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Della fotografia-simbolo della Guerra del Vietnam non sappiamo ancora tutto

Questo quello che sostiene 'The Stringer', documentario che ha messo in discussione la paternità dell'immagine. La quale, dicono, non sarebbe stata scattata da Nick Út, a cui fu anche assegnato un Premio Pulitzer
(da USA) Napalm Girl

Foto: Nick Ut/AP

Saigon, Vietnam, 8 giugno 1972. Poco prima dell’alba, un piccolo gruppo di giornalisti indossò divise da combattimento e giacche safari, poi si infilò nella città che si stava risvegliando a bordo di un convoglio di furgoni e auto a noleggio. Correndo verso nord-ovest, superarono legioni di persone in cerca di rifugio, un corteo silenzioso di povertà e miseria. Carichi di tutto ciò che potevano portare e stringendo bambini tra le braccia, i civili formavano un grande fiume di dolore che scorreva verso sud, mentre i giornalisti si affrettavano a nord per il loro appuntamento con la guerra.

I reporter stavano percorrendo circa 50 chilometri fino a una cittadina chiamata Trảng Bàng, per coprire il terzo giorno di un’offensiva nordvietnamita contro l’esercito sudvietnamita. Per la maggior parte di loro, la giornata si sarebbe conclusa in modo tanto ordinario quanto era iniziata. Una volta arrivati, i giornalisti bighellonavano sulla strada in attesa; fumavano, parlavano, controllavano l’attrezzatura, poi fumavano e parlavano ancora. Sembrava delinearsi un’altra giornata senza particolari eventi in una guerra che ormai durava da un decennio — 99 per cento attesa, 1 per cento azione.

Nel gruppo c’erano anche diversi fotografi militari sudvietnamiti, tra cui un operatore e fotografo di formazione che, di tanto in tanto, collaborava come freelance con la stampa locale per integrare il suo magro stipendio. Verso mezzogiorno vide cadere un razzo di segnalazione bianco sulla città e urlò ai colleghi che stava per arrivare un bombardamento aereo.
Due A-1 Skyraider sudvietnamiti sganciarono una serie di contenitori di napalm, che precipitarono come baguette lanciate dal cielo sul tempio Cao Đài, color giallo primula. Ma i bombardieri colpirono l’obiettivo sbagliato. I piloti incenerirono i propri soldati e un gruppo di donne e bambini che avevano cercato rifugio dalla guerra in quel luogo di preghiera.

Il villaggio di Trảng Bàng esplose tra le fiamme e fu inghiottito dal fumo nero. Poco dopo, il gruppo di donne e bambini, con il napalm sui vestiti che bruciava la pelle, fuggì dal tempio arroventato, attraversò un campo, imboccò l’Highway 1 in direzione sud-est e corse verso la linea di uomini — soldati dell’esercito che li aveva appena bombardati e giornalisti vestiti come militari.

Alan Downes, cameraman per Independent Television News, era in ginocchio. Disse a un collega che non riusciva a filmare ciò che stava accadendo davanti al suo obiettivo, eppure riuscì a ricomporsi e catturare quel dolore. Mise a fuoco i bambini nel suo mirino: una bambina di nove anni di nome Phan Thị Kim Phúc e altri quattro, che correvano verso la sua telecamera in movimento, urlando.

Kim Phúc, i suoi fratelli e i suoi cugini corsero oltre Downes, che si trovava insieme ad altre due troupe televisive e a un fotografo di immagini fisse — sei uomini allineati lungo un’autostrada a due corsie, intenti a riprendere i bambini mentre si avvicinavano. In una frazione di secondo, un fotografo scattò quella che sarebbe diventata una delle fotografie più celebri di tutti i tempi, spesso chiamata “Napalm Girl” o “The Terror of War”.

Fotografi e operatori sulla strada per Trảng Bàng mentre il napalm esplode sul villaggio. Foto: Nick Ut/AFP

La devastante immagine in bianco e nero — così crudele da sfidarti a distogliere lo sguardo — è diventata la rappresentazione definitiva della guerra più brutale dell’America: una bambina nuda che corre, la pelle che brucia per il napalm. La fotografia cattura, come poche altre, la violenza brutale, la disumanità e la disperazione della guerra. È il lavoro deliberato di un fotografo di talento che ha colto d’istinto ciò che aveva davanti e ha creato un’immagine decisiva, capace di rimbalzare in poche ore nella coscienza del mondo, dove vive ancora oggi, 53 anni dopo. La documentazione del dolore e della sofferenza avrebbe vinto un Premio Pulitzer, galvanizzato il movimento pacifista e trasformato un fotografo in una celebrità dall’oggi al domani. Il fotografo di guerra britannico Sir Don McCullin l’ha definita la migliore fotografia del conflitto. Susan Sontag l’ha proclamata «la foto-simbolo dell’orrore della guerra in Vietnam».

La foto è sempre stata attribuita a un fotografo vietnamita dell’Associated Press, Huỳnh Công “Nick” Út, che quel giorno si trovava sulla strada. Nel corso dei decenni, Út ha raccontato molte storie sul terribile attacco e sul suo lavoro. Ma qualche anno fa hanno cominciato a circolare, tra i miei colleghi nel mondo del fotogiornalismo, voci secondo cui Út non sarebbe l’autore di quell’immagine.

Negli ultimi due anni ho fatto parte di un team, insieme alle produttrici pluripremiate Fiona Turner (che è anche mia moglie) e Terri Lichstein (già di ABC News), per indagare le origini di quella fotografia. La nostra inchiesta è al centro di un nuovo documentario indipendente, di cui sono anche produttore esecutivo, intitolato The Stringer. Durante il nostro lavoro, diverse fonti ufficiali si sono fatte avanti per contestare i racconti di Út e dell’AP. Abbiamo inoltre incaricato un team di analisi forense di esaminare i dati, le immagini e i filmati disponibili di quel giorno. La loro conclusione: ciò che ci è stato raccontato per più di cinquant’anni su chi abbia scattato la fotografia più indelebile della guerra è improbabile che corrisponda al vero.

