Il futuro del giornalismo non è inseguire Flavio Briatore | Rolling Stone Italia
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Il futuro del giornalismo non è inseguire Flavio Briatore



Il racconto del contagio dell'imprenditore del Billionaire ha messo in luce la qualità scadente e l’ossessione per i clic delle testate italiane. Ma per ricostruire la credibilità dei media non basta criticare i giornalisti, servono veri editori

Il futuro del giornalismo non è inseguire Flavio Briatore



Flavio Briatore

Foto: Paul-Henri Cahier/Getty Images

Mai come nei giorni scorsi, mentre la faccia di Flavio Briatore tornava a riempire giornali e siti di news senza che nessuno avesse capito con precisione dove, come e quando avesse contratto il Covid-19 (e inizialmente nemmeno se fosse stato effettivamente contagiato), la fiducia nei media è scesa sotto zero. Tentare di carpire ogni dettaglio della vicenda riguardante l’imprenditore del Billionaire è diventato il passatempo di molti giornalisti italiani, impegnati in una corsa a chi scriveva prima degli altri qualunque cosa si potesse raccontare al riguardo, perlopiù senza le dovute verifiche, come se ormai fare giornalismo significasse giocare al passaparola. In un contesto simile – e non conta che queste cose siano sempre successe, è innegabile che i social abbiano una natura più pervasiva di qualsiasi strumento di comunicazione diffuso in passato – è il momento, forse, di iniziare a riflettere su una tendenza quantomeno discutibile: fateci caso, si dibatte sempre più di come il giornalismo si trasformerà in futuro (e parliamo di una trasformazione che la pandemia da coronavirus non ha fatto che accelerare) dando sempre per scontato che la metamorfosi in questione sia inevitabile.

In un certo senso lo è: secondo le stime di Mark Thompson, amministratore delegato della società che pubblica il New York Times, entro il 2040 il celebre quotidiano scomparirà dalle edicole, il che significa che rimarrà solo la testata online. Sin qui niente da dire: si tratta di una morte prevedibile, destino certo non solo della testata fondata nella Grande Mela nel 1851, ma di tutta la stampa cartacea. Può darsi che per un periodo sopravviverà qualche rivista specializzata di nicchia, ma nel 2020 sarebbe ingenuo pensare che il giornalismo su carta possa resistere a lungo: insomma, quanti 15-20enni escono di casa per recarsi dal giornalaio? Il punto è un altro: se la scomparsa dei giornali su carta debba necessariamente coincidere con quella della professione giornalistica. Come si diceva, si discute molto del giornalismo del futuro, ma nel dibattito pubblico ha per ora più visibilità chi urla a gran voce che i giornalisti devono e dovranno adattarsi, nel linguaggio e nelle modalità di divulgazione, agli strumenti digitali che si presentano man mano sul mercato, sia che si tratti di social quali Instagram e TikTok, sia che si tratti di podcast da ascoltare sulle piattaforme di streaming, per citare due esempi. Per sopravvivere bisogna conquistare gli under 40 e gli under 40 è là che stanno, è la tesi di fondo. Ineccepibile, ma dipende da che cosa si intenda per adattarsi: non sarebbe il caso di chiedersi dove porre il limite di quell’adattamento, affinché non si tramuti in un’arma a doppio taglio? Tradotto: adeguandosi acriticamente alle dinamiche di social e piattaforme tecnologiche non si rischia di uccidere non tanto il giornalismo oggi definito «tradizionale» o «classico», bensì, cosa ben più grave, il giornalismo tout-court, vale a dire quella professione giornalistica che è in sé elemento fondante della democrazia?

Specie se ci si concentra sul giornalismo d’attualità, i media ricoprono un ruolo fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica; loro compito dovrebbe essere (anche) quello di stimolare il senso critico dei lettori per mezzo di un’informazione attenta, selettiva, autorevole. Mentre la visibilità offerta al caso Briatore – o meglio alla vicenda che la stampa italiana ha fatto diventare un caso – è indice, non certo l’unico, di una progressiva svalutazione del ruolo del giornalismo nella società. Focalizziamoci per un attimo su chi fa informazione online, essendo quest’ultima l’unica che resterà in vita: la sua funzione non può essere solo quella di riportare nel minor tempo possibile il numero più ampio di notizie (e non importa quali, basta che attraggano lettori), in una rincorsa a colpi di clickbait senza fine e tutto sommato senza senso, dato che il risultato è la riproduzione e moltiplicazione continua di articoli scritti velocemente a partire da meri copia & incolla. Al contrario, compito precipuo del giornalismo dovrebbe essere quello di selezionare le notizie e verificarle valutando l’affidabilità delle fonti, e questo nella consapevolezza che non tutto è degno di diventare notizia. E poi di interpretarle, quelle notizie, di contestualizzarle, approfondirle, commentarle con cognizione di causa. Non che nessuno lo faccia, ma è evidente che avvenga sempre meno e in maniera estremamente caotica se non estemporanea.

