Il fascino grezzo e discreto dell’indie sleaze | Rolling Stone Italia
Glitter on the wet streets

Il fascino grezzo e discreto dell’indie sleaze

Brillantini, sudore, trucco sbavato, capelli scompigliati, collant strappati, jeans skinny, t-shirt di vecchi concerti e zero pose: stiamo assistendo a un ritorno in grande stile dei primi anni Duemila, o siamo forse semplicemente dei nostalgici cronici?

Il fascino grezzo e discreto dell’indie sleaze

Alexa Chung al party di lancio di Form Menswear nel 2008

Foto: Dave M. Benett/Getty Image

In principio, come spesso accade, fu un account Instagram – @indiesleaze – fondato da Olivia V, video editor di Toronto che sentiva che il periodo compreso tra l’inizio del 2000 e il 2010 fosse un decennio «non ancora chiaramente definito o rivisitato». L’account di Olivia conta più di 130mila follower, e il suo feed è un tripudio di foto prese da Flickr, Tumblr e Photobucket, nonché da The Cobrasnake, un blog fotografico gestito dal fotografo Mark Hunter che ai tempi seguivo in maniera ossessiva. Le facce sono quelle di Alexa Chung, Tennessee Thomas, Dev Hynes, Cory Kennedy, Karen O, Sky Ferreira; il leitmotiv è fatto di glitter, sudore, trucco sbavato, cocktail perennemente in mano, Wayfarer anche al buio, capelli scompigliati e in generale una attitude di inconsapevole abbandono, che non prevede particolari pose di fronte alla fotocamera.

 

 
 
 
 
 
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In realtà il termine indie sleaze – che è piuttosto intraducibile, in italiano suonerebbe (male) come “dissolutezza indie” – è stato coniato all’inizio dell’anno scorso dalla trend forecaster Mandy Lee, la prima a prevedere un netto ritorno dell’estetica dei cool kids di inizio Duemila. In Italia l’onda lunga dell’indie sleaze arrivò con qualche anno di ritardo, e noi milanesi iniziammo a far ricadere nel calderone degli hipster chi ascoltava LCD Soundsystem, Yeah Yeah Yeahs, MGMT e compagnia cantante; chi andava alle feste di Pig Magazine; chi indossava con disinvoltura quegli strumenti di tortura che erano i Cheap Monday e girava con la bici a scatto fisso. Di quel periodo serbo ricordi abbastanza confusi, ma non dimenticherò mai i miei capisaldi: la frangetta, il rossetto utilizzato come fard, il dolore-misto-a-piacere di entrare in un paio di Cheap Monday taglia 27, la serata Popstarz del giovedì al Gasoline, le mouse di Marc by Marc Jacobs, le All Star bucate, i pantaloni e le t-shirt di American Apparel, gli scatti dall’alto con l’immancabile digitale sempre in borsa.

 

 
 
 
 
 
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Eravamo giovani, avevamo le sopracciglia eccessivamente sottili (chiaro retaggio degli anni ’90), ci accomunava una passione ai limiti del maniacale per la musica alternativa, non eravamo ancora sui social e il peggio che poteva capitarci era finire su Diedlastnight mentre limonavamo uno sconosciuto in terza serata. Personalmente non avevo mai sentito l’espressione indie sleaze finché non mi sono imbattuta nell’account di Olivia V, che è stato subito seguito da tutte le amiche che, come me, sono uscite più o meno indenni da quel decennio. Abbiamo capito soltanto in seguito, come scrive la stessa Alexa Chung sul Financial Times, che «indie sleaze era un termine inventato di recente e applicato retroattivamente a un gruppo di disordinate serate in discoteca nate all’alba di MySpace. Nel 2007, lo definivamo semplicemente “uscire”».