Chi abbia scattato la foto non ne cambia l’impatto profondo, ma modifica in parte ciò che sappiamo sulla cultura del corpo stampa di Saigon durante l’età d’oro del giornalismo di guerra. E il nostro film ha provocato turbamento e rabbia feroce tra i fotografi veterani, ancora oggi, a distanza di decenni. Già prima che The Stringer debuttasse al Sundance Film Festival, alcuni giornalisti dell’epoca del Vietnam, insieme ad amici di Nick Út, chiedevano che il film fosse ritirato — pur senza averlo mai visto. Altri hanno contattato i datori di lavoro di persone che sostengono il documentario, condannandone la posizione e minacciando di interrompere rapporti professionali per la questione.

Questa reazione viscerale potrebbe dipendere dal fatto che The Stringer indaga più a fondo della sola paternità di una fotografia. Invita a riflettere sulla potenza e la mutabilità della memoria, sul nostro desiderio collettivo di storie edificanti e di eroi senza ombre, e sul bisogno di certezze anche dove non ve ne sono. La storia riveduta mette inoltre in discussione il comportamento di colleghi che abbiamo messo su un piedistallo e le cui carriere hanno ispirato altri a seguirne le orme. E lo fa confrontandosi con una fotografia che è fondativa, così come lo è il periodo del giornalismo che rappresenta. Ciò che accade dentro l’immagine non è in discussione, ma molto di ciò che è accaduto fuori di essa sì.

Il fotografo Nick Ut. Foto: AP

Sia Út che l’AP hanno rifiutato di farsi intervistare per il film. Un avvocato di Út ha dichiarato a Rolling Stone US che il suo cliente «non aveva alcuna intenzione di aiutare Knight … partecipando agli sforzi diffamatori di Knight». L’AP afferma di aver «rifiutato di sottoscrivere un accordo di riservatezza con i registi» (in una lettera del luglio 2024, i registi avevano chiesto all’AP di «accettare un embargo» fino a «una data concordata di pubblicazione»).

Il 6 maggio, l’AP ha diffuso un rapporto di 97 pagine che rappresentava la conclusione di quella che definisce la propria indagine durata un anno sulla fotografia, comprendente l’analisi delle riprese della scena, interviste con Út e «altri presenti nell’ufficio dell’AP quel giorno», oltre a una ricostruzione in 3D dell’evento. I risultati, secondo un riassunto introduttivo: «L’AP ha concluso che è possibile che Nick Út abbia scattato la foto. Tuttavia, ciò non può essere provato in modo definitivo a causa del tempo trascorso, della morte di molti dei protagonisti coinvolti e delle limitazioni tecnologiche. Nuove scoperte emerse durante l’indagine sollevano domande senza risposta, e l’AP rimane aperta alla possibilità che Út non abbia scattato questa foto». Il riassunto prosegue: «Gli standard dell’AP stabiliscono che “un credito contestato verrebbe rimosso solo se prove definitive… dimostrassero che la persona che rivendica lo scatto non ne è l’autore“. Tutte le prove disponibili analizzate dall’AP non raggiungono tale soglia. Pertanto, la foto rimarrà attribuita a Út».

Nel giugno successivo, la fondazione olandese World Press Photo, che nel 1973 aveva premiato Út con il riconoscimento Photo of the Year per la Napalm Girl, ha diffuso un rapporto relativo a una propria indagine durata cinque mesi sulla fotografia, stabilendo che «la sua paternità non può essere stabilita in modo definitivo». Basandosi sia sui materiali di The Stringer che sul rapporto dell’AP, oltre che su proprie ricerche d’archivio e interviste, World Press ha concluso che «le prove cumulative suggeriscono fortemente che sia altamente improbabile che Nick Út sia l’autore della fotografia The Terror of War». L’organizzazione ha quindi revocato a Út l’attribuzione della foto (l’avvocato di Út afferma che World Press «non ha mai cercato alcun contributo”»da parte di Út dopo un primo contatto — un’affermazione che l’organizzazione nega — e sostiene che avessero «già deciso dall’inizio di punire Nick Út». L’avvocato cita inoltre una lettera firmata da 640 fotografi che chiedeva a World Press di annullare la decisione e ripristinare il credito a Út).

Il primo, e per un certo periodo unico, commento pubblico di Út dopo l’uscita del film è stata una dichiarazione pubblicata su Facebook nel febbraio scorso, in cui si leggeva, tra l’altro: «Ho scattato la foto di Kim Phúc. Ho scattato le altre foto di quel giorno che mostrano la sua famiglia e la devastazione causata dalla guerra. Nessun altro ha il diritto di affermare che non ho scattato quella specifica foto o qualunque altra a me attribuita, perché sono io l’autore di tutto il lavoro che ho fatto dal primo giorno». Út ha aggiunto che «questa accusa […] è uno schiaffo in faccia a tutti coloro che hanno dedicato l’intera vita, la carriera, a creare immagini autentiche, reali e veritiere in situazioni molto difficili come la guerra del Vietnam».

In una dichiarazione fornita a Rolling Stone US, l’avvocato di Út contesta le conclusioni esposte in The Stringer sulla base di diversi fattori, tra cui i resoconti di numerosi testimoni oculari presenti quel giorno che ancora credono che Út abbia scattato la foto; l’indagine dell’AP, che ha concluso che Út avrebbe potuto trovarsi nella posizione per scattarla; e i 50 anni trascorsi prima che un altro fotoreporter — che, sostiene, avrebbe una “vendetta” personale contro Út — sollevasse dubbi sulla sua origine. La dichiarazione si apre con un’affermazione semplice: «Nick Út ha scattato la famosa immagine».

