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«Ho due inviti, ti interessa?»: luci e tenebre di Clubhouse

Con questa domanda comincia l’avventura nel social del momento (almeno in Italia). Che porta a sentimenti contrastanti. Un’indagine dall’interno

Foto: Oleg Laptev/Unsplash

«Ho due inviti per Clubhouse, ti interessa?». Quando ho ricevuto da un’amica questo messaggio su WhatsApp, esattamente una settimana fa, avevo letto qualcosa a riguardo in una delle mille newsletter a cui sono iscritta. Oltreoceano se ne parlava già da un po’, visto che il social basato sulla voce, di cui adesso stiamo discutendo davvero tutti in Italia e che in pochi segnalavano già a dicembre, è stato lanciato dai suoi creatori a marzo 2020, inaugurato con l’inizio della pandemia. Ricevuto il link via iMessage, ho scaricato l’app – come avrete ormai capito leggendo uno dei tanti articoli che ne spiegano il funzionamento, per il momento è disponibile solo per sistema operativo iOS –, mi sono registrata con i miei dati, dando in pasto la mia rubrica contatti – fioccano i dubbi su che ne sarà di loro – e fidandomi dei primi follow che mi sono stati automaticamente proposti, soprattutto personalità straniere che avevano già un discreto pubblico sul social media, per l’autorevolezza data dal loro ruolo professionale o per fama guadagnata altrove.

In una settimana – lasso di tempo in cui scompare l’emoticon a forma di festone incollato alla vostra immagine profilo che vi smaschera come nuovi arrivati – il mio know-how dell’app, la mia sicurezza nell’intervenire nelle room per dire la mia, il mio network di seguaci e seguiti sono aumentati in modo quasi esponenziale, mentre la mia opinione sul suo valore e i suoi possibili utilizzi si è evoluta poco per volta, spingendomi a bilanci, giudizi e previsioni di cui, di giorno in giorno, metto in dubbio la validità, ricevendo conferme o smentite, in particolare rispetto alle sue reali potenzialità e al successo che potrebbe mantenere una volta finito l’hype. Passo dal considerarlo un posto che offre opportunità straordinarie dal punto di vista sociale e, perché no, lavorativo, al temere che senza regole più stringenti sul comportamento, per ora lasciate alle community guidelines e alla discrezionalità dei moderatori che possono gestire il flusso degli speaker, si creeranno sempre maggiori pericoli. Essere moderatori, responsabili dei contenuti di una room, è un compito tutt’altro che facile, non solo perché bisogna scandire il ritmo della conversazione per il bene dell’intrattenimento, ma anche perché più cresce in pubblico, più tocca confrontarsi con situazioni di crisi e intervenire, decidendo le regole di un’eventuale censura a fin di bene. Illudersi che non rimarrà traccia di quello che diciamo – a meno di contestazioni da parte degli utenti in una room in corso le registrazioni scompaiono con la stanza – ci fa sentire più liberi di esprimerci, e non sempre è un bene.

Negli ultimi giorni di gennaio, quando gli iscritti italiani erano ancora pochi, si respirava quel clima da scuole superiori in cui ci si ritrova a condividere con studenti di classi diverse la pausa sigaretta, le assemblee di istituto o l’uscita dopo la campanella. In appena un paio di giorni, con il weekend e l’inutile tempo libero in zona arancione, l’albero genealogico degli inviti si è espanso in maniera tentacolare – ciascuno all’ingresso ne ha due a disposizione, ma più si partecipa e interagisce più se ne ricevono – e l’atmosfera è diventata più simile a quella di un villaggio vacanze, dove le facce abbinate ai nomi di battesimo diventano via via familiari, a furia di “incontrarsi” ci si segue a vicenda e nella terza room in cui ci si ritrova speaker ci si rivolge l’un l’altro con un diminutivo che manco gli amici di vecchia data, ed è quasi obbligatoria la battuta, il riferimento o la citazione relativa a una room precedente. Il tutto vale per le stanze in lingua italiana, perché volendo ci si può avventurare in mezzo mondo, nella speranza di apprendere una nuova lingua o di capire qualcosa in più della comparsata di Elon Musk, di cui si parla ancora dopo giorni, e di Mark Zuckerberg, che ha fatto capolino sull’app un paio di notti fa, generando ipotesi di ogni tipo sul perché della sua presenza.

