Il Ministro della cultura Alessandro Giuli e io abbiamo una cosa in comune: nessuno dei due ha finito l’università. Mentre però io mi sono arreso, lui sta cercando di metterci una pezza, e ha ripreso gli studi dopo la nomina. Lo immagino tutto trafelato, a scrivere la tesi fra un Consiglio dei Ministri e l’altro, con questo caldo insopportabile e in una città in cui non c’è mai parcheggio. In questo bagno di sudore però, il suo Ministero è riuscito a mettere in ginocchio un intero settore, dando un giro di vite significativo sui sostegni economici assegnati a musica, teatro e danza. Il mondo dello spettacolo è in rivolta, tre membri della commissione incaricata di scegliere le proposte meritevoli di essere finanziate si sono dimessi, pochi giorni fa si è svolta un’assemblea generale dei lavoratori dello spettacolo con un migliaio di partecipanti (incazzati neri). Questa cosa avrà un impatto, ma al di fuori del settore se ne sta parlando davvero poco. Che cosa è successo davvero?
Ogni triennio il Ministero della Cultura assegna un punteggio alle compagnie, ai festival e ai centri di produzione che ne fanno richiesta, decidendo se e quanti soldi destinare al progetto, giudicandone il valore artistico, l’impatto culturale e un sacco di altri criteri che trovate sul sito del Ministero. Un’abitudine abbastanza antica, che, tra una modifica e l’altra, va avanti con questa modalità dal 1985: quindi, per le realtà meritevoli più longeve, è consuetudine ricevere un sostegno dal governo da prima che io nascessi, da quando il Ministro Giuli faceva le elementari (finite con ottimi voti) e da prima che si formassero gli Oasis.
Questo contributo annuale ha determinato la sopravvivenza di moltissime compagnie, festival e progetti, che, a questo poco noto ma estremamente rilevante giro di boa governativo, si ritrovano con un pugno di mosche. Numerosissime realtà storiche e di indiscutibile qualità artistica hanno visto un abbassamento di punteggio fatale: lo storico Teatri di Vetro di Roma è passato da una valutazione di 29 su 35 a quella di 8,5 (venendo escluso dai progetti finanziati, la cui valutazione minima è 10), come pure Teatro Akropolis di Genova, mentre Santarcangelo, storico festival di sperimentazione, che dal 1971 a oggi ha ospitato nomi giganteschi del campo delle performing art, è sceso a una valutazione di 14, venendo finanziato per un pelo e molto meno del solito.
Chi sono invece i primi della classe? Oltre a numerose rappresentanze del teatro, della musica e della danza più tradizionali (teatri stabili, orchestre sinfoniche e da camera, compagnie di danza neoclassica…) numerosi casi da extrasistole: un po’ di scuole di provincia con il massimo del punteggio, “centri di produzione” senza un sito internet (sì, davvero), festival nei cui cartelloni spiccano nomi come Stefano De Martino, erede di Amadeus come conduttore di Affari tuoi, vincitore (e ora co-conduttore) di Amici ed ex marito di Belen; Fiorella Mannoia in concerto con un orchestra sinfonica o Vincenzo Salemme, protagonista di quelle commedie italiane che fanno venire voglia di richiedere la cittadinanza svizzera. Insomma, più televisione e meno sperimentazione, meno Carmelo Bene e più duetti di Pupo con Emanuele Filiberto di Savoia. Ma Italia amore mio, cosa sta succedendo? Vogliono davvero “una cultura modello Amici”? Una strage silenziosa, almeno sulla carta.