Gli uomini e le donne che hanno raccontato il Vietnam come giornalisti costituivano un gruppo estremamente eterogeneo. C’erano reporter esperti che avevano coperto la Seconda Guerra Mondiale e faticavano a credere di essere stati ingannati dai funzionari statunitensi. Giovani laureati delle Ivy League come David Halberstam, Neil Sheehan e Fox Butterfield portavano il loro privilegio in prima linea. E hippy strafatti come il mio amico e mentore Tim Page e il suo compagno Sean Flynn che si facevano dare passaggi verso le zone più oscure del conflitto armati di Nikon, Leica, “stimolanti” e “sedativi.” Alcuni fotografi erano già leggendari — Philip Jones Griffiths, Don McCullin e Larry Burrows. Altri lo stavano diventando, come le reporter e fotografe di guerra che, combattendo i pregiudizi, riuscirono a emergere sulla scena, tra cui l’australiana di straordinario coraggio Kate Webb, le francesi Catherine Leroy e Françoise Demulder e le americane Elizabeth Becker e Frances FitzGerald.

I giornalisti vietnamiti operanti nelle zone di combattimento non erano laureati delle Ivy League, non includevano donne e non includevano uomini che potevano permettersi di andare in guerra sballati; avevano troppo da perdere. Raccontavano la disgregazione del proprio Paese durante il giorno e gestivano i bisogni delle loro famiglie di notte. C’erano dozzine di giornalisti vietnamiti, freelance e dipendenti, che attraversavano il Paese per ogni agenzia ed emittente. Erano onnipresenti, instancabili e straordinariamente coraggiosi. La spina dorsale del corpo stampa, molti di loro morirono e furono trascurati nel racconto della guerra. A parte Nick Út, i vietnamiti sono stati in gran parte cancellati dalla storia del giornalismo sulla loro stessa guerra.

Lo staff regolare dell’AP a Saigon all’inizio del 1972 comprendeva il capo dell’ufficio Richard Pyle, i corrispondenti americani George Esper e Mike Putzel, il capo reporter vietnamita Huỳnh Minh Trinh, oltre al photo editor Carl Robinson e ai fotogiornalisti Lê Ngọc Cung, Đặng Văn Phước e Út. L’offensiva del 1972 era stata disastrosa per l’AP, regolarmente battuta dal suo principale rivale, United Press International. Con quattro Pulitzer vinti in Vietnam dal 1963, l’AP non era abituata a essere la seconda scelta. Questo potrebbe spiegare perché i dirigenti dell’AP inviarono più personale, inclusi Peter Arnett, Mort Rosenblum, Yuichi “Jackson” Ishizaki e il leggendario fotografo e capo regionale della fotografia Horst Faas. Compito di Faas: battere l’UPI riportandola al secondo posto e conquistare la copertura fotografica.

Faas era nato nel 1933. Bambino della Germania nazista, visse a Berlino e, secondo il suo racconto, fu membro della Gioventù hitleriana durante la Seconda Guerra Mondiale. Una volta mi disse che la sua trincea era stata invasa dai russi, che uccisero o giustiziarono tutti intorno a lui, e che fu salvato da un sergente russo che gli disse di tornare a casa dalla madre. Trascorse gli anni successivi vivendo in una società postbellica divisa e impoverita. Il fotogiornalismo gli offrì una via di fuga, e lui la colse. Faas aveva un’aura colossale in Vietnam — falstaffiana, alimentata da buon vino e cibo raffinato, capace di intrattenere per ore con il suo grande senso dell’umorismo. Poteva essere distante, brusco e intimidatorio, ma era anche capace di grande generosità, lealtà e compassione. Coprì la guerra del Vietnam per 12 anni, risultando determinante per quattro dei cinque Pulitzer che l’AP avrebbe poi vinto per il conflitto e contribuendo a creare quella che divenne una mitica sede giornalistica. Se la guerra in Vietnam rappresentò l’apice del giornalismo di guerra, e l’AP ebbe un ruolo leggendario in quel conflitto, gran parte del merito fu di Faas.

Ho incontrato Faas a Londra nei primi anni Novanta, quando ero un giovane fotografo impegnato nella guerra in Bosnia. Allora aveva sessant’anni e si era addolcito, ma aveva una presenza reale. Era capo di AP Photos per Europa, Africa e Medio Oriente, e vicino alla pensione. I giovani fotografi che avevano lavorato con lui durante le guerre balcaniche provavano ammirazione e rispetto. Era un uomo di azienda: amava l’AP, e l’AP veniva prima — ma se lavoravi sodo e consegnavi buoni risultati, ti supportava sul campo. A quel tempo indossava abiti da lavoro, si concedeva lunghi pranzi alcolici all’El Vino su Fleet Street, andava in ufficio con la sua bici Brompton e si godeva il ruolo di anziano rispettato.

Faas, Tim Page e io lavorammo insieme per formare giovani fotografi in Vietnam nei primi anni 2000. Si percepiva che Faas amava restituire agli altri, ed era un grande insegnante, diretto e conciso. Il suo impegno verso il Vietnam fino alla fine della sua vita fu tanto inequivocabile quanto il suo impegno per il giornalismo e per l’AP.

