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Gli Strapping Fieldhands e l’essenza dello spirito americano

La morte della competenza, l'attenzione per i testi, i viaggi psichedelici e i tic della critica musicale: nella nuova puntata di 'Dal divano di velluto', Costantino della Gherardesca intervista la band che ha animato la scena di Philadelphia con il suo suono lo-fi
The Strapping Fieldhands

Foto: Press

Sono qui
per cantarti le mie canzoni.
In questa tua stanza
il mio posto è in un angolo.
Nel tuo mondo
non ho alcun lavoro da compiere.
La mia vita inutile
può solo prorompere
in melodie senza scopo.
Quando suona l’ora
dell’adorazione silenziosa
nel tempio oscuro di mezzanotte,
mio signore!
comandami di cantare davanti a te.
Quando nell’aria del mattino
l’arpa d’oro è ben accordata
onorami chiedendo la mia presenza.
Rabindranath Tagore, Gitanjali, 15

Un tempo, quando su un mercato discografico frammentato in generi e sottogeneri si affacciava della musica che non si riusciva a definire o incasellare, gli americani dicevano che “cadeva nelle crepe”. All’ennesima richiesta di dare una definizione di folk, il musicista e musicologo Mike Seeger, fratellastro di Pete, una volta rispose che il folk americano era proprio tutta quella musica che (in tutti i sensi) vive nelle crepe.

La crepa in cui vivono The Strapping Fieldhands, gruppo di folk rock americano nato a Philadelphia nel 1991, è la grotta di un guru. Non un eremita ortodosso, bensì un Jeremy Irons darwiniano: Bob Malloy. Cantante, chitarrista e autore di gran parte dei loro pezzi, prima di diventare musicista Malloy era un poeta. E in un periodo storico in cui il consumatore è bombardato da informazioni quasi sempre di scarsa utilità, la capacità che ha Malloy di evocare lo spirito americano con una manciata di parole rende gli Strapping Fieldhands una band non solo importante, ma necessaria.

Dall’esordio nel 1993 con Discus, la band ha animato la scena di Philadelphia con il suo suono autenticamente lo-fi e recentemente è tornata con un sorprendente sesto LP, Across the Susquehanna, che già nel titolo ci racconta la sua complicata genesi: nel pieno del lockdown, Malloy e il bassista e produttore Bob Dickie si sono lanciati in un etereo scambio di file dalle rispettive abitazioni, da una sponda all’altra del Susquehanna. E questo dialogo tra due case sulle rive opposte del fiume riesce a cogliere e restituirci, con cinismo degno di Irons, lo spirito del tempo perso. Un’operazione simile potevano compierla solo dei saggi, dei custodi di quel retaggio di conoscenze che l’odierno showbusiness preferisce far cadere in una crepa senza fondo.

Oggi gli Strapping Fieldhands – Bob Malloy, Bob Dickie, Jacy Webster (chitarrista) e Jeff Werner (batterista) – mi visiteranno dalla loro Philadelphia, il luogo in cui fu dichiarata l’indipendenza degli Stati Uniti. E io, da merlo indiano nella mia dorata gabbia milanese sognerò di essere un’aquila americana. Possibilmente quella che si manifesta sul banchetto del POTUS prima dei discorsi più epocali.

The Strapping Fieldhands – Foto: Press

Siete la prima band che intervisto da una decina di anni a questa parte e il motivo è molto semplice. Parlando di musica con degli amici californiani, gente che ha perso interesse nei confronti della scena attuale, mi sono accorto che bastava fare il vostro nome per farli entusiasmare. Quindi eccomi qui. Spesso vi descrivono come una band che piace soprattutto agli altri musicisti, ma io lo trovo un cliché un po’ riduttivo e preferisco dire che voi siete una band a cui molti musicisti si sono ispirati, per non dire di peggio… Ci siamo capiti…
Jacy Webster: È vero (pausa)… Abbiamo ispirato parecchia gente, in modo piuttosto diretto. Ci siamo fatti notare fin da subito, anche se non abbiamo mai raggiunto la notorietà.
Bob Malloy Considera che Dickie e Jacy si conoscono dai tempi delle superiori, quindi sono stati insieme in tante band prima di ritrovarsi negli Strapping Fieldhands. E poi non va dimenticato quanto sia stato importante per noi il negozio di dischi di Jacy, il Philadelphia Record Exchange, che dal 1985 ha un ruolo centrale nella scena musicale della città.
Jeff Werner: Per noi ragazzi non era solo un negozio, ma un vero e proprio punto di incontro. Ci passavamo le ore, si ascoltava musica e si scambiavano opinioni su cosa valeva la pena ascoltare. Era il social prima dei social. E poi, quando Jacy ebbe la geniale idea di tenere delle casse di birra in negozio, ci piazzammo lì in pianta stabile. Prima di andar via, dovevi inventarti il nome di una band e scriverlo sul muro. E ogni tanto qualcuno prendeva ispirazione dal muro e usava uno di quei nomi per la propria band…

