Ehi voi, furie no Green Pass/no vax: ma chi controlla il vostro smartphone? | Rolling Stone Italia
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Ehi voi, furie no Green Pass/no vax: ma chi controlla il vostro smartphone?

Si vaneggia di una dittatura che non c'è e non ci si accorge che non ci fregano coi microchip nei vaccini, ma coi telefoni che abbiamo in tasca. Noi zombi disorientati, loro miliardari

Ehi voi, furie no Green Pass/no vax: ma chi controlla il vostro smartphone?

Cristiano Godano

Foto: Gabriella Vaghini

Premessa della premessa: non invento mai io i titoli dei miei articoli. Me li sceglie la redazione dopo avermeli fatti vedere per mia approvazione. I titoli sono un mondo a parte del giornalismo, e non sono quasi mai il mio forte. Se li scegli garbati, onnicomprensivi della vastità delle opinioni, “ecumenici”, pudichi, poco clamorosi (quello che farei io, che amo “filosofeggiare” e contemplare i punti di vista altrui anche solo per prevenirli), una buona percentuale di pubblico potenziale non ti leggerà. Triste, ma vero. Da sempre e per sempre.

Il titolo di questo articolo che state per leggere io non lo avrei mai inventato (il monito che è esplicito nelle sue parole non è certo valevole solo per i no Green Pass e i no vax!), ma tant’è, con questo titolo (che ovviamente non è campato per aria se rapportato al grosso del mio contenuto), molti in più mi leggeranno. Il che, nonostante il doloroso dispiacere per lo shitstorm che mi garantirà, è pur sempre un mio desiderio: quello di esser letto da più gente possibile. Quale scrittore o giornalista non vorrebbe esser letto da più gente possibile? Immaginate un titolo come “Gli smartphone ci stanno monitorando tutti: ve ne state accorgendo?”. Bene, mi leggerebbero in molti meno. Ma molti meno…
Triste, ma vero.

Ed ecco la premessa…

Vorrei porre a premessa del mio nuovo scritto ciò di cui mi prefiggo di parlare, visto che la prendo sempre alla larga e forse non si capisce mai bene dove io voglia andare a parare. Alla fin fine al mio lettore ideale richiedo la stessa pazienza e la stessa buona disposizione che si decide di dedicare a un libro, perché quello che interessa a me, ancor prima di fargli leggere il contenuto che mi sforzo di esporre, è accompagnarlo in una dimensione di rapimento, e mi permetto di consigliare a chi mi legge di farlo con questo obiettivo: lasciarsi catturare come accade con un buon libro (sospendendo la credulità? Non saprei…). Va da sé che mi assumo la responsabilità di fallire miseramente, e dunque di rischiare di tradire la fiducia di chi volesse accettare questo consiglio, un po’ come quando si acquista un libro destinato a deluderci.

E dove voglio andare a parare oggi? In queste ultime settimane ho letto spesso la parola “popolo” associata alle questioni della dittatura (sanitaria e non solo) e della limitazione della libertà. Oltre ad essere una frangia del popolo stesso ad appropriarsene per rivendicarla, appare anche, e spesso, in molte discussioni dei circoli intellettuali della riflessione raffinata, che a volte mi vado a cercare o in cui mi ci imbatto, e che mi fanno purtroppo l’effetto di una oziosità ben poco pratica (radical chic qua ci starebbe bene) e ben poco volta a fornire soluzioni a un problema che o si dimostra una volta per tutte che non c’è (il covid, visto che ci sono ancora frange che parlano di “fake-pandemia” in spregio direi vergognoso dei morti vari in tutto il mondo) o si ammette che c’è e va risolto. E siccome purtroppo c’è, sta tornando a far danni e in molti Paesi ha fatto tornare lo stato d’emergenza e introdurre il green pass o il lockdown per i non vaccinati (o comunque qualche misura straordinaria), e siccome dunque va risolto, ci dicessero loro, gli intellettuali coi loro raffinati distinguo socio-filosofeggianti elaborati la sera al metaforico tepore di una bella lampada posta sulla scrivania di casa, quali sono le soluzioni da adottare per debellarlo – si penderebbe dalle loro labbra – e la si finisse con chi è «contro il lockdown ma anche contro i vaccini, contro il Green Pass ma anche contro i locali chiusi» (cit. Mattia Feltri su La Stampa di sabato 16 ottobre), perché sono contraddizioni grottesche. Almeno per chi crede che il covid esista e sia pericoloso.