Alcuni membri dell’ufficio di Saigon della AP brindano alla Vittori del Pulitzer Prize da parte di Ut. Un fotografo vietnamita del posto ricorda di aver provato «shock e rabbia» all’annuncio della notizia. Foto: AP

Negli anni successivi alla guerra, Nick Út acquisì una sorta di celebrità globale rara per un fotografo. All’epoca non avevo mai incontrato Út, ma ero a conoscenza dei premi e del riconoscimento internazionale che stava ricevendo. Per Napalm Girl era stato celebrato con un Pulitzer, il World Press Photo of the Year, il premio dell’Overseas Press Club of America, il George Polk Award e, più tardi, la National Medal of Arts degli Stati Uniti. Incontrò capi di Stato, il Papa e la Regina d’Inghilterra. L’AP lo inviò a Tokyo e poi a Los Angeles, dove lavorò per i successivi 40 anni. Mi sembrava un degno ambasciatore del fotogiornalismo mentre viaggiava per il mondo con Kim Phúc, ambasciatrice delle Nazioni Unite e sostenitrice della pace. Ora, in pensione, continua a viaggiare per il mondo tenendo discorsi e presentazioni.

All’inizio di novembre 2022, mi fu chiesto di tenere un workshop ad Hanoi la primavera successiva con Nick Út e il leggendario fotografo di guerra James Nachtwey, in memoria di Tim Page, recentemente scomparso. Non ci volle molto per decidere di partire. Il Vietnam è la terra da cui provengono i miei figli e ha un significato speciale per la mia famiglia. Ero desideroso di riconnettermi con il mio vecchio amico James, che non vedevo da tempo, di incontrare per la prima volta Nick e di fare qualcosa per i giovani fotografi vietnamiti in memoria del mio vecchio mentore Tim.

Ma prima di partire per il Vietnam, il 23 dicembre, ero a casa mia in Massachusetts quando, per caso, controllai la cartella della posta indesiderata. Aprii un messaggio che era rimasto lì per quasi un mese.

Caro Gary:
Tramite Mort Rosenblum, qualche tempo fa, mi chiedevo se potessimo discutere della foto
Napalm Girl e della sua provenienza. Potrei essere d’aiuto — e viceversa.
Cordiali saluti,
Carl Robinson

Carl Robinson era stato il photo editor dell’AP in Vietnam nel giugno del 1972. Aveva digitato la didascalia sulla stampa di Kim Phúc trasmessa da Saigon l’8 giugno. Robinson si riferiva a informazioni di cui io e un amico comune, l’ex capo dell’ufficio AP Mort Rosenblum, avevamo discusso in un altro precedente incarico didattico in Vietnam. Robinson era in Vietnam all’epoca e ricorda di aver visitato il workshop e parlato con Mort. La mia memoria di quegli incontri è incompleta, ma ricordo che Mort mi disse che il photo editor dell’AP a Saigon nel giugno 1972 gli aveva recentemente detto che Út non aveva scattato la fotografia conosciuta come Napalm Girl. Mort e io continuammo a parlarne negli anni successivi, ma tutti noi passammo oltre; i pettegolezzi non sono rari nel nostro campo.

Risposi all’email di Robinson chiedendo contesto. Un lungo messaggio di follow-up menzionava Faas, Út, i fotografi dell’esercito sudvietnamita (ARVN) e Peter Arnett, giornalista dell’AP che aveva vinto il Pulitzer per il reportage internazionale nel 1966 per il suo lavoro in Vietnam. Il dettaglio fornito da Robinson era straordinario:

Avamo diversi rulli di pellicola in bianco e nero dell’incidente, quelli di Nick Út e quelli di tre freelance vietnamiti, spesso fotografi ufficiali dell’ARVN, che guadagnavano soldi extra.

Come al solito, secondo il sistema di Horst, ogni rullo veniva meticolosamente registrato con un doppio set di numeri adesivi: il primo accanto al nome del fotografo in un quaderno scolastico, il secondo sul rullo di pellicola per lo sviluppo in camera oscura.

Le due foto che Jackson aveva già scelto e stampato si concentravano sulla ragazza — una frontale che correva verso la macchina fotografica, e [un’altra] di lato mentre correva […] Entrambi esitammo.

L’AP aveva una prassi — non una politica ufficiale — riguardo alla nudità, anche di ragazzi e ragazze. […] Bene, allora la foto di lato. Discreta ma comunque drammatica, concordammo Jackson e io. Mentre preparavo la didascalia per la trasmissione radio-foto a onde corte verso Tokyo, ricontrollai le strisce di negativi e i numeri per la firma sulla foto scelta. La foto di lato era di Nick Út, quella frontale di un fotografo freelance.

Poi Horst Faas rientrò nell’ufficio foto dal suo lungo pranzo al Le Royal con il suo collega di lunga data Peter Arnett, anch’egli tornato a Saigon per l’Offensiva di Pasqua. Horst guardò cosa stavamo facendo Jackson e io. Come feci notare, non potevamo davvero mostrare [la nudità della ragazza], che sembrava persino mostrare peli pubici.

Puntando direttamente a quella foto, Horst ordinò: «No, useremo questa». Controllò il negativo, ordinò un ritaglio più stretto e rimandò Jackson in camera oscura per una nuova stampa.

…Cominciai a digitare la didascalia sulla nostra enorme macchina da scrivere Underwood. SAI, per Saigon, un trattino e poi un numero; la dateline; la data dell’8 giugno; e tre righe concise sulla foto. Horst si aggirava sopra la mia spalla destra mentre digitavo.

Di solito, alla fine di ogni didascalia radio-foto compariva la firma del fotografo con un “stf/nome” per uno Staffer o “str/nome” per uno Stringer, o freelance. Ed è allora che Faas si avvicinò al mio orecchio e ordinò di mettere il nome di Nick Út sulla foto — e io lo feci. Non obiettai.

