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I tormentoni che non passano la prova costume e altre storie

‘La plena’, l’ombra delle mafie sulla musica, lo sguardo di Goffredo Fofi, Melville e le scene mute alla maturità nel nuovo dialogo della coppia Piccinini & Robertini

Foto: Kazden Cattapan/Unsplash

Giovanni Robertini: Primo report vacanziero di Boomer Gang: nessun tormentone sembra passare la prova costume, in spiaggia c’è solo il lamento/tormento dei bagnanti sul caro vita, i prezzi dell’ombrellone sempre più alti, i dazi… signora mia. L’impoverimento reale – quello culturale lo lasciamo al dibattito su Temptation Island, il predellino di Pier Silvio per la discesa in campo, è già tempo di falò di confronto con Tajani – ha come sottofondo l’unico pezzo degno di nota delle playlist degli stabilimenti balneari: La plena di W Sound 05, Beéle e Ovy On The Drums, irresistibile reggaeton colombiano contaminato da ritmi pan-caraibici, un ritornello mandrillo quasi sussurrato (“Uh-uh-uh-uh-uh” diventa un mantra ipnotico) che dice “so che ti piace, ti fa impazzire, la verità, ascolta”. Storia di sesso (“besito y lengüita”) e birrette del discount nella borsa frigo (“una birra per placare la sete? No, meglio essere baciato dalla tua bocca, amore”) tra una ragazza della regione di Medellín e uno della costa, “rozzo e diretto”. Ecco, “la plena” nell’uso colloquiale latino americano significa la verità nuda e cruda, la realtà dei fatti. Nessun sogno, niente romanticismo, basta un prato e una sedia di plastica come nell’iconica cover del disco di Bad Bunny, che di quell’immaginario è il re, per fare fiesta. In netta caduta gli yacht di trapper e calciatori (fotografati anche insieme come Geolier e Frattesi), spunta un moralismo da portafoglio vuoto nei confronti di Lazza che regala una Birkin alla mamma sul palco di San Siro, basta fare una passeggiata sui social. Non avevo mai pensato al reggaeton come musica dell’apocalisse – altro che techno droni e doom metal – ma ora con la mia Ichnusa ghiacciata in mano mi sembra totalmente plausibile… Uh-uh-uh-uh-uh, uh-uh, uh-uh, sé que te encanta, te enloquece.

Alberto Piccinini: Saranno il cielo grigio e la pioggia improvvisa a Roma, ma ho sfogliato qualche giornale più del solito questo fine settimana. E a proposito di musica centroamericana, sound vacanziero dai tempi del reggae, del mambo perfino, e di apocalisse, leggo invece sul Manifesto un lungo ritratto di Peso Pluma, superstar del corridos tumbados che poi sarebbe una specie di contagiosissima trap messicana. Ottavo artista più streammato al mondo (terzo è Bad Bunny), premiato con svariati Grammy, secondo la giornalista d’inchiesta Anabel Hernández, Peso Pluma apparterrebbe organicamente al cosiddetto cartello di Sinaloa, il più potente del Paese. Il cartello, fondato da El Chapo in persona, investirebbe sul suo successo come una vera e propria strategia per modernizzare e normalizzare la cultura narcos. Niente di ciò che non sapevamo già: è la dimensione planetaria della cosa, moltiplicata da Spotify, che colpisce. In un sistema così opaco come quello dello streaming, sarebbe tanto strano sapere che ci sono capitali sporchi che orientano gusti e algoritmi? E se (per dire) la mancanza di tormentoni segnalata ovunque quest’anno fosse il frutto di una di queste strategie oscure? Chissà. Mi viene in mente che il motivo per cui Goffredo Fofi, uno dei nostri agitatori culturali più importanti appena scomparso, aveva “rivalutato” Nino D’Angelo a metà anni ’80 comprendeva il fatto che Nino ai tempi del grandissimo successo dei suoi film lasciò Napoli per sfuggire alle attenzioni che la camorra per lui. Fofi più di recente aveva amato Almamegretta e 99 Posse, nutrendo per la canzone napoletana una passione sconfinata: dai café chantant alle macchiette a Sergio Bruni. Con un po’ di necessaria snobberia ma con un’etica rigorosa, attentissimo a distinguere ciò che era autenticamente popolare (Nino D’Angelo era «la voce del sottoproletariato») da ciò che invece secondo lui era l’esotismo piccolo borghese del trash e del gangsta. Non sempre si era d’accordo, ma con uno che era partito a 18 anni per andare a lavorare tra i bambini poveri di un sobborgo di Palermo e poco dopo a Torino faceva inchieste sulla condizione degli immigrati meridionali, così radical oltre che scicchissimo coi suoi sandali francescani, era bello pure non essere d’accordo.