«La filosofia non è contenuto, ma contemplazione. Ascoltare il cicaleccio di filosofi che si accapigliano sulle presunte libertà che staremmo perdendo, sulla democrazia in pericolo, sullo Stato di eccezione o di emergenza, è una colossale perdita di tempo e io di tempo non ne ho da perdere». Franco Ferrarotti, sociologo, filosofo, professore emerito all’Università degli studi La Sapienza, in una intervista di qualche giorno fa sull’Huffington Post. Curriculum spaventoso, decine e decine di libri scritti, formazione con Nicola Abbagnano, ruolo primario nella istituzionalizzazione della sociologia in Italia, collaboratore negli anni ’50 di Adriano Olivetti (imprenditore visionario, un caso noto e studiato, attento e sensibile alle problematiche dei lavoratori), sostenitore della depenalizzazione dell’eutanasia (Wikipedia docet, basta dargli un occhio).

Il popolo… Penso che sarebbe bello che il popolo, anziché disperdere le proprie energie intorno a qualcosa che non può altro che esser risolto dalla scienza e dalla medicina con l’aiuto della politica (incredibile come una cosa del genere debba essere sottolineata in questi tempi stravolti e spossati), si svegliasse per due altre cose in particolare, che sono quelle di cui parlerò qua sotto. In un caso farebbe un gran favore a sé stesso, e nell’altro qualcosa di tremendamente nobile e necessario.

E allora inizio il mio articolo, in cui mi propongo come primo obiettivo (il gran favore a sé stesso di cui qua sopra) di sostenere che ci si dovrebbe allarmare (meglio: ci si sarebbe dovuti allarmare) per altro che non le presunte limitazioni di libertà a causa di una pandemia, che in quanto pandemia presenta l’urgenza della straordinarietà… (Mi spiace: io credo che la pandemia ci sia, e confesso di non star sentendo il problema della libertà connesso al covid: chiedo a chi in questo momento mi sta ringhiando contro di accettare che questa sia la mia percezione della realtà in cui vivo. Per alcuni sono un lobotomizzato che non si sta accorgendo del grande disegno ai nostri danni e della dittatura strisciante. Mi dispiace, non li vedo, non li sento, non li temo – temo per contro, e molto, certe degenerazioni politiche non in connessione diretta col covid se non per bieca propaganda, sempre latenti, sempre minacciose… Intravedo però altri disegni – lì si che siamo tutti lobotomizzati, a destra, a sinistra, in centro – e di ciò parlerò fra poco. Senza certezze da esibire come verità oggettive, ma con intime convinzioni da provare ad avvalorare al meglio. Chi vivrà vedrà).

Pronti: via!

Non sto riuscendo a eliminare il cellulare dalla mia quotidianità: questo è un fatto. Tremendo fatto. È sempre con me, e nel momento in cui uno iato si frappone tra un pensiero e una parola scritta, fra una sensazione vissuta e una decina di passi fatti sul marciapiede in sua compagnia, fra una visione e una riflessione (utile o banale non importa), in coda al supermercato o in attesa di un cappuccino al bancone, vado a scrollare in orizzontale o in verticale su IG. E ovviamente controllo nel frattempo che su WhatsApp non sia accaduto nulla o che al contrario un nuovo mess, atteso o meno, sia arrivato. Penso di potermelo permettere (?! wtf!) perché non ho un lavoro d’ufficio e nessun capo mi sta col fiato sul collo, e tutto ciò è ridicolo e patetico, ed è una chiara manifestazione della mia sconfitta nei confronti di chi proprio così mi vuole: perso lì dentro, come uno zombie disorientato e tormentato da una vertigine ineludibile.