Horst Faas (a sinistra) e Carl Robinson (a destra). Foto: AP

Leggendo la seconda email di Robinson, capii che se quanto diceva fosse vero, se il nome su questa foto fosse stato cambiato deliberatamente, si trattava di una questione di enorme importanza. La fiducia del pubblico è fondamentale per il valore del giornalismo, e se la stampa vuole tenere la società sotto controllo, deve cominciare da se stessa (l’avvocato di Út condanna il «ritardo di oltre 50 anni» con cui Robinson ha reso pubblica la sua affermazione, accusandolo di «aver aspettato intenzionalmente» fino a quando Faas e altri «testimoni-chiave erano deceduti». Allegano inoltre che Robinson nutre «un chiaro astio verso Nick Út e l’AP, come emerge dal suo libro e da altre corrispondenze»).

Questa volta non potevo lasciare andare i miei dubbi. Era necessaria un’ulteriore verifica. Era importante: se Út non aveva scattato la fotografia, chi l’aveva fatto? Con Fiona Turner e Terri Lichstein intrapresi un’intensa indagine preliminare. Leggemmo ogni libro e saggio disponibile sull’argomento, esaminammo tutte le fotografie e i filmati reperibili, e parlai con quanti più testimoni oculari riuscimmo a rintracciare, tra cui David Burnett, allora giovane fotografo in missione per il New York Times, e Mort Rosenblum. Volevamo raccogliere quante più informazioni possibile prima di partire per il Vietnam, dove speravo di tenere il workshop e intervistare — e forse mettere in discussione — Robinson.

Nel marzo 2023, arrivai ad Hanoi con James Nachtwey e Nick Út. Fu un momento imbarazzante; pensai di parlare con Út delle accuse, ma fino a quando non avessi intervistato Robinson e determinato se ciò che diceva fosse credibile, sarebbe stato prematuro affrontarlo. Avrei soltanto ripetuto un pettegolezzo. La settimana seguente volai a Ho Chi Minh City per incontrare Turner e Lichstein e per intervistare Robinson, che a quel punto aveva quasi 80 anni.

Anni prima, Robinson aveva creato un Google Group, Vietnam Old Hacks, un forum online per veterani reporter della guerra del Vietnam con decine di membri; le sue affermazioni secondo cui Út non aveva scattato la foto, fino ad allora condivise solo tra piccoli gruppi di colleghi, emersero di nuovo lì. Chi si chiede perché Robinson abbia impiegato così tanto tempo a farsi avanti, e perché altri siano stati così riluttanti a parlare, potrebbe trovare alcune risposte in quelle pagine. L’ex corrispondente di Newsweek Paul Brinkley-Rogers reagì all’affermazione di Robinson paragonandolo a «un serpente che sibila nel buio». Il giornalista Barry Fox rispose con una specie di provocazione: «Alan Downes, il cameraman ITN che era lì e ha girato il filmato della storia della Napalm Girl, ha negato che Út fosse presente. Downes me lo disse poco dopo che Út aveva vinto il premio. Era piuttosto confuso».

Peter Arnett — che non era sul percorso a Trảng Bàng né in redazione quando il filmato veniva sviluppato in camera oscura — aveva cercato di scoraggiare Robinson nel 2009, scrivendo: «Devi essere consapevole che l’AP, con tutte le sue risorse, Horst e i suoi molti amici, insieme a Nick Út e ai suoi collaboratori vietnamiti, e tutti quei membri dello staff AP orgogliosi del loro servizio in Vietnam, faranno tutto il possibile per screditarti e mettere in discussione tutte le tue affermazioni» (AP dice a Rolling Stone US: «È chiaro, dal tempo e dalle risorse che l’AP ha dedicato all’indagine su questa affermazione, che abbiamo preso estremamente sul serio la questione dell’autore di questa immagine»).

Downes era un rispettato cameraman per ITN da decenni. I suoi drammatici filmati da Trảng Bàng avevano accresciuto la sua reputazione. Ma Downes era morto nel 1996 e non poteva confermare per noi il suo sconcerto. La presenza di Út è oltre ogni dubbio; lo vediamo in fotografie e filmati di quel giorno, e sappiamo che ha scattato molte foto mentre era lì. Ma sepolto nei filmati di Downes c’era un elemento di prova che è rimasto nascosto in bella vista per 50 anni.

Downes aveva filmato molti dei giornalisti presenti sulla scena della fotografia (chi non compare nei suoi filmati è nelle fotografie scattate quel giorno). In particolare, Downes era uno dei sei uomini del gruppo di cronisti più vicini ai civili in fuga, tutti intenti a riprendere Kim Phúc e gli altri bambini mentre correvano verso di loro.

Kim Phúc ha scritto con forza delle sue esperienze, e chiarisce di credere che Út abbia scattato la foto, dichiarando che uno dei suoi zii e altri giornalisti e testimoni oculari glielo hanno confermato. In una dichiarazione rilasciata a gennaio, ha detto, in parte: «Nick ha scattato l’immagine e merita il riconoscimento che ha ricevuto. È un uomo buono che merita pienamente rispetto, dignità e gentilezza. Sono così grata che non fosse solo un fotografo. È il mio eroe per aver messo giù la sua macchina fotografica […] e avermi salvato la vita».

Ha anche notato di non avere alcun ricordo di chi abbia scattato la famosa fotografia. Nella sua autobiografia, Fire Road, scrive: «La somma di ciò che so di quel giorno e dei giorni successivi la devo allo zio Út. I suoi ricordi sono diventati i miei ricordi». È un’affermazione toccante, non solo per quello che mostra della profondità del suo trauma, ma anche per la gentilezza e generosità che sente di aver ricevuto da Út.

Abbiamo iniziato a compilare un elenco dei testimoni oculari sopravvissuti a quel momento, tra cui Út; Hoàng Văn Danh, freelance che inviava foto a UPI; Fox Butterfield del New York Times; Donald Kirk del Chicago Tribune; David Burnett; Trần Văn Thân, tecnico del suono per NBC; Christopher Wain, corrispondente TV per ITN che lavorava con Downes; e un uomo con camicia bianca, pantaloni neri e gilet nero, al quale ci era stato detto che rispondeva al nome di Nghệ.