The Strapping Fieldhands – Foto: Press

E c’è mai stata una band che è arrivata al successo usando uno di quei nomi?
Jeff Werner: Non credo, ma in compenso nel negozio di Jacy hanno suonato un po’ tutti…
Jacy Webster: Un sacco di band hanno mosso i loro primi passi al Philadelphia Records Exchange, più che altro piccole band underground, come i Gone di Greg Ginn, che aveva appena lasciato i Black Flag, Jed Fair con gli Half Japanese… Ma il nome più celebre sono sicuramente i Pavement. Suonarono davanti al negozio quando erano agli inizi e fu un concerto incredibile. Avevano ancora il loro primo batterista, Gary Young: era completamente inarrestabile e quel giorno si mangiò il palco.
Bob Malloy: Anche Dickie aveva un negozio di dischi, il Ninth Street Records, mentre Jeff gestiva il reparto dischi di una libreria… Insomma, ben tre di noi si occupano o si sono occupati a vario titolo di vendere musica, una cosa piuttosto insolita in una band.
Bob Dickie: Questo vuol dire che ascoltiamo un sacco di musica. Da quando ci alziamo fino a sera, ascoltiamo e facciamo musica, per noi è il motore di tutto.

Ecco, questo dettaglio mi fa pensare a una mia ossessione, e cioè la morte della competenza. Non voglio mettervi in bocca cose che non pensate, quindi siete liberi di prendere le distanze da quello che dico, ma immagino che non vi facciate troppi problemi a prendere una posizione netta. Insomma, secondo me si dà sempre meno importanza alla competenza e all’esperienza, il pubblico è sempre più invischiato in quella mania voyeuristica nata negli anni Cinquanta ed esplosa nei Novanta: sente il diritto/dovere di essere curioso, ma mai e poi mai quello di approfondire, e quindi anche quello che si ascolta diventa per forza di cose banale anche se variegato. Voi invece respirate musica ogni giorno, da quando siete poco più che adolescenti, quindi immagino che abbiate sempre nutrito un certo rispetto per chi vi ha preceduto.
Bob Dickie: Capisco quello che dici, ma nel mio caso si tratta più di una questione personale che non generazionale. Io stesso, per esempio, da giovane non avevo un grande rispetto per i musicisti più anziani, ma quando cresci cambia tutto. Inoltre, per nostra fortuna, noi possiamo contare su una scena locale come quella di Philadelphia, che ci ha sempre supportato. In città ci sono tanti musicisti più giovani per i quali rappresentiamo un punto di riferimento. E anche il fatto che tu ci stia intervistando lascia ben sperare…

Certo, gli Strapping Fieldhands sono un’istituzione nel mondo della musica, e quindi vi meritate tutto il rispetto che riuscite a raccogliere, ma il mio timore è più generalizzato: ho l’impressione che si dia meno importanza alla professionalità.
Bob MalloyY: Se entri nello specifico della tecnica, ti do ragione. Per esempio, credo che nessuno di noi abbia mai avuto rispetto per una band che dal vivo non usa la batteria ma una traccia pre-registrata. E lo stesso discorso vale per qualsiasi altro strumento. Noi forse esageriamo in senso opposto, perché per noi anche un clarinetto trovato nella spazzatura suona meglio di un clarinetto pre-registrato. Ci piace rovistare alla ricerca di vecchi strumenti, come quella cetra da tavolo che ha recuperato Bob. Ce l’hai ancora?
Bob Dickie: Oh sì…
Bob Malloy: Costantino, devi sapere che qui a Philadelphia ogni capodanno si tiene la Mummers Parade, una delle più antiche tradizioni musicali degli Stati Uniti perché si ripete dal 1901. Ogni primo gennaio le strade si riempiono di musicisti più o meno improvvisati, di gente in costume che suona qualsiasi cosa e festeggia per ore e ore. Tra questi c’è anche qualcuno che prova per tutto l’anno in vista di quel giorno, ma alla fine della parata sono talmente sbronzi che molti di loro buttano gli strumenti agli angoli delle strade. E noi andiamo a raccattare quegli strumenti e li riutilizziamo per la nostra musica. Puoi trovarci qualsiasi cosa: banjo, contrabbassi…