Il perfetto prodotto per il loro business, loro billionaires immorali (Amazon, Facebook e analoghi, sempre loro, ne parlo spesso lo so, e voi giovani probabilmente pensate io sia un boomer retrogrado coi suoi bias cognitivi) e loro aziende (i clienti dei billionaire) sempre più assetate di nozioni predittive sui nostri comportamenti. (Predittivo: in grado di consentire anticipazioni e previsioni). Perché grazie ad algoritmi perversamente raffinati noi siamo ormai un corpo trasparente, del tutto permeati dalla loro invasività, che permette a chi li usa e ci usa di sapere sempre più accuratamente come ci comporteremo e cosa compreremo. «E chi è che ci usa?», si chiede il giovane lettore perplesso e ironico… Loro ci usano, i due soggetti sunnominati: tutto il nostro tempo dedicato o perso nei nostri device è al servizio del loro business. Ogni nostro click è al servizio del loro business, e sarebbe opportuno farsene una ragione. Coi click che facciamo forniamo loro dati: di quei dati analizzati e catalogati (sono un numero mostruoso, provoca le stesse vertigini delle grandezze dell’universo, poiché sono tutti i nostri click moltiplicati per i miliardi di persone che come noi cliccano sui loro device, ogni minuto di ogni giorno… non male no?), di quei dati dicevo hanno un fottuto bisogno le aziende che ci venderanno i loro prodotti, e i billionaires glieli vendono (diventando schifosamente ricchi con gli spazi pubblicitari ceduti ai migliori offerenti), e noi glieli forniamo gratis (loro sempre più ricchi, noi sempre più poveri). Sono dati analizzati da altrettanto mostruosi calcolatori che non si fermano di fronte a quei numeri (dicesi big data, in buona sostanza, la combo dati-analisi, che ha-avrebbe al suo arco anche un sacco di frecce positive per l’umanità e i suoi problemi, e sarebbe bello parlarne un giorno). E quelle analisi ci profilano e ci consegnano alle aziende. Per cui noi siamo semplici pedine al loro servizio.

Non ve ne frega nulla? Secondo me dovrebbe, perché secondo me vi ritroverete in un mondo sempre più povero con tante, tantissime probabilità di non riuscire a migrare sul lato ricco della forbice (alla faccia delle cosiddette opportunità della rete), e penso che molte delle tensioni sociali che stanno venendo sempre più fuori siano anche connesse con lo scempio che sto da vari articoli provando a raccontare. Siamo nella loro rete ore, ogni giorno, ed ecco perché dicevo che ci vogliono lì dentro: vogliono i i click che produciamo. E ci stanno riuscendo. Non vedete anche voi sempre più gente persa nel suo piccolo schermo? Basta farci caso in qualsiasi contesto sociale del giorno vi ritroviate… Sul tram, in metro, nei locali pubblici… E quanti indizi gli lasciamo, lì dentro! La nostra vita è una cartografia raffinata della nostra posizione geografico-esistenziale nel mondo: schedati, studiati, analizzati in ogni nostro movimento, reale e virtuale, veniamo usati per il loro business, accettando tutto ciò con pigra e purtroppo stolida leggerezza… E, alla luce di questa consapevolezza, il lamento rabbioso e monodirezionato contro la schedatura del Green Pass e contro tanti aspetti connessi al covid diventa purtroppo una cosa un po’ da sorriderne (il famoso ridere per non piangere), considerando quale abissale differenza in termini di schedatura ci possa essere fra la nostra dipendenza dai social e i tracciamenti che ci capitano nella vita reale (fra cui, appunto, il Green Pass)… Se tanto mi dà tanto, semplice intuizione, la minuziosità del dettaglio della nostra profilatura da parte della prima non è neanche lontanamente paragonabile a quella, ben più modesta, della seconda. Eppure, ci sono antenne dritte solo per il Green Pass… (E non oso pensare quanto faccia sorridere loro, i billionaires, la nostra rabbia direzionata altrove, ben felici delle nostre distrazioni e delle nostre frustrazioni, qualsiasi esse siano se non indirizzate a loro stessi… Appuntatevi il nome di Frances Haugen: ne parlerò molto velocemente più avanti).