Le cause sono innumerevoli, tra queste spicca l’avvento di piattaforme e social network e la conseguente disintermediazione. Oggi sono una minoranza, e di età piuttosto avanzata, coloro che per informarsi navigano su una testata a partire dalla sua home page; la maggior parte delle persone legge (o scorre) le notizie che Facebook, Google e affini piazzano davanti ai loro occhi secondo un processo regolato dai famigerati algoritmi. Per la cronaca, stando alle analisi più aggiornate dell’Agcom, già nel 2018 circa il 67% degli statunitensi si informava tramite social media, in Italia quasi il 40%. E non si può dimenticare che oltretutto i suddetti algoritmi possono essere sfruttati a fini propagandistici, basti ricordare lo scandalo Cambridge Analytica. Peccato che dare la colpa agli strumenti digitali in sé e all’impatto che hanno avuto sulla modalità di fruizione delle notizie non sia così utile. Perché, semmai, non ci domandiamo come mai i grandi gruppi editoriali abbiano deciso che le redazioni cui fanno capo debbano lasciarsi condizionare dai principi SEO e dunque da degli algoritmi, inseguendone le traiettorie e obbedendo ai cosiddetti «trend topic» con articoli acchiappaclic e copia e incolla? Non c’è stata alcuna lungimiranza: nei primi anni Duemila quegli editori si sono voluti convincere che la carta non sarebbe mai scomparsa solo perché fruttava di più in termini di raccolta pubblicitaria; per due decenni hanno trattato il giornalismo online come giornalismo di serie B, di fatto non puntando sulla qualità dello stesso e sottopagando chi scriveva sul web. E ora che la rivoluzione digitale è praticamente compiuta lo scenario è questo: le redazioni fanno a gara a chi è più veloce a scrivere, le fake news conseguentemente abbondano, refusi ed errori pure, reportage e inchieste sono rari e spesso vengono spacciati per tali articoli di altra natura, e i giornalisti freelance o Co.Co.Co. – la maggior parte – sono in molti frangenti pagati così poco che viene difficile immaginare possano continuare a guadagnarsi da vivere facendo il mestiere che fanno. Infatti, mentre percorrendo questa via si è distrutta la credibilità dei media, da anni sono in costante aumento coloro che all’attività giornalistica affiancano attività di content marketing, di ufficio stampa, persino di influencer, con buona pace dei conflitti di interessi che un tempo avrebbero fatto rizzare i capelli almeno all’Ordine dei Giornalisti. Il quale, però, ha ormai abdicato alla sua funzione, trattando superficialmente persino l’annosa questione dell’equo compenso di liberi professionisti e collaboratori esterni.

Ecco, forse questo verbo, «abdicare», potrebbe aiutare a comprendere che ciò che conta non è tanto capire come i giornalisti possano riciclarsi nel marketing o in altri settori – molti lo hanno già fatto e moltissimi lo faranno –, ma stabilire se è interesse della collettività salvare la professione giornalistica o meno, e se sì, rendendola il più possibile indipendente da algoritmi, trend topic, social, piattaforme. Davvero qualcuno crede che la democrazia possa esistere senza un giornalismo rigoroso? È già pericolosa una politica interessata quasi unicamente alla ricerca del consenso, figuriamoci se ci aggiungiamo un giornalismo disposto a svalutarsi pur di conquistare visualizzazioni a più non posso. Sarebbe meglio sviluppare una riflessione a partire da qui, pensare a come ridare valore a un mestiere piuttosto che rassegnarsi all’idea che debba sparire divenendo altro, inventarsi nuovi modelli di editoria sostenibile che rimettano al centro la qualità rinunciando alla quantità. Ma servono editori che non abdichino alla loro missione presi dalla smania di veder crescere il proprio profitto, e quella missione è anche quella di investire nella professione giornalistica, di valorizzarla premiando le idee originali, le analisi incrociate e minuziose, la bella scrittura, lo stile, la cura, le opinioni controcorrente laddove ben argomentate. Non si può dare la colpa della qualità scadente del giornalismo odierno solo alla categoria dei giornalisti, la prima responsabilità è degli editori: è a loro (e alle loro richieste di performance) che i direttori di testata rispondono. Altrimenti passiamo tutto nelle mani dell’Intelligenza Artificiale e facciamola finita: sta già accadendo, vedi i software incentrati sul machine learning implementati per tradurre i dati in contenuti giornalistici e già utilizzati da giornali come il Washington Post, o ancora le traversie del portale Msn, dove 50 dipendenti che firmavano articoli sono di recente stati sostituiti da software in grado di identificare le notizie di tendenza in rete e di impaginarle con titoli e contenuti multimediali. In questo caso, però, si darebbe il colpo mortale al giornalismo, nessuno sarebbe più interessato a costruirci su una carriera, e crollerebbe così un pilastro della democrazia. Era un pilastro già in bilico, dirà qualcuno. Vero, ma conviene lasciare che cada?

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