I social fanno schifo, i social siamo noi | Rolling Stone Italia
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I social fanno schifo, i social siamo noi

Internet ha cambiato il modo in cui osserviamo il mondo, ma siamo sicuri che la colpa sia solo dei meme?

I social fanno schifo, i social siamo noi

La prima cosa che faccio quando mi sveglio, come tutti, è prendere in mano il telefono. Sono addicted ok ma non stiamo qui a giudicare. Il problema non è la dipendenza, il problema è quello che ingerisci. Infatti: la prima cosa che il mio, e il vostro, cervello registra sono le news. Il primo input che gli do al mattino, il primo alimento, sono: morti, stupri, tragedie, catastrofi ambientali, mafia, corruzione etc. Non che sia vietato, ma ci vuole il fisico bestiale per reggere a questo impatto col mondo. Ansia, panico, senso di oppressione, sono alla portata di ogni clic e le paure sono scarafaggi. Sgattaiolano nel buio dell’inconscio e ci si insediano, poi se ne vengono fuori inaspettatamente quando decidi di non fare un viaggio perché potresti saltare per aria, di non far giocare tuo figlio al parco perché lo rapiscono o di non mangiare un alimento perché c’è qualche malattia mortale che ti può infettare.

Non so se sia una questione di algoritmi o semplicemente un menù livellato sui gusti del pubblico, ma avere il telefono in mano è come averci la cioccolata. Un pezzetto è ok, una tavoletta è cagarella. Per carità tutto vero eh, il mondo è una tragedia continua, ma la Storia ci dice che lo è sempre stato. Gli antichi romani, primi costruttori edili moderni, erano già in paranoia per il disastro ambientale e presagivano le conseguenze dell’urbanizzazione. Il terrorismo non ha fatto più paura delle colonizzazioni e i cambiamenti climatici, gli tsunami e i terremoti li abbiamo sempre avuti. La differenza oggi è che siamo più evoluti tecnologicamente. Tutto qui. Ma nel nostro DNA c’è il caos. Diciamo che la tendenza al lato oscuro è nell’essere umano nella stessa percentuale che la generosità o l’amore, ma se parliamo di traffico online, o di clic, le cose che contano sono: omicidi, tumori, morti, tragedie, tracolli in borsa.

Ecco io penso che sia un nostro obbligo leggere le news, sapere cosa succede nel mondo, ma c’è anche altro da fare. Dobbiamo usare questi affari neri rettangolari che abbiamo in mano, anche per svagarci. Può rivelarsi terapeutico, più che demonizzarli o flagellarci perché ci stiamo sempre appiccicati.
Internet è il male, si dice di continuo, ma è probabile che questa frase sia solo una sciocca scusa. Non si può dare la colpa di niente a internet perché in questa misura internet siamo noi. I social siamo noi. Gli haters siamo noi. E guai a chiamarlo l’Internet, come se fosse un soggetto terzo, un inanimato, un contenitore da vessare nonostante il contenuto lo facciamo noi.

Per fortuna, in questo orizzonte di cupezza ci sono degli elementi contraddittori, degli ami, quelli che ci tengono continuamente connessi. Sui social e nelle nostre abitudini ormai si è sviluppata una sorta di resistenza inconsapevole allo sconforto da news che si traduce nel suo atteggiamento opposto, la divulgazione di cazzate, di contenuti che fanno ridere. Dopo una breve analisi sui miei account mi sono reso conto che sto seguendo solo pagine di animaletti buffi, chitarre, meme, video doppiati in dialetto, futilità. Che ne so la settimana scorsa c’era qualcuno che ogni due ore prendeva la signora che urlava “maledetiii” in diretta a Sky TG24 e la metteva su uno sfondo diverso. Maledettiii sull’Urlo di Munch o moltiplicata all’infinito in cielo accanto a Padre Pio. Stupendo, genio puro, gratis. Io ero al lavoro in crisi e magari la mandavo alla mia ragazza o ad altri amici in altre città presi in altre crisi e per un attimo bruciavo la tensione.

Quelli che fanno i meme andrebbero stipendati, dovrebbero essere citate le fonti e così come doniamo soldi a Wikipedia dovremmo poterli finanziare. Ode ai “memisti” che hanno spazzato via i vignettisti (Le più belle frasi di Osho in prima pagina sul cartaceo de Il Messaggero lo confermano). Anche perché i meme sono quasi sempre cattivissimi e la battuta o il motto di spirito come lo chiamava Freud, fa ridere proprio perché punge, perché è proibita. In questo Internet è ancora libero e tutto circola per vie alternative, da WhatsApp a Telegram, cercando di aggirare le regole bigotte dei colossi social a cui puoi essere segnalato, additato, bannato, per un nudo o per una parola di troppo. Applausi anche a chi fa i video virali, per Angelo Duro, Le Coliche o Maccio Capatonda, a chi riesce a farci ridere e cambia i codici della comicità.

Ormai anche la risata è cambiata, non è più come vent’anni fa che ci spaccavamo in due con L’Ottavo Nano (che visto oggi suona antico), adesso il linguaggio è troppo più veloce, troppo sottile. Direi che è più da risate a denti stretti, da acclamazione, da like rispetto alla comicità classica, ma allieta lo spirito allo stesso modo. I memisti lo sanno. Così come lo sanno tutti quelli che persistono su Tumblr (nonostante la sciagurata e insulsa censura del nudo) o Pinterest e creano veri e propri archivi di gemme nerd, immagini rare, fotografie stupende. Insomma ogni volta che scrollo il telefono mi rendo conto che ho in mano un bastoncino da rabdomante, che sta a me dirigere.

Secondo certe branche poco accademiche della fisica quantistica siamo esseri potentissimi ed emettiamo una vibrazione positiva o negativa, attiriamo il bene o lo respingiamo a seconda di come vibriamo in quel momento. Sembrano cazzate eh? Invece se ci pensate… Non voglio dire che siamo noi che attiriamo le bad news, ma di certo sta a noi andare oltre, trovare anche le good news. Il problema non sta nei social ma negli occhi di chi li guarda.

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