Sebbene Út abbia rifiutato più volte di parlare con me, è stato intervistato molte volte sugli eventi di quel giorno, e la sua versione è ampiamente disponibile. Anche se la sua storia è stata accettata come fatto, ha raccontato leggere variazioni, arricchendo alcuni dettagli nel tempo. In una narrazione più recente — un articolo d’opinione scritto per The Washington Post nel giugno 2022 — Út offre questa descrizione:

Quando le bombe esplosero, non sapevamo se qualcuno fosse rimasto ferito. Per tutta la mattina, il villaggio sembrava vuoto. Ma molte persone si nascondevano all’interno del tempio del villaggio.

Quando ci siamo avvicinati, abbiamo visto persone fuggire dal napalm. Sono rimasto orripilato quando ho visto una donna con la gamba sinistra gravemente ustionata. Riesco ancora a vedere vividamente l’anziana donna che portava in braccio un bambino morto davanti alla mia macchina da presa e un’altra donna che trasportava un bimbo piccolo con la pelle che si staccava.

Poi ho sentito un bambino urlare: «Nong qua! Nong qua!» Troppo caldo! Troppo caldo! Ho guardato attraverso il mirino della mia Leica e ho visto una giovane ragazza che si era tolta i vestiti in fiamme e correva verso di me. Ho iniziato a scattarle foto.

Poi ha gridato a suo fratello che pensava di morire e voleva un po’ d’acqua. Ho immediatamente posato le macchine fotografiche per poterla aiutare. Sapevo che era più importante che fare altre foto. Le ho preso la borraccia per farla bere e ho versato acqua sul suo corpo per rinfrescarla, ma le ha provocato più dolore. Non sapevo che quando le persone sono gravemente ustionate, non si deve mettere acqua su di loro.

Un problema con la versione di Út riguarda la macchina fotografica. Ha raccontato frequentemente di aver usato una Leica M2 di riserva per realizzare questo scatto decisivo. Ma l’indagine dell’AP ha stabilito che la macchina usata per la fotografia era “improbabile” che fosse una Leica, e in particolare non la macchina che Út aveva donato allo Science Museum di Londra, dove era esposta come quella che aveva scattato la famosa foto. Marche diverse di macchine fotografiche producono negativi leggermente diversi nelle dimensioni, e dall’esame delle dimensioni del negativo, l’AP ha determinato che Napalm Girl è stata “probabilmente” realizzata con una Pentax. Una Pentax e una Leica M2 si somigliano poco tra loro e, per un fotografo professionista, sarebbe difficile confonderle.

L’avvocato di Út ha raccontato a Rolling Stone US che Út ha ereditato due macchine Pentax da suo fratello, fotografo ucciso in missione per AP, e che «portava [una delle due] ogni giorno come un talismano». Continua: «Nick Út ha spiegato che il giorno in cui è stata scattata la foto, Horst Faas lo ha elogiato dicendogli che era una grande foto con la Leica. All’epoca Nick aveva 21 anni e ascoltava certamente il suo capo e mentore. Sapeva che Horst era un sostenitore della Leica e accettò la sua affermazione. Nick ha usato più macchine fotografiche quel giorno e ha consegnato otto rulli. Non poteva assolutamente sapere, nel caos di quel giorno, quale rullo provenisse da quale macchina».

Come Faas avrebbe potuto distinguere a occhio nudo un negativo Leica da un negativo Pentax è difficile da immaginare; sono quasi indistinguibili, salvo una differenza di frazioni di millimetro nelle dimensioni.

Út aiuta Kim Phúc, bruciata. Foto: Bettmann Archive/Getty Images

Un’altra complicazione nella versione di Út riguarda la sequenza temporale. In passato, ha sostenuto di aver fotografato l’anziana donna e, attraverso il mirino, di aver visto Kim Phúc correre lungo la strada. Tuttavia, l’esame delle fotografie e dei filmati del giorno indica che Kim Phúc uscì dal villaggio prima dell’anziana donna e fuggì subito dopo l’impatto del napalm. Mentre Kim Phúc corre verso la macchina fotografica, il fumo del combustibile in fiamme è ancora così nero che non si riesce nemmeno a vedere il tempio Cao Đài. Quando l’anziana donna scende lungo la strada portando il bambino, il vento — che i rapporti meteorologici storici indicano essere stato più forte subito dopo il bombardamento — aveva disperso la maggior parte del fumo e il tempio era diventato visibile. Nei filmati di ITN, vediamo che Kim Phúc e gli altri bambini hanno superato la macchina fotografica molto prima che l’anziana donna entrasse nell’inquadratura. Le fotografie di Út dell’anziana donna sembrano essere state scattate dopo che Kim Phúc aveva già corso lungo la strada, non prima.

L’avvocato di Út ha detto a Rolling Stone US: «Vedendo tutti i filmati e le altre immagini che ora sono stati mostrati a Nick, lui è convinto di essersi confuso riguardo alla sequenza degli eventi caotici che si sono svolti quel giorno». Essere confusi in combattimento è comprensibile; capita a molti di noi, e potrebbe suggerire che questo non sia l’unico dettaglio importante su cui Út potrebbe essersi confuso.

Nei filmati e nelle fotografie scattate quel giorno, Út è visibile con il suo caratteristico elmetto con linguetta sporgente, giubbotto antiproiettile con “AP” scritto sul retro, maniche corte, borsa per la macchina fotografica, poncho e orologio. Burnett ha spesso ricordato come il suo amico Út abbia scattato la foto mentre lui, Burnett, l’aveva persa perché stava riavvolgendo il rullino. Ha detto di ricordare di aver visto Út correre lungo la strada con il corrispondente di Newsweek, Alex Shimkin. Burnett ha ripetutamente affermato di non aver visto chi abbia scattato la fotografia, ma è convinto che l’abbia fatto Út, dicendo che, a sua memoria, Út era l’unica persona nella posizione giusta per ottenere lo scatto.

