Nel 2023, quando Joe Biden era Presidente e la brat girl summer era solo un bagliore lime nei nostri occhi, sono diventata la prima persona che conoscevo a essere licenziata a causa dell’Intelligenza Artificiale. In quanto ascendente Aquario, da sempre porto il fardello di essere in anticipo sui tempi.
Lavoravo in una piccola startup di animazione, finanziata dai soliti noti della Silicon Valley, dove collaboravamo con celebrità e influencer per creare personaggi animati che vivevano online. C’erano una bambola irriverente, un cane che sapeva cucinare, una preadolescente ispirata a Monster High (franchise di bambole americano, ndt).
Poiché in America si può fare praticamente qualsiasi cosa in cambio di denaro, il mio lavoro consisteva nel gestire e far crescere i social di questi personaggi. Una volta raggiunto un numero sufficiente di follower, ci presentavamo a aziende di giocattoli e case editrici dicendo: “Guardate questa cosa popolare che abbiamo creato. Vi interessa trasformarla in un peluche o in un libro per bambini?”. A volte dicevano di sì. Si scopre che il settore dell’infanzia è una miniera d’oro.
Pensavo fosse un modello solido, che mostrava i primi segnali di successo, ma intanto i venti dell’AI si stavano intensificando. Non molto dopo aver invitato un assistente AI a prendere appunti nelle nostre riunioni, la tempesta è arrivata — hanno licenziato metà del personale in un solo giorno.
«Stiamo cambiando direzione», ci dissero. «Stiamo diventando uno studio di Intelligenza Artificiale».
È successo due anni fa. E io non ho ancora trovato un lavoro a tempo pieno.
Non certo per mancanza di tentativi, come può intuire chiunque abbia anche solo sfiorato i dati sull’occupazione. Quasi un milione di persone licenziate quest’anno. Il ritmo di assunzioni più lento dal 2009. Il tasso di disoccupazione di lungo periodo — la quota di persone in cerca di impiego da più di 27 settimane — è arrivato al 26 per cento.
So che alcune persone tengono un foglio Excel con tutti i lavori per cui hanno fatto domanda, ma io ho perso il conto dopo i 70. In ogni caso, gli unici lavori che contano davvero sono quelli da cui ricevi una risposta, e quelli li posso contare sulle dita di una mano.
C’è stata l’agenzia creativa che mi ha trascinata per sette colloqui e una presentazione (assegnata la Vigilia di Natale), solo per chiudere tutto tre mesi dopo il nostro primo contatto. C’è stato il magazine nazionale che cercava un editor notturno per le news e che ha capito immediatamente che avevo dimenticato tutto quello che si impara in una redazione, visto che non ci lavoravo da più di dieci anni.
E un paio di settimane fa, c’è stata la donna dell’AI.
Mi stava chiamando per un qualche indefinito lavoro da content strategist che avevo trovato su LinkedIn durante una delle mie sessioni EasyApply, quelle in cui carichi il curriculum, scorri la lista e clicchi “candidati”. Non è completamente automatico — a volte ti fanno ancora qualche domanda, come se sei un veterano o se ti serve un visto di lavoro. Altre volte, invece, ti propongono domande-trabocchetto per essere sicuri che tu abbia letto la job description. In quei casi chiudo tutto in preda a un’ira furibonda. Sarò all’antica, ma non rispondo a nessun maledetto indovinello prima di aver visto il primo stipendio.
Quando la donna dell’AI ha chiamato, ho capito subito che era un robot fin dal momento in cui ho risposto. Era impacciata, distante. Ho pensato fosse un pre-screening. Il lavoro era tramite una società di consulenza che piazza candidati presso malvage corporation tech. Sicuramente ricevono un sacco di candidature.
Mi ha chiesto il nome e mi ha dato qualche informazione vaga sul ruolo. E poi ha continuato a parlare, lanciandosi in una serie di domande. All’improvviso ero in un colloquio.
Le ho chiesto di fermarsi quando ho capito cosa stava succedendo. Non ero pronta. Non mi ero ancora lavata i denti. Che ruolo era, di preciso? Perché non tengo un foglio Excel?
Frugando nella casella di posta alla ricerca della candidatura, mi ripetevo che era solo un robot. Parlo con un robot, Alexa, ogni giorno, quando le chiedo di mettere il timer per le uova. Sono molto sgarbata con lei, e detesto quando prova a fare la simpatica. Non vedo l’ora di prenderla a pugni quando finalmente acquisirà coscienza.
Il colloquio è durato 30 minuti. Siamo entrate nel merito dei miei ruoli precedenti e delle mie filosofie sulla costruzione delle audience. Naturalmente, non ha dato nessun feedback. Ti rendi conto di quanto lavoro faccia un semplice “mh” di assenso in una conversazione quando non ne senti nemmeno uno.
Alla fine, pensavo di essermela cavata bene e l’ho raccontato subito a tutte le mie amiche: l’ennesimo, crudele ostacolo nella mia ricerca di un lavoro. L’ho detto anche su TikTok, chiedendo se fosse una truffa. No, mi ha confermato un commentatore. Il suo lavoro era programmare proprio questi robot.
«Le domande di screening servono a valutarti come candidata… sulla base dei requisiti della job description», ha scritto. «Se superi una certa soglia, vieni passata a un recruiter».
Il giorno dopo, il robot ha richiamato. Ho pensato di aver fatto una buona impressione. Invece, mi ha chiesto di nuovo il nome. Poi ha rispiegato il ruolo. E ha ricominciato il colloquio.