G.R.: Tornando alla bolla ho ascoltato il nuovo EP di Mecna, rapper adulto e sentimentale, ai confini con l’indie più hipster per consapevolezza e disagio. Tra i pezzi mi ha colpito Sistemarsi, un ritratto generazionale che sembra avere più di un punto in comune con Le perfezioni di Vincenzo Latronico, romanzo italiano candidato all’International Booker Prize su una coppia iper contemporanea di creativi (uno è un graphic designer proprio come Mecna) espatriata a Berlino, alla prese con l’insoddisfazione profonda di una vita filtrata da social e aspettative negate. Mecna parla di “un vuoto dentro da colmare grande come un trilocale / con domotica di base e finiture lucide”, di una speranza persa “tra vecchi dischi e dei vestiti che non metto mai / però sono di marca e non voglio regalarli” finché “din don, ha suonato il corriere / neanche scendiamo, gli chiediamo di salire o lasciare il pacco al portiere”. La sensazione è che la verità di senso di cui quella generazione è alla ricerca, La plena appunto, non sia mai esistita. Meglio forse esprimere il proprio consapevole disagio con una scena muta, come hanno fatto alcuni studenti rifiutando di sostenere l’esame orale alla maturità: come sabotaggio della società della performance si può usare anche Spotify, magari per fare un tormentone di totale silenzio, tipo 4’33” di Cage. Funzionerebbe.

A.P.: Io questi che fanno scena muta agli esami li abbraccerei, a cominciare da quello di Padova. Ho già scritto che il mumble del suo concittadino Tony Boy mi pare fatto della stessa pasta, stessa disobbedienza comunicativa. E ho già tirato in ballo, non sono il solo, Bartleby lo scrivano, quello che rifiutava di fare il suo lavoro ripetendo ogni volta «preferisco di no». Questa la faccio spiegare da Goffredo Fofi: «Il potere (…) è riuscito a vincere ogni resistenza, ogni tentativo di dar vita a modelli diversi (…) lasciandoci solo la possibilità di una resistenza passiva alla Bartleby (…) senza che cambi alcunché nell’ordine sociale, nella generale soggezione al potere». Fofi era perfettamente consapevole della disperazione del personaggio di Melville: l’altra metà del titolo, Una storia di Wall Street, non lascia infatti dubbi su chi vince. E spiegava perché la cosa ci riguarda ancora: «I social fingono di offrire a tutti la possibilità di sentirsi (essere!) qualcuno solo perché diciamo la nostra su tutto». Una cosa non mi spiego. Perché Roberto Saviano ha raccontato a Gianluca Gazzoli il suo tentato suicidio? Ora il BSMT mi compare su ogni social con le memetiche domande del conduttore: «Dai», «in che anno?» e «tragicomico» (del racconto, ahimè, fa anche parte un attacco di diarrea). È la cosa più orribile che abbia mai visto. Cosa ti danno per andare ospite di Gazzoli: la smemorina? La pillola blu? Faccio commentare ancora, a distanza, Goffredo Fofi, che dello scrittore napoletano fu uno dei primi estimatori: «Saviano è arrivato, nella sua carriera, dove voleva arrivare, ma pagando a caro prezzo il successo mediatico e fin politico, poi assorbito nel giro della grande stampa e della tv». Cioè lo avrebbe rincorso volentieri col bastone, come quasi tutti, peccato.

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