Butterfield, che sostiene anch’egli che Út abbia scattato la foto, ci ha detto nell’agosto 2024: «Kim Phúc è uscita dal fumo piangendo e in fiamme. Era molto potente. Non sono sicuro di chi altro fosse lì. Non prestavo attenzione a [Út], non lo conoscevo allora. Mi muovevo continuamente, perché la scena si muoveva, e non sapevamo cosa sarebbe successo dopo».

Sotto pressione, né Burnett né Butterfield sono in grado di dire di aver effettivamente visto Út scattare la foto, e nessun altro si è fatto avanti per affermare con certezza di averlo visto farlo. Burnett ha indicato un fotografo solitario che si vede oltre il filo spinato all’inizio della sequenza come Út, il che potrebbe far pensare che Út fosse nel posto giusto al momento giusto. Ma non è Út; riteniamo che sia un fotografo militare, successivamente identificato dall’AP come Huỳnh Công Phúc (sia AP sia World Press, nelle rispettive indagini, hanno concluso, basandosi sui filmati disponibili, che Huỳnh Công Phúc avrebbe potuto plausibilmente trovarsi nell’area giusta per scattare la fotografia Napalm Girl, sebbene nessuno abbia finora affermato di averlo fatto. Huỳnh Công Phúc è morto nel 2009). Il fotografo militare porta una borsa e indossa mimetica, non l’olive-green militare statunitense che Út indossava; non portava un giubbotto antiproiettile come Út e non somiglia alla persona che Út ha identificato come se stesso quel giorno anni dopo sul suo feed Instagram.

Inoltre, la foto del fotografo solitario oltre il filo è attribuita a Út negli archivi AP, il che esclude che Út possa trovarsi in quella fotografia. Sappiamo che le troupe TV e il fotografo che hanno realizzato le immagini di Kim Phúc si sono tutti spostati oltre il filo spinato. In una foto interessante, vediamo un fotografo con camicia bianca e gilet nero fotografare i bambini mentre corrono davanti alle troupe TV, collocandolo in una posizione ideale per aver scattato la fotografia pochi istanti prima.

Come trovare qualcuno forse chiamato Nghệ con nient’altro che una foto di 50 anni fa di una piccola figura il cui volto è parzialmente nascosto da una macchina fotografica? Non eravamo nemmeno sicuri del nome, che era stato dato alla moglie di Carl Robinson da un fotografo AP vietnamita che affermava appartenere alla persona che aveva realmente scattato la foto.

Robinson, sua moglie Kim-Dung, Terri Lichstein e la giornalista vietnamita che abbiamo assunto per lavorare con noi, Lê Vân, hanno avuto l’idea di ingaggiare un blogger locale di rilievo, con un’ampia rete su Facebook sia in Vietnam sia nella diaspora, per trovare Nghệ. Nel marzo 2023, abbiamo concordato un compenso di 1.000 dollari, e il blogger, Nguyễn Ngọc Vinh, ha pubblicato la foto insieme a un messaggio chiedendo a chiunque pensasse di conoscere l’uomo con camicia bianca, pantaloni scuri e gilet scuro — che poteva chiamarsi Nghệ — di contattarlo.

Tre giorni dopo, ha risposto un tecnico del cinema in pensione di Los Angeles, Chinh Dao. L’uomo nella foto era il suo amico Nguyễn Thành Nghệ. Chinh e suo fratello Thang avevano incontrato Nghệ alla fine degli anni Ottanta e avevano lavorato con lui presso FotoKem a L.A., stampando film per studi di Hollywood, dove Nghệ aveva trascorso gran parte della sua vita postbellica costruendosi una carriera per mantenere la sua famiglia in California. Chinh ci ha poi detto: «Spero, spero che questa storia venga fuori presto. Il mio amico Mr. Nghệ ha aspettato tutta la vita».

Chinh ha inviato un messaggio a suo fratello a Los Angeles, che ha chiamato Nghệ subito. «Davvero, alcune persone mi stanno cercando?», ha detto Nghệ, secondo Thang. Poi, racconta Lê Vân, Nghệ, che era in vacanza nel Delta del Mekong, ha chiamato il blogger: «Sono io quello che cercate».

Nghệ aveva allora 85 anni. In un’intervista il giorno seguente, Lê Vân lo ha trovato lucido ma fragile. La storia che ha ascoltato da lui sembrava confermare e aggiungere dettagli a quella di Robinson. Quando gli è stato chiesto quali foto avesse scattato l’8 giugno 1972, ha detto: «Quella con la bambina nuda i cui vestiti erano bruciati». Lê Vân gli ha chiesto: «Quella che vinse poi il Pulitzer?», «sì», ha risposto. Quando è tornata a casa a Ho Chi Minh City, Lê Vân racconta di essersi messa a piangere e poi di averci chiamato.

Abbiamo intensificato i nostri sforzi per ricostruire la narrazione dell’8 giugno 1972. Poi, inevitabilmente, le cose hanno cominciato a complicarsi. Il blogger che avevamo ingaggiato ha capito l’impatto di ciò che avevamo scoperto e ha minacciato di pubblicare la storia di Nghệ in vietnamita su Facebook a meno che non gli dessimo 10.000 dollari. Non lo abbiamo fatto, e lui ha pubblicato quello che aveva. Mentre la stampa estera non se n’è accorta, Nick Út sì, e ha subito pubblicato una foto di sé stesso a Trảng Bàng sulla sua pagina Instagram. Út è poi apparso su Bolsa TV — un’organizzazione mediatica di lingua vietnamita con sede negli Stati Uniti — per difendersi. Separatamente, ha anche proclamato che l’AP avrebbe fatto causa a chiunque avesse messo in dubbio la sua paternità della foto. Poco dopo, la rete di corrispondenti veterani del Vietnam con cui stavamo parlando si è chiusa a riccio. Presto, la situazione è diventata tesa mentre amici e colleghi di Faas attaccavano la credibilità di Robinson.