Anche voi credete, come certe culture del sudest asiatico, che gli strumenti musicali abbiano una memoria?
Bob Malloy: Captain Beefheart diceva che gli strumenti vanno tenuti coperti, perché se li tieni troppo tempo all’aria rischiano di perdere l’anima. Io francamente non mi faccio tutti questi problemi, ma ogni musicista ha una relazione speciale con i propri strumenti. Le mie chitarre, per esempio, mi parlano. Anche se non dovrebbero… (ride)
Bob Dickie: Be’, se non suono il basso per qualche giorno, appena lo riprendo sento che ce l’ha con me (ride).
Bob Malloy: Dickie fa il modesto, ma è molto più che un bassista, è lui che si occupa di tutte le nostre registrazioni, è l’unico tra noi che ha davvero studiato musica. È il nostro uomo di scienza, mentre io mi occupo delle parole, lui si occupa del suono…
Bob Dickie: Il nostro suono è sempre stato definito lo-fi. E, tornando alla questione tecnica, per me “lo-fi” è un’etichetta fuorviante, perché “bassa fedeltà” fa pensare a una scarsa accuratezza nella registrazione, a una mancanza tecnica che tradisce il suono originale. E invece no, noi abbiamo sempre avuto quel suono lì, noi siamo lo-fi a prescindere dal modo in cui registriamo.

È vero. Inizialmente per lo-fi si intendeva uno stile di registrazione casalingo, in piena opposizione a quello che si poteva fare in uno studio professionale. Ma dopo l’avvento di band come la vostra, il lo-fi è diventato quasi un filtro Instagram che musicisti di poca sostanza applicano alla loro musica incolore per darle un tono vissuto.
Bob Malloy: Registrano una cosa in digitale e poi applicano effetti e distorsioni per simulare le imperfezioni dell’analogico. È una fregatura.
Bob Dickie: E va contro il nostro stile, perché il più delle volte la nostra filosofia è “buona la prima”, inclusi tutti i difetti.
Bob Malloy: Non abbiamo mai nascosto i nostri difetti e chi ci ascolta apprezza questo nostro approccio…
Bob Dickie: … Perché sente che siamo degli esseri umani.

Per opporvi a tutte queste band che usano il lo-fi come un trucchetto da postproduzione per sentirsi alla moda, dovreste andare in un grande studio e registrare dischi per audiofili come quelli degli Steely Dan…
(ridono tutti)
Bob Malloy: Ci abbiamo provato a suonare come gli Steely Dan, ma non ci siamo mai riusciti (ride).
Jacy Webster: Non è un suono che fa per noi, ma oggi – volendo –puoi replicarlo anche in uno studio casalingo: con i mezzi giusti, una registrazione domestica può avvicinarsi a una produzione di alto livello. Detto questo, noi dobbiamo fare i conti con le apparecchiature che ha a disposizione Dickie: sarà pure roba buona, ma non è certo all’altezza dello studio di Madonna (ride).