Noi quindi ci configuriamo sempre più come esseri remissivi, proni a ogni loro ricatto: vuoi togliere Google Play dal tuo sistema per non essere sempre geolocalizzato perché ti da fastidio essere sempre geolocalizzato e perché sai di averne ben donde a essere infastidito? Bene: se lo fai il sistema operativo ti avvisa che perderai un sacco di funzioni e dispositivi utili – e dunque quella certa miracolosa efficienza a cui sei ormai abituato col tuo cellulare addomesticato – e a quel punto, inerme e stordito, inorridito all’idea di dover rinunciare agli agi del tuo bel sistema operativo, accetti il ricatto di Google Play e la sua onniscienza su te e i tuoi spostamenti, in modo che il capitalismo della sorveglianza possa venderti di tutto crescendo come un’entità aliena e sovrana dentro di te (noi), sopra di te (noi), intorno a te (noi). E il problema non è ciò che il capitalismo vende o non vende a te: compri solo quello che ti serve? Bravo, è giusto e furbo non farsi abbindolare dalle tentazioni più evitabili. Il problema è che è un mondo intero a essere abbindolato, e non sarà la tua virtù a impedirti di ritrovarti in un mondo sempre peggiore nel quale dovrai per forza vivere.

Oppure i cookie: a nessuno è capitato di riflettere su come ultimamente siamo presi per estenuazione a ogni pagina che clicchiamo? Fa sorridere questo slancio riguardevole nei nostri confronti, questa artefatta premura nel chiederci se vogliamo adottare restrizioni alla loro invadenza… Avete voglia voi, ogni volta che aprite una pagina, di selezionare le vostre preferenze sui cookie? O date il vostro ok arreso pur di poter continuare a navigare nevroticamente? Conosco la risposta. Bene: quei cookie non arginati e non contenuti dalla nostra comprensibile pigrizia, non limitati, non tenuti sotto controllo, sono il progressivo asservimento alla mappatura perfetta della nostra essenza, noi che ci consegniamo a loro spossati e raggirati, intontiti e grottescamente beati. Loro (i billionaires) sempre più schifosamente ricchi e noi sempre più poveri e incazzati.

(Se avessi persuaso qualcuno finora non del tutto informato su questi aspetti, la sua domanda «Ma cosa possiamo fare noi per impedire tutto ciò?» suonerebbe molto appropriata. «Molto poco in realtà», sarebbe la risposta, se non una presa d’atto collettiva – quello che secondo me il popolo dovrebbe fare ad esempio anziché disquisire oziosamente su famigerate dittature naziste, che se arriveranno non arriveranno da chi ci governa ora – presa d’atto collettiva che ci facesse ribellare a “loro” dopo aver accumulato la giusta rabbia susseguita alle nuove consapevolezze, magari apprese guardandosi per bene The Social Dilemma, che come scrissi in un articolo tutti dovrebbero vedere per prendere insieme la decisione di vendere cara la nostra pelle. Una chimera, lo so bene. E a proposito di Social Dilemma, vi dico questa: i protagonisti di quel documentario sono alcuni fra coloro che hanno creato i presupposti per la crescita mostruosa del business dietro ai social. Dunque sono persone che i social li conoscono bene, perché li hanno creati. Conoscono il mostro, come dei novelli Frankenstein. E… sapete? Si dice che loro impediscano ai loro figli di avere i social, sfoltendo di molto i loro cellulari dai gadget e dalle app. Pensateci bene a quello che ho scritto, non sono mica cazzate…).

