post ironico su vegani e calcio, mi astengo bene dal parlare o discutere di ciò che non so. Questo porta a una seconda considerazione: trovo stupido che qualcuno che non conosce le materie di cui parlo e di cui quindi so qualcosa, si metta a discuterne con me. Non parlo di domande, legittime, ma di discussioni.

Tipo io che affermo che non è vero che i Mac sono più sicuri dei PC Windows, e leggermi la staffilata di opinioni del tutto infondate dei fan di Apple che tentano goffamente di negarlo. A qualcuno di voi sta ribollendo il sangue solo a pensare a quel che ho appena scritto, segno che ho ragione. Burioni, in questo senso, ha fatto scuola coi vaccini, ma la sua filosofia vale per qualsiasi argomento. E siccome trovo uno spreco di tempo additare come imbecille chi non ha la capacità di ascoltare chi ne sa di più, in dati argomenti, e tanto meno avrei il tempo di spiegare più volte ogni mia singola affermazione, ho deciso di allontanarmi da questo ambiente tossico. Che diavolo c’entra con l’audizione di Mark Zuckerberg al Senato americano? È molto semplice: nel mio discorso, ho detto che mi allontano da Facebook, ma non ho dato alcuna colpa a Facebook, bensì ai suoi utenti.

Zuckerberg, nel suo discorsetto confezionato a dovere dai legali, ha ripetuto che la sua compagnia non è una media company ma una tech company. Come dire che si occupa di pubblicare i contenuti, mica di scriverli. A me Mark non sta proprio simpatico, non lo è mai stato fin dal primo momento, ma su questo punto ha ragione da vendere e la sua unica colpa, nel corso dell’audizione, è apparire sulla difensiva, goffo e impacciato come lo è sempre stato.

I problemi sollevati dai Senatori, come l’hate speech o le fake news, non sono una colpa di Facebook. E vi dirò, non sono colpa nemmeno di chi scrive i post: se uno è così scemo da credere alla Terra piatta, o che le Torri Gemelle siano crollate per una bomba piazzata al loro interno, è un suo problema mentale. Sono colpa è di chi quei post li legge e, in preda a un analfabetismo funzionale dilagante, li approva e condivide. Sappiamo tutti che il fumo fa venire il cancro, cerchiamo di correre ai ripari con le campagne che lo contrastano e le scritte allarmanti sui pacchetti, ma se qualcuno decide di fumare non possiamo fare nulla per fermarlo. Al più, possiamo contestargli di fumare vicino a non fumatori, mettendo a rischio anche la loro salute, e forse è su questo versante che Facebook ha ancora molto da lavorare: fare un passo indietro e isolarci un pochetto, anziché perseverare nella connessione esasperata. Non so se sia questione di algoritmi, di strategie commerciali o di paraculismo nei confronti degli utenti, ma il meccanismo di rendere più visibile chi è più visibile (mi si perdoni il gioco di parole) forse andrebbe calmierato. Perché Facebook è la dimostrazione che si può essere molto visibili anche pubblicando delle baggianate, e a quel punto dovrebbe scattare un qualche meccanismo a limitarne ulteriore visibilità. C’è un detto in uso tra gli informatici che recita: “il pericolo più grande per un computer sta tra la tastiera e la poltrona”, e per Facebook è la stessa cosa: il suo pericolo più grande sono gli utenti.

E qui arriviamo al nocciolo del discorso. Con Cambridge Analytica, con il “furto” dei dati, Facebook ha una colpa molto molto marginale. Perché il cuore di quei dati, la massa critica, è stato elargito di spontanea volontà da utenti che hanno voluto partecipare a un test. Nella mia bacheca Facebook, in questo momento, quattro utenti hanno condiviso il risultato di un test sciocchino, ma divertente, che sulla base di una loro foto dice a che attore assomigliano. E tra una risatina e l’altra, quei quattro utenti sin sono scordati di aver inviato una propria foto a un’app di origine sconosciuta. Voi mettereste la stampa di una vostra foto su una parete della Stazione Termini di Roma? E pensate che lì verrebbe vista da un pubblico che è al massimo un millesimo di quello che potrebbe osservarla comodamente seduto da casa, via Facebook. Oppure: dareste mai la stampa di una vostra foto a un passante, casuale, incrociato nella medesima stazione? Certo che no. E allora perché affidate le vostre foto a queste app? Perché elargite dati personali come niente fosse a giochetti che sulla base della vostra età, del vostro nome e cognome, dell’altezza e del segno zodiacale promette di trovarvi l’anima gemella? Come diavolo potrebbe riuscirci? È evidente che si tratta di una cretinata, eppure molti di noi vi partecipano giusto per noia e curiosità. Fornendo, nel frattempo, dati personali a società di marketing.

Non sono un avvocato e nemmeno un esperto di marketing, ma se la linea difensiva adottata dal team legale di Zuckerberg, come mi pare, è “chiedi scusa per tutto”, credo sia clamorosamente sbagliata. Magari mostrarsi deboli all’audizione ha salvato il valore delle azioni di Facebook, ma sulla lunga distanza non sono certo che si rivelerà una strategia vincente. Facebook ha davanti un gran lavoro tecnologico da fare, in primis controllare molto meglio le app sviluppate per la sua piattaforma e depotenziare i suoi algoritmi pubblicitari, ma la vera sfida è sociale: istruire i propri utenti sul potere che possono avere i post che scrivono e condividono. Forse, più di tutto, farli sentire un po’ meno importanti di quanto si sentano alcuni di loro, scrivendo delle emerite puttanate che dette alla Stazione Termini richiamerebbero l’attenzione solo di alcuni simpatici signori vestiti con camici bianchi.

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