The Strapping Fieldhands – Foto: Press

Scherzi a parte, voi non vi distinguete solo per il suono, ma soprattutto per una grande attenzione ai testi. Ed è proprio l’attenzione che il pubblico riservava ai testi che ha permesso ad alcuni musicisti alternativi americani e inglesi di diventare delle vere e proprie star in Paesi come l’Italia o altre nazioni non anglofone, perché i loro dischi erano affiancati da pubblicazioni (non sempre legali) in cui venivano riportati e tradotti i testi delle canzoni, libriccini che permettevano al pubblico non solo di memorizzare le parole, ma anche di interpretarne il significato. Penso a cantautrici come Patti Smith negli anni Settanta, agli Smiths negli Ottanta e – in tempi più recenti – a David Berman dei Silver Jews, che prima di morire nel 2019 era diventato un poeta a tutti gli effetti.
Bob Malloy: I versi di una canzone per me sono tutto. Non dico che una canzone debba necessariamente raccontare una storia, ma di certo le parole devono relazionarsi alla musica in una maniera originale. La maggior parte delle parole utilizzate nelle canzoni ormai sono dei cliché vuoti, perché sono state ripetute allo sfinimento per parlare d’amore, rabbia, tristezza e cose simili, ma a volte basta un tocco di originalità per restituirgli freschezza. Alle superiori volevo diventare un poeta, quindi ho sempre avuto una passione per le parole insolite e sorprendenti, ma la musica è all’origine di tutto: prima scrivo la musica e poi ci scrivo sopra, in modo che le parole rientrino in quella metrica.

Credi che chi fa critica musicale abbia la voglia e la capacità per analizzare i testi?
Bob Malloy: Assolutamente sì. I critici musicali sono sempre stati eccezionali nei nostri confronti. In molte delle recensioni che ci hanno dedicato ho trovato delle osservazioni molto acute sulle influenze britanniche e appalachiane presenti nel mio modo di scrivere e cantare. In tanti hanno evidenziato il tema della “psichedelia bucolico-pastorale”, che ricorre in tante delle mie canzoni. È divertente vedere cosa si inventano e, sotto molti punti di vista, una delle più grandi soddisfazioni di fare musica è leggere quello che scriverà la critica. Detto questo, non credo che qualcuno abbia mai davvero analizzato a fondo i miei testi, ma forse è un compito adatto più a uno studioso che non a un critico musicale che scrive sui giornali.

Non pensi che molti critici si concentrino soprattutto sugli aspetti tecnici come la qualità della produzione delegando il giudizio sul testo ai singoli ascoltatori?
Bob Malloy: Può essere. Da quando i loop e i sample hanno preso il posto del canto, forse i testi sono diventati meno importanti. E poi c’è tanta musica elettronica e strumentale di rilievo che non ha una componente vocale. Per noi la voce umana è sempre stata un elemento centrale, ma ognuno fa come preferisce. Per quanto mi riguarda, non ho niente in contrario a usare loop ed effetti vari, ma preferisco scrivere e cantare da me, per poi mettere in scena una performance umana, anche se in certi casi usiamo suoni virtuali o digitali. Siamo sempre stati dell’idea che la nostra musica deve mostrarsi con tutte le sue imperfezioni, quindi non ritocchiamo troppo le registrazioni e non ci dispiace lasciare qualche sbavatura nel mix definitivo. Per quanto riguarda il rapporto che gli ascoltatori hanno con i testi, penso che solo alcuni di loro ascoltino e riascoltino un brano a ripetizione, mentre la maggioranza si limita a un ascolto casuale ed è già tanto se ricorda un verso o un ritornello. Ma va bene così.

Però anche nelle tue canzoni racconti delle storie. Nel vostro ultimo disco, Across the Susquehanna, c’è He’s a Chart Topper!, nella quale parli di un uomo che ha interpretato male il concetto di fama e ora ne è deluso. Mi ha ricordato una cosa che avevo sentito dire a Terry Gilliam: “Passeggiavo sulla spiaggia di Malibu al tramonto, mano nella mano con una ragazza splendida. Avevo una casa bellissima e ogni cosa andava alla grande. In quell’istante mi resi conto che stavo vivendo il sogno di qualcun altro. Mollai tutto e mi trasferii in un angolo merdoso della Francia”.
Bob Malloy: Abbiamo visto tanti nostri amici salire e scendere sulle montagne russe della celebrità. Gente che abbiamo conosciuto per anni e, al primo accenno di successo, si sentivano delle rockstar. Quindi sì, quel pezzo parla proprio di quello. La nostra realtà è molto più concreta e affrontiamo le difficoltà che affrontano tutti. Per esempio, questo disco lo abbiamo registrato durante il lockdown. Io mandavo le mie tracce audio a Dickie via Dropbox e poi lui riorganizzava tutto il materiale. Per una necessità tecnica, in un primo momento utilizzavamo delle basi di batteria digitale, ma per adattarle al nostro stile le abbiamo dovuto piegare il digitale alla fisicità di un elemento analogico: il dito con cui simuli le percussioni sul touchpad. In questo modo le abbiamo rese imperfette, goffe, nostre. Non siamo i soli ad avere un atteggiamento simile: sempre più giovani musicisti fanno avant-folk e usano strumenti acustici nonostante non siano dei virtuosi. Insomma, non siamo gli unici a guardare con sospetto a quel tipo di fama di cui parliamo in He’s a Chart Topper!. E mi fa molto piacere che ci sia qualcuno come te che presta così tanta attenzione a quello che diciamo nelle nostre canzoni. Sai com’è, molta gente ormai compra i dischi per mero collezionismo. A loro interessa il vinile, poi cosa c’è dentro conta fino a un certo punto…