Vi scrivo questi due passaggi da Il nostro futuro, di Alec Ross: «La prima volta che un bimbo riceve un cellulare o fa il suo primo videogioco, comincia ad ammassare un cumulo di dati personali che crescerà nel corso di tutta la sua vita, un cumulo che può essere costantemente riordinato, correlato, codificato e venduto» (altro che vaccini ai bambini) e «Ciascuno di noi è catalogato e valutato economicamente». E poi quest’altro da La fine della fine della terra, di Jonathan Franzen: «La tecnologia digitale è un capitalismo che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza, in ogni minuto della nostra vita». E quest’altro ancora, da Il tempo non esiste, di Rossano Baronciani (se non erro, visto che me lo ero appuntato in libreria qualche giorno fa su un foglio senza scrivere la fonte): «… affermazione ormai definitiva della società dello spettacolo, ovvero il modo in cui il nuovo capitale produce immagini, al fine di far lavorare quelli che sono i nuovi operai alla catena di montaggio, ovvero gli spettatori, ovvero noi tutti davanti a uno schermo di uno smartphone». Se ho sbagliato citazione mi scuso profondamente col vero autore. Quello che conta è quel «nuovi operai della catena di montaggio, ovvero gli spettatori, ovvero noi davanti a uno schermo di uno smartphone». Agghiacciante no?

Mi è capitato due volte di leggere sui miei social un signore molto stizzito che mi accusava di non aver mai preso posizione contro il neoliberismo (è l’ossessione di molti). Interveniva (non ho mai capito del tutto bene perché) in merito a due miei Elzevirus in cui parlavo di cose con cui esso (il neoliberismo) c’entrava poco o nulla, se non facendo un minestrone di considerazioni ideologizzate. Ma tant’è: se ringhiare contro i soprusi del capitalismo della sorveglianza e dunque della rete vuol dire includere la rabbia verso il neoliberismo di cui sono di certo figli… bene, eccomi qua: fanculo a entrambi. Perché entrambi stanno sempre più impoverendo tutti noi, altro che Green Pass, mi si conceda… (Perché il popolo che pare essere così sensibile – vedi Trieste – alla faccenda del lavoro, non ringhia contro i licenziamenti dei dipendenti di Alitalia? O contro quelli della Whirlpool di Napoli? Così, tanto per dire… Quelle sono vittime del neoliberismo). Ma mi permetta quel signore una cosa: io ringhio contro il neoliberismo – che non è perfetto a prescindere, visto che nulla è perfetto a prescindere – perché migliori se stesso e recida le pessime diramazioni di cui si è adornato, non per invocare sovranismi e simili. E nemmeno le acclamate rivoluzioni nei rivoli più misteriosi e oscuri del web. Perché credo nella necessità della cooperazione e dell’amicizia fra gli Stati, non nella loro divisione. Credo nei diritti per tutti, nella pace, nella pazienza che serve sempre per tenerla viva fra le genti, quanto più possibile, nonostante le difficoltà. E soprattutto perché odio la violenza, e le rivoluzioni portano violenza.

Dovrebbe dunque essere lampante dedurre che non sono necessari i grotteschi microchip nei vaccini (ma come si può arrivare a credere a certe cose?) per essere asserviti a qualcosa che ci fotte, ma questa mostruosità che per davvero ci domina (la tecnologia digitale) non ha evidentemente l’appeal del grande complotto ordito da Big Pharma, che è la preoccupazione più assillante dei negazionisti e dei recalcitranti al vaccino. Perché Big Pharma sì e tutto il resto del business planetario che sta dietro a ogni cosa no? Perché nessuna incazzatura per le lobby di gas, petrolio e fonti fossili che ci stanno portando alla distruzione? (In realtà fra questi incazzati so che ce ne sono molti che pensano che il problema del clima sia una bufala cinese… Basta ascoltare Trump, un manipolo di scienziati negazionisti, il 2% – o forse il 3 – della comunità scientifica, e frequentare i siti giusti, e si scopre in fretta che i ghiacciai che si sciolgono si sono sempre sciolti e la Groenlandia un tempo era verde: semplice no? A pensarci bene, in fondo, da lì alla Terra piatta manca poco…).