Proviamo però a farci una domanda scomoda: che peso hanno queste realtà da un punto di vista economico? A chi interessano, ma soprattutto, a quanti interessano? La domanda è scarsamente uscita da questi giorni di dibattito, assemblee e tumulti fra addetti ai lavori, mentre la risposta (altrettanto scomoda) è: a pochi. Forse troppo pochi. E poi: qual è il discrimine tra cultura di qualità ed elitarismo? Una chiave di lettura interessante può essere fornita dalle assegnazioni dei contributi economici in ambito musica, nei quali vediamo orchestre, rassegne di musica jazz sperimentale e musica classica contemporanea: quel genere di cose alle quali molti di noi (siamo sinceri) reagisce come Fantozzi davanti alla Corazzata Potëmkin: “una cagata pazzesca!”.
Non troviamo il pop che fa sold out negli stadi, la techno che riempie i club e neanche il post-hardcore da centro sociale, che, su magnitudo differenti, interessano al pubblico pagante, ma contenuti che, senza un sostegno che vada al di là dello sbigliettamento, rischiano davvero di scomparire. E sarebbe un vero peccato vivere in un mondo in cui non sappiamo più chi siano Luciano Berio, Luigi Nono o non possiamo più andare in qualche auditorium a sentire un concerto di intonarumori futuristi assieme a una manciata di outsider over 70.
Ma la danza contemporanea, il teatro e la performance, sono così? No, semplicemente spesso del pubblico se ne fottono. Perché dopo un concerto di musica dodecafonica (salvo eccezioni davvero molto rare) è abbastanza probabile che possa averne abbastanza per qualche anno, forse per tutta la vita, ma è davvero strano che avvenga lo stesso per un campo che parla ai contemporanei della contemporaneità, attraversando temi urgenti, lotte sociali e argomenti che basta andare in qualsiasi bar di una metropoli in orario aperitivo per sentire dibattere da un sacco di gente. Sarà un problema di linguaggio? Pensiamo al fatto che Beyoncé ha plagiato Anne Teresa de Keersmaeker (una pagina di storia della danza contemporanea) in un suo videoclip, o al fatto che i cartelloni di festival di musica elettronica internazionali si stanno arricchendo sempre di più di contenuti performativi e rispondiamoci: no. Quindi mi sembra ora di chiederci: il pubblico ci interessa davvero?
Perché nonostante le voci “impatto economico” o “sbigliettamento” non comparissero fra i criteri di selezione, emerge dalle testimonianze dei commissari dimissionari che in commissione si è parlato molto di soldi. Anzi, quasi solo di soldi. Ed eccoci qui punto e a capo: “con la cultura non si mangia”, la famosa frase mai rivendicata dall’ex Ministro Giulio Tremonti. Ma quindi “che fare?”, per passare da una citazione berlusconiana a una leninista? Forse, un po’ di autocritica.
Suonerà scomodo e inviso agli addetti ai lavori, ma forse potrebbe servire. Perché, per quanto triste, non suona affatto strano scoprire che viviamo in un paese in cui la cultura è soprattutto turismo e l’arte è intrattenimento (“gli artisti che ci fanno tanto divertire”, ve li ricordate?). Forse è tempo di non mettere la sopravvivenza di iniziative culturali di valore totalmente nelle mani di un governo, ma di provare a ripartire dal basso, coinvolgendo nuovi pubblici e non accontentandoci mai più di una sala mezza vuota.
Dovremo girare come i Blues Brothers con un megafono sul tetto dell’automobile per riempire i teatri? Forse. Sarà svilente? Probabile, ma è un’opzione comunque più dignitosa che far giudicare una proposta di grande valore artistico, sociale e di innovazione da una commissione con l’approccio del “quanta gente mi porti”, -manco stessimo parlando di una cover band di Vasco. Perché sì, essere indipendenti davvero ha un costo e un rischio, e questa parola è stata abusata in un sacco di dibattiti su questo temad. Sarà un futuro prossimo molto faticoso, e noi non siamo neanche «in missione per conto di Dio» come Jake ed Elwood, ma in missione per la musica, la danza e il teatro. Che, per citare Antonio Rezza (uno che indipendente lo è sempre stato e ha profetizzato questo tracollo in tempi non sospetti) «è come Dio, in più esiste».