Quello dei collezionisti che comprano il disco e lo conservano senza nemmeno estrarlo dal cellophane è un fenomeno interessantissimo ma aberrante… preferisco tornare sulla rinascita del folk cui accennavi. So che da voi negli States c’è un crescente interesse per le sonorità del Nordafrica, gli americani guardano di nuovo al Marocco, in particolar modo a un evento come il Fez Festival of World Sacred Music: era dagli anni Cinquanta, dai tempi di Paul e Jane Bowles, che non capitava.
Bob Dickie: C’è molta curiosità per la musica Gnawa, che è al centro di vari rituali che prevedono degli stati di quasi ipnosi… Il tutto con una linea di basso spettacolare.

The Strapping Fieldhands – Foto: Press

Mi pare che nel resto dell’Africa la situazione sia molto diversa. Se nel nord ci sono questi splendidi festival folk, in buona parte del continente – Ghana, Nigeria, Kenya e Sudafrica – le radio mainstream mandano dance elettronica tutt’altro che contemplativa, come il gqom di Durban.
Bob Dickie: Due che di sonorità africane ne sanno parecchio sono i fratelli Alan e Richard Bishop, membri fondatori dei Sun City Girls. Alan vive al Cairo e con Richard ha fondato l’etichetta Sublime Frequencies, con la quale portano negli Usa delle perle musicali che vanno a scovare di persona non solo in Africa, ma anche nel Sudest asiatico e in Medioriente. Sono orgoglioso che ci considerino parte della loro famiglia allargata. Sono anche clienti fissi del Philadelphia Record Exchange, vero Jacy?
Jacy Webster: Verissimo. Quando i fratelli Bishop sono in città, passano sempre dal mio negozio. Io me ne sto tranquillo alla cassa e uno di loro, nel più completo silenzio, mi chiede ad alta voce: “Ehi, ti ricordi quella volta che eravamo fatti di LSD e abbiamo visto i Meat Puppets dal vivo?”. Sono due persone eccezionali e sono molto felice di essere membro della loro tribù.

Richard Bishop non è solo un musicista, ma un viaggiatore nel vero senso della parola. Ed è per questo che quando sale sul palco o fa un nuovo disco ha sempre qualcosa da raccontare, a differenza dei cantanti che prendete in giro in He’s a Chart Topper!. Quali sono secondo voi gli artisti che hanno ancora qualcosa di nuovo da raccontare?
Bob Malloy: Tutti abbiamo una storia da raccontare, ma nessuno ti sta a sentire se non sai raccontarla bene, meglio ancora se sottoforma di canzone. Certo, devi essere sincero, ma fino a un certo punto. Perché la sincerità è importante, anche nella messa in scena. Se mi chiedi quali sono i miei musicisti preferiti, non ti stupirò con nomi inaspettati, sono sempre i soliti: Syd Barrett, Skip Pence, The Incredible String Band e qualche altra figura meno nota della psichedelia britannica di fine anni Sessanta. È tra questi tesori che trovo le mie influenze, perché per me in quel periodo sono state scritte le migliori canzoni-storie di sempre. Band come i Kaleidoscope, Honeybus, Wimple Winch, Skip Bifferty, The Koobas… Il Regno Unito era pieno di gruppi così. Quegli inglesini sapevano scrivere canzoni su qualsiasi cosa: “Song of the Baker”, “I’m a Lorry Driver” e via dicendo. Gran bella roba. Ma tra tutti i cantautori/narratori che ho conosciuto di persona, quello che mi ha colpito di più è Robert Pollard, una fonte inesauribile di testi e melodie, il più delle volte eccezionali. Era e resta una forza della natura, tant’è che un sacco di persone hanno provato a imitare il suo stile. Io, però, lavoro in tutt’altro modo. Ho sempre cercato di fare a modo mio e abbiamo sempre avuto un suono tutto nostro.