Nel grido monodirezionato e rabbioso del mondo anti vaccino – al netto dei casi con le loro ragionevoli e condivisibili problematiche, fra cui ad esempio un timore trasformatosi in fobia – intuisco, in modo grezzo e istintivo, quel tipo di manipolazione che quello stesso mondo vorrebbe vedesse chi è favorevole al vaccino, che non ci starebbe accorgendo della dittatura in atto. (Poiché questa è l’opinione diffusa fra le frange più accese, esposta con poca delicatezza mentre viene additata e derisa la coglionaggine di chi, ipnotizzato e lobotomizzato, non se ne avvede… Ed è curioso, perché secondo queste frange gli arroganti sono i favorevoli al vaccino, e dunque probabilmente io in questo momento che ho appena lamentato l’arroganza altrui. Avete letto di quella dottoressa a Roma che qualche settimana fa si è trovata di fronte un gruppo di no vax in tram che diceva con toni aggressivi e intimidatori stupidaggini scientificamente errate in risposta ai passeggeri che chiedevano loro di mettere le mascherine e si è beccata una testata in viso per essere intervenuta a esporre le sue ragioni e spiegazioni nel tentativo di sedare? Com’è possibile gridare per la libertà di cui si presume si sia privati e poi prendere a testate uno che non la pensa come te? La domanda è ovviamente retorica. A voi non fa paura questa deriva? Qui si potrebbe fare lo stesso paragone che si usa fare “dall’altra parte” di questi tempi col nazismo, visto che questo sì, semmai, se proprio si deve ragionare in questi termini, mi sembrerebbe un clima come quello del ’33 in Germania. Ma proprio perché questo paragone è evocato pure “dall’altra parte”, sento che dovrei fare un Elzevirus per riflettere – e per chiarire prima di tutto a me stesso – su questi chiassosi e confusi qui pro quo creati da due impostazioni di pensiero opposte che evocano lo stesso nemico. È un ginepraio, e per ora lascio perdere: il pantano in cui mi sono infilato fin qua è già sufficientemente pericoloso. Ma permettetemi un consiglio: siete veramente interessati al tema “come nacque la dittatura nazista e possibili analogie col presente?”. Leggetevi Sindrome 1933, di Siegmund Ginzberg. Libro che forse ho già consigliato tempo addietro. Era più pertinente leggerlo 3-4 anni fa, quando uscì, con la destra estrema che chiedeva agli italiani i pieni poteri. Ma anche ora se lo si legge con intelligenza procura bei brividi.

Frances Haugen: ve lo eravate appuntato questo nome? Ecco che ve ne parlo. È una ex product manager di Facebook e in questa pagina dell’Huffington Post (troppo mainstream questo sito? Per molti forse sì) potete leggere molte cose interessanti su di lei. In poche parole: ha fatto coming out qualche mese fa, e ha espressamente dimostrato che gli algoritmi di Facebook fomentano l’odio. Ci sono tantissimi documenti di ricerca che aveva copiato di nascosto prima di dimettersi (i famosi Facebook papers) e sono stati usati pubblicamente. Io di queste cose intorno all’odio fomentato da Facebook (e ovviamente anche da Google e YouTube eccetera) ho già accennato in qualche altro mio Elzevirus ben prima che l’affare Facebook papers venisse in luce, perché erano intuitivi, e perché si potevano dedurre da tante letture fatte con un minimo di attenzione, e ora una ex dipendente di quella azienda lo dimostra.

