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Geolier ci racconta quello che siamo oggi, nel bene e nel male: ‘I p’ me, tu p’ te’

Il suo pezzo sanremese può essere anche una foto del capitalismo individualista della “società della performance”, più o meno quello che ha scritto Ghemon ieri a proposito delle temporanee dismissioni da cantante di Sangiovanni

Foto: Matteo (Baglyo) Baglioni

Giovanni Robertini: Non ti chiedo da che parte stai. Con Ghali, ovvio. Con il bro Dargen e non con la zia Mara, ovvio. E con Geolier contro tutta Rete 4, Facci, Belpietro e i phascio leghisti. È dal rapper di Secondigliano – quello che l’über boomer Corrado Augias definisce “personaggio di assoluta curiosità” – che da giorni ormai sono ipnotizzato: guardo in loop il video TikTok dei bambini a carnevale in sella a una mini moto, lui travestito da Geolier, lei dalla fidanzata Valeria, ascoltando l’album-mondo Il coraggio dei bambini. E oggi Napoli mi sembra sempre più il metaverso dove esplodono tutte le contraddizioni, non quelle del “colorito” (cit. Augias) artista ma le loro, quelli che dicono che il rap è violento e lo dicono con una violenza, una bava alla bocca, un odio che davvero non capisco da dove arrivi. Geolier ha ventitré anni e risponde che l’odio lo “scoccia” e che la sua musica “fa vedere quello che non deve accadere”. È un vero underdog che smaschera quelli fake, ma è anche il “muratorino” nel libro cuore di De Amicis (sempre cit. Augias, the new lanzichenecco con stile) che vive ‘o sentimento. Ci voleva una corazza hip hop fatta di sneakers Louis Vuitton e orologi di diamanti nascosti per scelta sotto un completo nero maranza sul palco dell’Artiston, per proteggere questo menestrello, pensoso giullare che “sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al re”. Geolier più di Ghali ci racconta quello che siamo oggi, nel bene e nel male: “io per me, tu per te” può essere una canzone d’amore, ma anche una foto del capitalismo individualista della “società della performance”, più o meno quello che ha scritto Ghemon ieri a proposito delle temporanee dismissioni da cantante di Sangiovanni. I p’ me, tu p’ te, io Geolier non faccio come tutti gli altri rapper di successo che si trasferiscono a Milano in cerca dell’Eldorado, p’ me rimango a Secondigliano. E tu p’ te.

Alberto Piccinini: Geolier lo ascolto da due giorni sulla Panda Hybrid, ovvio. Che assomigli al muratorino del libro Cuore è tutto da discutere. Io avrei detto Precossi, bravo a scuola ma col padre ubriacone, o Luigino Crossi, madre erbivendola e padre in galera. Sempre viva Augias comunque, il problema non è lui. Pensa come stiamo messi, mi viene da rispondere qualcosa a Sangiovanni che si prende una vacanza dalla musica perché “non riesco più a fingere che tutto vada bene e che sia felice” – ottima idea tra l’altro per il ritornello di una canzone allegro-malinconica estiva, ritmo caraibico. La risposta è: benvenuto nel club. Sono gentile, la risposta boomer sarebbe stata: Sangiovanni chi? Ghemon su qualche altro social ce l’ha con la società della performance, che gli rispondiamo? Benvenuto anche a lui. Gli scapigliati e i bohémien dell’Ottocento rischiavano la vita nelle loro soffitte gelide per fare gli Artisti con la A maiuscola. Quelli che facevano successo lo raccontavano tipo La bohème di Puccini, e ci si compravano il macchinone. Le ragazze di cui parlavano nei loro racconti invece morivano tutte di tisi e patriarcato, non dimentichiamole. “Abbiamo bisogno di un altro Tenco – dice ancora Ghemon, l’ho letto tutto – non del suo tragico finale”. Boh. È appena uscito un libro che mette insieme lettere e interviste di Luigi Tenco, dal Saggiatore, una lettura sconvolgente. Tenco ha pagato per i ragazzi (e le ragazze?) sensibili di un Italia in cui si soffocava di conformismo e fascismo, altro che spensierati anni ’60. Alle rivistine che lo intervistavano chiedendogli le solite cazzate rispondeva: “Non sono come la maggior parte delle persone, che sorride senza sapere perché”. E a brutto muso: “Fatemi un favore se possibile, non rivolgetemi le solite domande idiote”. È morto solo, neanche abbiamo capito perché, a Sanremo. E già da questo avremmo dovuto capire Sanremo. Invece no, ci siamo cascati con tutte le scarpe negli X Factor e nei Got Talent, negli Amici (amici di chi?) che poi sono la glamourizzazione del conformismo e del fascismo di cui sopra. Sangiovanni e Ghemon chiamatemi soltanto per la rivoluzione, sennò scriveteci un’altra canzone. Ma non sono certo che l’ascolterò.