Non sono ancora riuscita a ottenere i dati degli utenti italiani registrati per avere una stima oggettiva della loro crescita. A sentire uno dei tre fondatori della prima community nazionale in una room in cui finisco per caso, iscrittosi a inizio gennaio, il vero afflusso coincide proprio con quest’ultima settimana, in parte frutto del passaparola e della conseguente attenzione che la stampa ha dedicato al fenomeno. Anche se quella sensazione di essere tra i pionieri italiani man mano svanisce, non viene meno il fascino dell’app, che vince e risucchia grazie ai suoi meccanismi partecipativi e che molti definiscono democratici. Che a trattenerci siano un reale interesse o i nostri bisogni di animali sociali per mesi frustrati, che faccia parte del tempo necessario per apprenderne il funzionamento o sia frutto della FOMO (fear of missing out, letteralmente: “paura di essere tagliati fuori”) di fronte alle tante, troppe room dai titoli accattivanti, che sia la speranza di fare networking, di farci notare o di scambiare quattro chiacchiere con i nostri idoli, in molti ci siamo ritrovati all’ascolto in diversi momenti della giornata. Parcheggiati sul divano in un pomeriggio di tempo libero, tra le corsie del supermercato o con il cane al guinzaglio, seduti sulla tazza del water o durante lo smartworking, ci siamo sentiti parte di qualcosa, lontani da quella sensazione di alienazione che segue l’infinito scroll e sempre più dipendenti dalle voci degli altri che rispondono alla nostra. Se poi compaiono intrattenitori come Morgan, connessi a qualsiasi ora batteria dello smartphone permettendo, capace di passare dall’invettiva personale in grado di mettere a disagio il pubblico a una discussione su Paolo e Francesca o Pasolini degna della migliore trasmissione di approfondimento, sembra impossibile staccarsi. Mi è piaciuta l’analogia di un’amica: «Più lo frequento e meno mi piace, esattamente come tutte le relazioni tossiche che ho vissuto nella mia vita», capace di dipingere quello che è il lato oscuro di Clubhouse, in cui non si può escludere di incappare.

L’obiettivo dei creatori di Clubhouse (Paul Davison, ex Pinterest, e Rohan Seth, ex Google), come spiegano loro stessi in un post sul blog, era «costruire un’esperienza social più umana, dove invece di postare ci si potesse ritrovare con altre persone a parlare». E in effetti non può che essere così, mancando i contenuti, le reaction, i like e tutte quelle opzioni a cui ci hanno abituato gli altri social, anche se c’è chi non ha ancora capito il concetto di conversazione e si spertica in autocelebrazioni o filippiche in cui la filosofia è quella dell’adfirmo ergo sum. L’obiettivo dei fondatori appare realizzato nel momento in cui chi è completamente autoreferenziale e incapace di coinvolgere la propria audience prima o poi si ritrova a parlare da solo o viene declassato da speaker a uditore, mentre i leader più positivi e propositivi, chi a qualsiasi età sia più bravo a condividere, ad affabulare con simpatia o semplicemente a fare il presenzialista, in pochi giorni può raccattare qualche migliaio di follower. L’importante, se non c’è già un nome forte e pop in grado di trasformare in un attimo la stanza in place-to-be a base di aneddoti da dietro le quinte snocciolati fino alle quattro del mattino, è la costanza, insieme ai contenuti e alle maniere giuste.

Osservandolo tutto dalla mia bolla, che include meno marketer e startupper e più personaggi che fanno parte del mondo dell’informazione e dell’intrattenimento, mi chiedo quando possa durare questo momento d’oro in cui tutti ci sentiamo un po’ pionieri, prima che il caos prenda il sopravvento, come già in alcune stanze sta accadendo. «Godiamoci questo social finché non sarà troppo affollato», ho sentito ripetere a molti, che già si lamentano per le folle, forse impauriti che finiscano per ripristinare quei gradi di separazione che l’app sembra aver annullato, mentre il meccanismo della “nomination” con il tempo diventa sempre meno esclusivo, e dalla sezione Jobs del sito ufficiale pare che a San Francisco, dove tutto è nato, stiano già cercando sviluppatori per Android per aprire anche ad altri utenti la piattaforma.

Per il momento, sul social, conquistato ormai da studenti e professionisti di tutti i tipi, speaker radiofonici, musicisti della nuova o vecchia guardia, psicologi e ditene uno che vi viene in mente e probabilmente lo trovate, sembrano mancare solo i grandi politici, anche se non è difficile aspettarsi che, capiti i metodi di funzionamento, anche loro si paleseranno per arringare i potenziali elettori. Mancano anche quegli scettici che, pur avendo ricevuto un invito, preferiscono non sfruttarlo, per proteggere i propri dati o per pura snobberia, mentre paragonano Clubhouse a un inferno di messaggi vocali, senza capirne la più grande differenza: la possibilità di interrompere, parlare sopra, replicare in tempo reale, intercettare opinioni diverse dalla nostra e, se vogliamo, comprenderle e accoglierle, oppure argomentare contro, come succede al telefono, in una chiamata multipla o in una radio in cui si interviene in tanti, senza l’incubo del palinsesto che costringe a condensare i pensieri in tempi prestabiliti.

Per presentarci, a parte lo spazio per una foto profilo e una bio a disposizione che impongono una scelta ancora più delicata di quella su Tinder o su LinkedIn, entrambi per certi versi molto affini a dinamiche che possono svilupparsi su Clubhouse e che proprio per questo rischiano di essere superati dalla novità, abbiamo solo la nostra voce, uno strumento che definisce la nostra identità e che, superati i timori iniziali, tutti ci rendiamo conto di saper usare. Quello che dobbiamo imparare a usare meglio, prendendone giorno per giorno le misure, è il social stesso, che con il crescere del numero di utenti andrà necessariamente regolato, non solo in termini di compatibilità con i Gdpr europei e nazionali, ma anche in termini di formazione della community, prima che si trasformi nell’isola raccontata da William Golding nel Signore delle mosche.

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