 

 
 
 
 
 
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Eppure, quelle serate – viste ora – raccontano molto di più di quanto non facessero in passato: erano il nostro ultimo afflato di libertà prima che la possibilità di sbronzarci in incognito fosse spazzata via da qualche Instagram story o repost. E la domanda che da mesi ci sta ossessionando è: stiamo forse assistendo a un riflusso dell’indie sleaze? O ci stiamo solo sentendo semplicemente nostalgici? Finiremo un domani nei libri di storia del costume? Scorrendo il feed di Olivia, ciò che salta all’occhio è il fascino casuale degli outfit esibiti, soprattutto in un’epoca dominata dall’algoritmo in cui la moda è parecchio omogenea e i trend vengono seguiti più o meno pedissequamente da chiunque. Sembra insomma «una festa in maschera dove il tema era la droga», continua Chung, «raggiungere il look dei tuoi sogni era una ricerca poco costosa e la caccia al tesoro nel labirinto di negozi vintage di East London faceva parte del divertimento».

 

 
 
 
 
 
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I brand del lusso non ci consideravano affatto il loro target principale, e noi di rimando privilegiavamo un look «grezzo ed edonistico», sottolinea Nova Dando, stylist che all’epoca ha lavorato ai videoclip di Klaxons, Bloc Party e The Horrors. Un look che, in tempi di recessione economica e di crisi climatica, s’inserisce perfettamente nello zeitgeist, perché può essere ricreato acquistando capi second hand o rimescolando quelli conservati nel proprio guardaroba, in omaggio alla moda DIY: d’altronde, «si tratta principalmente di abiti vintage rétro abbinati a collant strappati, jeans attillati, magliette di vecchi concerti, capi non lavati e capelli arruffati».  

«Se indossavo qualcosa di veramente elegante o addirittura di pulito», ricorda Alison Mosshart dei The Kills, «probabilmente mi era stato regalato durante un servizio fotografico o da Hedi Slimane (ora direttore creativo di Celine, nda). Ho portato i suoi stivali d’oro per anni e anni, fino a quando tutto l’oro e tutto lo stivale erano spariti e non rimaneva nient’altro che qualcosa di simile a dei calzini di pelle svolazzante e fango». Non a caso, Slimane ha chiamato i Kills come deejay per la presentazione della collezione autunno/inverno 2023 al The Wiltern di Los Angeles, insieme a Iggy Pop, Interpol e The Strokes. Collezione con un titolo piuttosto inequivocabile: The Age of Indieness.

 

 
 
 
 
 
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«Uno degli indizi più lampanti che avvalorano il ritorno dell’indie sleaze», osserva Olivia, «è il fatto che molti dei grandi gruppi e artisti di quel decennio abbiano pubblicato nuovi album o musica nel 2022: Yeah Yeah Yeahs, MIA, Arctic Monkeys, Hot Chip, Uffie e Metric». E Meet Me in the Bathroom, il documentario di Dylan Southern e Will Lovelace tratto dall’omonimo libro della giornalista Lizzie Goodman, non fa che alimentare ulteriormente il fuoco.

 

 
 
 
 
 
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Morale: torna o non torna? Lo si nota di più se torna e se ne sta in disparte, o se non torna per niente? Magari sì, ma soltanto parzialmente: ad alcune potrà apparire cool andare in giro un po’ scalcagnate con i capelli che reclamano uno shampoo; altre la vivranno come una liberazione e saranno ben felici di non doversi più preoccupare di replicare il make-up glowy di Hailey Bieber. Molte rispolvereranno i jeans skinny, la maglietta del concerto dei Black Rebel Motorcycle Club e i tronchetti consunti che da troppe stagioni giacciono dimenticati in fondo all’armadio. Tutte, però, non avremo più le it girl che s’accoppiavano con i vari Alex Turner, Fab Moretti, Andrew VanWyngarden – che costituivano fonte d’ispirazione, di venerazione, e che contemporaneamente erano uno degli aspetti fondanti dell’indie sleaze. Adesso le troviamo senza fatica su Instagram, le chiamiamo influencer e sappiamo ogni cosa di loro, marca delle mutande compresa. Come può ritornare un trend, se le sue muse sono alla portata di chiunque?