L’ho fermata, spiegando che avevamo già fatto tutto il giorno prima. La sua risposta è stata… robotica. «Dev’esserci un errore. Avviserò il team. Arrivederci».
Il giorno successivo, travolta dalla comicità cosmica della situazione, ho chiamato l’agenzia di consulenza sperando di parlare con un essere umano. Su LinkedIn dicevano qualcosa sul “tocco umano”. Ovviamente, non ha risposto nessuno.
«Credo che il vostro computer si sia confuso», ho implorato nel vuoto della segreteria telefonica. «Volevo essere sicura che aveste ricevuto le risposte di cui avevate bisogno». Non ho ancora avuto risposta.
«È inquietante», ha detto una mia amica.
«Lo so», le ho risposto. «Ma almeno ho ricevuto una chiamata».
Due anni sono tantissimo tempo per fare qualsiasi cosa, figurarsi per attraversare una disoccupazione silenziosa. La mente inattiva vaga in corridoi molto bui.
Ci sono anche corridoi più luminosi. Quelli che ti fanno chiedere se non sia il momento di provare qualcos’altro.
Ho provato un sacco di cose, e pensato a provarne molte altre. Ho cercato informazioni sulla certificazione da flebotomista, sulla scuola per tecnici HVAC, su quanto guadagnano gli elettricisti a Chicago. Ho aperto un canale YouTube di horror in formato breve e cercato su Google “come vendere foto dei piedi”.
Ho pasticciato con gli acquerelli e fatto gioielli. Ho consultato una strega su Etsy e sono diventata quasi dipendente da una sensitiva di YouTube che si chiama Linda G.
Ho fatto volontariato con gli anziani e consegnato la spesa ai loro appartamenti, chiacchierando sulle soglie delle porte di Gesù e delle bollette della luce. Mi sono appassionata alla musica house, spolverando il mixer che avevo comprato al mio ragazzo per il suo compleanno tre anni fa. Ho fatto una transizione incredibile dai Verve ad Azealia Banks.
Sono stata online — tutto il giorno, ogni giorno — danneggiando irreparabilmente le mie riserve di dopamina. Ho aperto la mail migliaia di volte all’ora. Ho consumato Reddit, Instagram e Twitter in un loop infinito, perché mi piace che le notizie siano veloci, furiose e piene di disinformazione.
Di recente, ho trovato un lavoro part-time stagionale in un negozio di cosmetici. Per 10 ore a settimana sto alla cassa e offro carte di credito del negozio a persone che non dovrebbero avere carte di credito del negozio. Se a fine mese attiviamo abbastanza carte, possiamo indossare i jeans per un giorno. Se ne attivo più delle altre dipendenti, ho diritto a 30 minuti di pausa pranzo.
Mi sono ridotta a TikTok e ai suoi video. Non solo a guardarli, ma anche a farli. Sfogo molta rabbia urlando contro l’amministrazione. Ho accumulato 27.000 follower così, e ogni settimana considero l’idea di diventare influencer. “Dovrei provarci davvero,” mi dico. “Vendere vitamine che non funzionano e fare un content calendar”.
Ci ho provato per un po’, poi ho mollato.
Più di ogni altra cosa, negli ultimi due anni ho provato soprattutto a mollare. È una cosa relativamente nuova per me, ma ormai ho fatto molta pratica.
Ho mollato più e più volte. Ho lasciato perdere tutto, più volte. La mia giovinezza, gli anni 2010, l’idea di tornare a vestire una taglia 40. L’industria dei media e la carriera che un tempo mi elettrizzava. Abbiamo tolto MTV, il mio ex datore di lavoro, dai canali preferiti della TV, e mi è sembrata una cosa personale.
Ero una writer e un’editor lì, e non riuscivo a credere che mi pagassero per farlo. Poi ho continuato a essere pagata per farlo anche altrove. Quando sono stata reclutata nel tech, è perché al CEO, allora ancora uno studente universitario, piaceva davvero la mia scrittura.
La scrittura ha fatto parte di ogni lavoro che abbia mai avuto, ma ora nessuno sembra volerla più. Un corridoio particolarmente buio suggerisce che forse nessuno l’abbia mai voluta davvero. Forse è sempre stata solo fortuna.
E oltre a tutto questo, ora ci sono i robot. E non sono nemmeno fighi. Non li stiamo incontrando nelle utopie cromate che sognavamo. Non sono assistenti carini e utili che avanzano verso di noi facendo bip-bop lungo il corridoio, aggiustandoci la cravatta mentre usciamo di casa. Sono invece i presagi di una distopia senz’anima, architettata dagli uomini itterici che hanno comprato la Presidenza. Sono le doule della morte della classe media.
Certo, ci aiutano a sfornare lettere di presentazione destinate a restare senza risposta e a diagnosticare i nostri malanni senza la parcella del medico, ma allo stesso tempo stanno deformando la nostra già fragile presa sulla realtà. In alcuni casi, in modo fatale. A ogni miliardo aggiuntivo che gli investitori riversano sulle loro promesse, dove finiamo noi? Cosa otteniamo per aver scritto le parole e scattato le immagini che hanno costruito le loro librerie, le fondamenta delle loro fortune? Finora, l’unico compenso sembrano essere più video di conigli finti che saltano su trampolini finti. Più immondizia da aggiungere alla nostra montagna di scarti digitali.
E così diventa sempre più difficile capire da dove provenga quell’odore — la fine della tua carriera, del Paese, di come erano le cose un tempo, o tutte e tre le cose insieme. Sai solo che qualcosa sta marcendo.












