È stato l'anno del rap. E non solo nella musica | Rolling Stone Italia
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È stato l’anno del rap. E non solo nella musica

Se il linguaggio politico si è messo le sneakers e i collanoni d’oro, possiamo pure valutare quale dei due generi, in assenza di base musicale, abbia più swag. Sta a noi – come sempre – scegliere tra quelli bravi e quelli scarsi, musicisti o candidati che siano.

È stato l’anno del rap. E non solo nella musica

Beppe Sala e Marracash alla Music Week di Milano. Foto di Dario Facchi.

Fine anno, tempo di classifiche, di vendite e gradimento. E non si può non notare come in Italia, e non solo, il 2018 sia stato musicalmente invaso da rapper e trapperini, dai numeri record a gennaio di Sfera Ebbasta fino a un dicembre dove Salmo supera pure Jingle Bells. Si è mossa anche La Repubblica qualche giorno fa, pubblicando un pezzo In morte del rock – a firma del critico musicale Gino Castaldo – che partiva dal fatto che Kanye West avesse proposto, per i Grammy del prossimo anno, un suo pezzo rap Freeee (Ghost Town Part 2), nelle categorie miglior canzone rock e miglior performance rock. Fine di un’era, si dice in questi casi.

Ma c’è di più, potremmo partire proprio dal controverso Kanye per spiegarlo: è stato lui, il suo mostruoso ego, a tenerci incollati alle sue cazzate su Twitter, dall’appoggio a Trump fino alla promessa di non occuparsi più di politica, passando per deprecabili dichiarazioni sulla schiavitù o assurdi haiku motivazionali. Te li sei già dimenticati, vero? È la (nuova) politica, bellezza. Lo racconta bene Filippo Ceccarelli nel suo librone – mille pagine! – Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua (Feltrinelli). “Questi qua”, per la penna jazz di Ceccarelli, sarebbero Di Maio, Renzi e Salvini, accumunati dalla possibilità di non dover essere credibili “per forza”, di poter dire una cosa e il giorno dopo il suo esatto contrario, di essere verbalmente temerari, bugiardi, ambigui, grazie a quella che il giornalista chiama “la sparizione del prima”: “Sembra che tutto sia accaduto la settimana scorsa. Prima non è mai successo niente, prima è il vuoto assoluto, l’anno zero, la tabula rasa”, scrive Ceccarelli, “C’entrerà la tecnologia, o il logorio della vita moderna, come diceva un antico carosello di un digestivo al carciofo, ma qui in Italia il passato se la sta svignando di brutto, l’esperienza nessuno la tiene più in conto, la storia si perde, la memoria evapora”.

Giocando di retorica, se il rock rappresenta la Storia, il rap oggi è l’anno zero dove il passato è tutt’al più un breve campionamento da mixare con futuristici beat. Un rapper – proprio come un politico di questi qua – può dissare, ovvero dire peste e corna di un collega, per poi finire a farci una canzone insieme (e torniamo a Salmo e Sfera Ebbasta) senza perdere di credibilità, l’unica attenzione da fare “per avere ragione” è quella di gridare il secondo messaggio ancora più forte del primo.

E così arriviamo all’altra questione che accomuna questi due nuovi generi, la politica populista e l’hip hop popolare: la spacconaggine. Si è parlato molto in questi giorni dell’intervento del trentenne outsider Dario Corallo, autocandidato alla segreteria del PD, durante l’Assemblea Nazionale del partito: a muovere la polemica è stato un passaggio del suo discorso – “una metafora acrobatica, più scivolosa che efficace” scrive Alberto Piccinini – in cui Corallo, rivolgendosi ai suoi del PD, diceva: “Il 99% delle persone semplicemente non può competere, e noi abbiamo voluto raccontare l’1%. Quel 99% l’abbiamo umiliato come un Burioni qualsiasi, che si diverte a bulleggiare chi invece, con le proprie parole, ha espresso semplicemente un dubbio”. Corallo è stato maldestro, ma non voleva prendere posizioni antiscientifiche o sostenere gli antivaccinisti che Roberto Burioni solitamente attacca, bensì voleva paragonare l’approccio muscolare (spaccone, un po’ rapper appunto) e paternalistico del virologo sui social all’approccio politico della dirigenza PD. E non aveva tutti i torti.

La spacconaggine di cui è re indiscusso Kanye West – e che fa parte del Dna dell’hip hop – è certamente più contemporanea di una banale discussione democratica, ma poco funzionale a un’efficace strategia politica. Se il linguaggio politico si è messo le sneakers e i collanoni d’oro, possiamo pure valutare quale dei due generi, in assenza di base musicale, abbia più swag. È successo che a novembre, in occasione della Music Week, siano saliti sullo stesso palco Marracash e il sindaco di Milano Beppe Sala per parlare del futuro della città davanti a una platea di under 30 o quasi. Se fosse stata una battle di improvvisazione rap avrebbe sicuramente vinto Sala con il suo flow borghese e colto, credibile (non come quelli là, per intenderci) e per nulla spaccone. Il 2018 è certamente l’anno del rap, anche per la politica, ma sta a noi – come sempre – scegliere tra quelli bravi e quelli scarsi, musicisti o candidati che siano.

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