Come accade che fomenta l’odio? È semplice: gli algoritmi danno la priorità unicamente all’engagement. E cosa ho detto sopra? Più stiamo lì dentro più produciamo dati, e a loro interessa unicamente questo, i nostri dati, per conoscerci sempre meglio e venderci alle aziende. E per ottenere questo lurido business non si fanno scrupoli nel favorire le divisioni, spingendo ai margini le persone con interessi generali (ecco un buon motivo per darsi una svegliata… Se si arricchiscono ai nostri danni non ve ne frega nulla? Beh, non è solo quello il punto: ci stanno anche dividendo, sempre più. Sempre più incazzati gli uni con gli altri, poveri fra poveri. Volete un disegno complottista efficace e credibile? Eccolo qua, questo sì che è uno scenario realistico e gravissimo).

Noi musicisti di generazioni ormai datate lo stiamo imparando: se parliamo di musica sui nostri social (sarebbe a tutti gli effetti il nostro compito), i nostri post non producono nessun interesse e, spiace dirlo, sono purtroppo tempo perso (a meno che uno non abbia desiderio di passare nei social il suo tempo a consigliare musiche a una o due decine di persone suppergiù, in genere sempre le stesse: può essere anche bello, ma ci si stufa in fretta – e non necessariamente il musicista che li desse sarebbe colui che a un certo punto si stufa – e giustappunto da certi punti di vista non serve a niente). Solo cose eclatanti e divisive producono fibrillazione e successo del post (o che ne so, straordinarie, come partecipare una tantum a un programma televisivo e spaccare): la gente arriva coi suoi commenti o i suoi like, crea tramestio, torna a controllare le risposte ogni tanto, e alimenta una nuvolaglia di gente che si autogenera e si ingrandisce esponenzialmente, moltiplicando attività e impiego di tempo lì, proprio lì dove ci vogliono loro, nei loro social. Perché l’odio è proficuo. E cazzo gliene frega a loro se noi intanto ci dividiamo e se si creano le premesse per qualche situazione sociale potenzialmente degenerativa e di cui loro sono schifosamente responsabili? (Tipo i fascismi… Ci sono mica solo in Italia: cos’è Trump se non un prototipo di quell’idea di mondo? E cosa sarebbe stato Trump senza i social e l’uso bieco che ne ha fatto? E guarda caso: cosa fu Cambridge Analytica se non quella grossa forza di manipolazione che i media hanno avuto in occasione dell’elezione di Trump e la Brexit? Per questi fatti Zuckerberg è stato messo di fronte al Congresso statunitense, detto per inciso…).

Quanto è triste tutto ciò da uno a dieci? Compresa questa necessità dei musicisti di avere a che fare con like e engagement? Direi undici. (Una precisazione: noi mai e poi mai facciamo post con intenti divisivi e banali calcoli opportunistici. Solo impegno etico e civico ci motivano, e desiderio di favorire riflessioni: esattamente come questi miei interventi qua su Rolling Stone. È un possibile compito di un artista. Non necessario, ma possibile. Il fatto è, per dire, che ormai anche se parliamo di cambiamento climatico siamo divisivi di questi tempi, inevitabilmente, desolatamente, e questo è deprimente, frustrante, demoralizzante, e definitivamente schifoso. Non trovate?).

Mi ero ripromesso di parlare di due cose di cui il popolo dovrebbe preoccuparsi in fretta anziché sperperare troppe energie nei confronti di una pandemia che si può solo cercare di debellare quanto prima, ma mi sono talmente dilungato sulla prima che prendo la decisione di parlare della seconda in un prossimo Elzevirus. E dunque… un grazie a chi mi ha letto fin qua.
E anche a chi ha mollato prima, che però non potrà leggere i miei ringraziamenti qua.