GR: Uno dei primi della nuova scena pop rap a parlare di salute mentale è stato Fedez, ricordi? Si fa fatica a ricordarlo, nonostante sia passato meno di un anno dalle sue dichiarazioni. Colpa, come sempre, della gogna mediatica, di cui Fedez è complice e vittima. Ieri Repubblica aveva in homepage le sue dichiarazioni davanti al giudice, “sono tecnicamente nullatenente” e di fianco le foto di lui sulla Lambo, o stravaccato su un materassino nella piscina di una villa in affitto, mi piace immaginare che la proprietà sia di un qualche Agnelli de Palhem che ora se la sta contendendo all’ultimo sangue con l’avvocato, questo sì molto hip hop. E visto che i giullari rap oggi giocano in Champions col potere – vedi Dargen, giullare tout court – mi piace ricordare il primo, inimitabile: Bello Figo. Il suo “non pago affitto, non faccio opraio” è l’unico manifesto pro migranti che abbia colpito il bersaglio. Il resto è retorica di media qualità. Molti si sono chiesti se Bello Figo fosse matto, o solo furbo, fatto sta che a Sanremo non ci è andato, nessuno l’ha chiamato a fare il giudice di un talent, neanche uno spot per i telefonini. La prova che non è né matto né furbo.

AP: Mah. Siamo in Paese coi nervi a pezzi per qualsiasi cosa, costantemente dentro un incubo clickbait. C’hai fatto caso quando apri il telefono e un sito di news ti promette “bufera”, “scintille”, e naturalmente “shock”? Ecco. Ghali dice “genocidio” accanto a un pupazzone alieno nella recita tv più assurda degli ultimi anni? Bufera. Meloni chiama Schlein al telefono, La Repubblica non pubblica un’intervista di Ghali, eccetera. Battibecco. Il volo discute in diretta alla radio: “Mi sono rotto le scatole”, dice uno all’altro. Capirai. Certo, ti sei conquistato una carriera di tretenorismi, una notevole impermeabilità al cringe e una dichiarazione dei redditi che per compilarla ci vogliono tre commercialisti, ma perchè vai a Sanremo a cantare come Sangiovanni? Ah, ho visto ieri un po’ dello show di Vince Staples su Netflix. Sono quasi degli sketch, lui finge di essere un Vince Staples famosissimo che però continua a fare cose normali tipo una cazzata in macchina e passa un notte in galera, una mattina in banca, con la mamma in chiesa, il problema è che normali non sono i suoi interlocutori che lo tormentano in ogni modo proprio perchè lui è Vince Staples. Vabbè, carino. Lo sai che all’inizio della sua carriera, appena inciso il primo 45 giri Quando (quella meraviglia!), Tenco ha scritto una lettera al discografico per chiedergli se al posto del suo nome poteva metterci “anonimo”? Potrebbe colpire, spiegava, “il pubblico interessato alle sensazionali novità”. Shock, battibecco, bufera.

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