In un altro pezzo di Across the Susquehanna, Ingrid in Glasses, parlate di una donna che è così assorta mentre intreccia merletti da sprofondare nella sua coscienza, quasi un viaggio psichedelico di stampo femminista.
Bob Malloy: Se ci fai caso, la caratteristica di Ingrid su cui mi concentro nel testo è la sua passione per il macramè, che è un’attività manuale, ripetitiva ai limiti dell’ossessione. Nel rock, quando parli di ragazze, finisci sempre a cantare di minigonne e seni prosperosi… ma in quel modo trascuri tutto il resto e ne fai una rappresentazione del tutto superficiale. Negli ultimi anni è finalmente emersa la necessità di rappresentare la donna in modo più articolato, ma mi pare che al momento siamo ancora alla fase delle buone intenzioni. Nei fatti, non mi pare sia cambiato un granché. Per quanto mi riguarda, il mio approccio davanti alla figura femminile è rimasto immutato dai tempi della scuola: davanti a una ragazza sono sempre lo stesso nerd di sempre. Se una bella donna mi rivolge la parola, vado in confusione. Non ho mai sopportato il classico punto di vista del rocker sciupafemmine. Resto dell’idea che, davanti a una donna, quello del nerd balbettante sia un atteggiamento molto più progressista.

Quindi un nerd che balbetta davanti a una ragazza è molto più all’avanguardia di Jim Morrison che ha stuoli di donne ai suoi piedi. Perché lo sfigatello impacciato a suo modo è un femminista. Inconsapevole, ma pur sempre femminista. Come in un’altra vostra canzone, Boo Hoo Hoo, la traccia che apre il vostro disco d’esordio, Discus.
Bob Malloy: (ride) Sì, è la storia di un nerd che è innamorato perso di una donna e, per far colpo su di lei, le ha raccontato un po’ di balle prima di incontrarla di persona. Le ha detto di essere giovane e aitante, ma sa bene che le sue bugie crolleranno appena lei lo vedrà, quindi pensa a cosa farà per convincerla della sua buona fede. E la prima cosa che gli viene in mente è piagnucolare e ripeterle l’unica cosa vera, e cioè che la ama perdutamente: “Boo hoo hoo / I’m in love with you”.

In pratica è un racconto breve, la cronaca di una presa di coscienza concentrata in quattro minuti e sei secondi di canzone. Del resto, prima che si diffondessero i libri, la musica è stata un importante strumento per la trasmissione di storie e conoscenza. E Rabindranath Tagore, il poeta e Premio Nobel indiano, scriveva anche canzoni. A proposito, ho un’ultima domanda per te, Bob: perché mi hai chiesto di aprire la nostra conversazione proprio con una delle sue canzoni dal Gitanjali?
Bob Malloy: La prima volta che abbiamo parlato, mi hai chiesto se avessi mai letto Tagore. Conoscevo solo alcune sue poesie sparse in varie antologie, e allora sono corso a leggere il Gitanjali. Fantastico. Soprattutto la quindicesima canzone, che è un po’ come il Canto di me stesso di Walt Whitman, ma con meno iperboli. Quella canzone di Tagore si chiude con una preghiera: “Mio signore! / comandami di cantare davanti a te. / Quando nell’aria del mattino / l’arpa d’oro è ben accordata / onorami chiedendo la mia presenza”. E per noi sarebbe davvero un onore suonare a Milano, una città potente, in cui convivono commercio, moda e cultura. Una città nota a tutti gli appassionati di aperitivi come noi. Una città che ha come patrono Sant’Ambrogio. Sapevi che da piccolo gli si posò sulla bocca uno sciame d’api? Non solo non lo punsero, ma resero la sua lingua dolce come il miele. Ha anche composto alcuni dei più antichi inni religiosi, quindi è a tutti gli effetti uno dei primi cantautori pubblicati nella storia della Cristianità! Adesso capisci perché per noi suonare a Milano sarebbe qualcosa di magico.

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