Cristiano

Post scriptum (per i più tenaci: serve ancora concentrazione): fra gli intellettuali a cui ho silenziosamente alluso all’inizio del mio articolo, di sicuro il filosofo Agamben è un capofila, e penso sia diventato un riferimento super citato da chi, a sua volta infiammato da ardore intellettuale, discute rabbioso intorno ai temi del Green Pass dalla sponda sinistra del dibattito. Se non dico stupidaggini lui – Agamben, probabilmente il filosofo italiano più noto all’estero – è stato il primo, o uno dei primi, a parlare di dittatura e a paragonare l’Italia al regime sovietico (se non erro in Senato) e alla Germania nazista (il paragone con le stelle di David l’ha fatto in qualche suo scritto). Beh, credo sia gustoso far notare che un mese fa più di 100 filosofi docenti nella università italiane e non solo hanno firmato un documento a favore di Green Pass e vaccini rivolgendolo al Fatto Quotidiano per la pubblicazione online, contestando il loro collega Agamben e le sue esagerazioni (le esagerazioni “naziste” di Agamben sono un fatto, poiché anche fra gli intellettuali moltissimi ne prendono le distanze). Questo documento ha destato molte critiche e tanto disprezzo in quegli stessi circoli della riflessione raffinata, visto che è scritto in modo molto semplice e dunque risulta semplicistico (perché rivolto alla gente comune?). Fra le critiche anche quelle prevedibili di servi, leccaculo e simili. Io ve lo linko qua. E qua vi linko una pagina estremamente interessante emblematica dei circoli di cui vi parlo, nella quale Luca Illetterati – autorevole docente di filosofia all’Università di Padova – espone le sue perplessità nei confronti del documento stesso. I commenti sottostanti vi potranno dare l’idea, se li leggerete, delle riflessioni raffinate di cui ho detto. È molto bello e stimolante leggerle (e leggere ovviamente il bell’articolo di Illetterati), e se lo farete potrete giudicare da voi se lì dentro si possono trovare idee per soluzioni pratiche al problema covid che attanaglia l’umanità e, tanto per dire, continua a non far suonare in condizioni normali noi musicisti. Eccola.

Se vi imbatterete nel commento datato 22/10 di tale Marco… beh in quelle parole, nonostante tutte le altre degli altri utenti da me lette, più articolate, più intellettuali, più eteree, più densamente speculative, più strutturate, ritrovo il senso di ciò che alla fin fine si muove dentro di me, nonostante le attrattive a me care del pensiero umanistico, teoretico, contemplativo. (Riporto questa pagina perché mi è sembrata la più stimolante e equilibrata, essendo le altre in cui mi sono imbattuto, cercando le reazioni ai 100 filosofi, piuttosto fastidiose nel loro fanatismo a volte chiassoso a volte tracotante).

Post scriptum 2: Sapete chi è Lorenzo Damiano? È il fondatore di Norimberga 2 (questo sì che è un titolo di merda). Non mi dilungo molto: oltre a dirvi che è noto per essere – riporto dal web – «il leader dei no vax in Veneto», Internet vi permetterà di approfondire se vorrete prendervi il piacere di documentarvi e sperabilmente indignarvi. Ebbene: è in terapia intensiva. Notizia di poche ore fa. Ha il covid, ed è attaccato all’ossigeno. Se la sta passando male. È andato a prenderselo (il covid) a Medjugorie (è un fervente cattolico integralista, per non farsi mancare nulla) dopo aver fatto un video (ovviamente pubblicato) in cui mostrava con gioia l’assenza di mascherine delle persone (e la sua ovviamente). E niente… Fa davvero strano pensare che questo tipo di evidenze in fondo non sarà convincente, come può non esserlo, per dire, un ghiacciaio che si scioglie o l’acqua che lentamente sta venendo a mancare. E di negazioni in negazioni speriamo che l’incubo in cui l’umanità si ritrova non duri troppo.

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