Nel suo intervento su Bolsa TV, Út ha definito Nghệ un autista per NBC, ma non era né un autista assunto né aveva un lavoro per NBC. Nghệ lavorava da freelance e aveva l’accreditamento NBC. Come molti fotografi in guerra prima e dopo, aveva bisogno di accreditamento per accedere alle zone di combattimento se lavorava come freelance; all’epoca, le redazioni spesso li concedevano in cambio di un primo sguardo sul materiale. Nghệ afferma di essere andato a Trảng Bàng quel giorno e di aver preso Út come passeggero sul sedile posteriore, poi di essere tornato direttamente a Saigon al termine del lavoro, sempre con Út sul sedile posteriore. Questo può spiegare perché Út lo definisca autista.

Nguyễn Thành Nghệ mentre racconta la scena avvenuta sulla strada per Trảng Bàng. Foto: Lê Vân

Come presto è emerso dalle nostre indagini, Nghệ era molto più di un semplice autista. Mettendo insieme le informazioni fornite da lui, dai suoi figli e dai registri del Dipartimento della Difesa statunitense, abbiamo ricostruito un quadro della sua vita e della sua dedizione all’arte della fotografia.

Nato da una relazione extraconiugale del padre, Nghệ è stato cresciuto da una famiglia surrogata che riceveva denaro dal genitore. Intorno ai 18 anni lasciò casa per studiare cinematografia al college e, verso la fine degli anni Cinquanta, iniziò a lavorare come cameraman e fotografo per l’esercito sudvietnamita. Nel 1961 ricevette formazione sulle comunicazioni presso l’esercito statunitense in New Jersey, per poi tornare in Vietnam. Più avanti nella guerra, grazie a quella formazione, fu distaccato, o sostanzialmente “prestato”, dall’esercito sudvietnamita al programma CIA PsyOps, trasmettendo messaggi alle forze nordvietnamite per “Mother Vietnam”, un’unità di propaganda della CIA.

Nel 1970, Nghệ era diventato un sergente capo e un fotografo di guerra esperto. Mentre i colleghi civili indossavano uniformi da combattimento su misura, lui a volte usciva dall’ufficio in abiti civili per fotografare la guerra e guadagnare soldi extra vendendo le foto ai giornali locali per mantenere i suoi tre figli. Racconta di aver usato una Pentax Spotmatic — il tipo di macchina fotografica che l’ampia indagine AP suggerisce sia stata usata per scattare la foto — caricata con pellicola Kodak Tri-X in bianco e nero e un obiettivo da 50mm. Ci dice anche di aver utilizzato una cinepresa Bolex, così da poter raddoppiare il materiale e venderlo alle emittenti TV.

L’8 giugno 1972 fu la prima e ultima volta che Nghệ dice di aver venduto foto all’AP.

Fu il cognato di Nghệ, il tecnico del suono NBC Trần Văn Thân, a raccontare di essere andato con lui a vendere le foto all’AP. Thân faceva parte del primo gruppo di sei giornalisti più vicini al tempio Cao Đài, che stavano filmando Kim Phúc e gli altri bambini mentre correvano verso di loro.

Thân fu una delle ultime persone che riuscimmo a rintracciare e intervistare. Riassunse il materiale delle nostre due interviste, svoltesi nel novembre 2023 e nel maggio 2024, in una lettera che mi inviò poco dopo, descrivendo gli eventi lungo la strada: «Mentre stavamo filmando», scrisse, «Nguyễn Thành Nghệ stava alla mia sinistra e scattò una foto della bambina bruciata. Dopo aver finito, dissi a Nguyễn Thành Nghệ: “Oggi non c’erano giornalisti delle agenzie UPI e AP qui. Dammi la pellicola; ti aiuterò a venderla all’AP”».

Thân ci ha spiegato che «l’ufficio della NBC News e quello dell’agenzia AP [erano] separati solo da un muro, quindi ci conoscevamo molto bene». Thân racconta di essere andato con Nghệ a vendere le sue foto all’AP e si dice certo del ruolo di Horst Faas in ciò che seguì: «Ha selezionato la foto della bambina bruciata e mi ha restituito tutti gli altri rulli di pellicola, dandomi 20 dollari per la foto che aveva scelto. Insieme c’era una [stampa] della bambina bruciata. Ho consegnato tutto a Nghệ».

Thân descrive la «sorpresa, lo shock e la rabbia» che lui e i colleghi vietnamiti provarono quando, pochi mesi dopo, la foto della bambina bruciata vinse un premio internazionale per Út. Thân dice che all’epoca non osò pronunciare una parola sul raggiro. I direttori di AP e NBC News erano, spiega, molto vicini. «Dovevo restare in silenzio; altrimenti avrei potuto perdere il lavoro e la mia fonte di reddito», ci ha detto, con una voce insieme supplichevole e pacata. «Come avrei mantenuto la mia famiglia?».

Uno dei motivi per cui Arnett, Burnett, Butterfield e altri sono convinti che Út abbia scattato la fotografia potrebbe essere che, secondo i loro racconti, Faas lo avrebbe detto loro. Nessuno di loro ha mai affermato di aver visto con certezza chi abbia premuto il pulsante di scatto. Nei libri e nelle interviste, hanno raccontato di aver sentito Faas congratularsi con Út nell’ufficio AP. Burnett e Arnett potrebbero averlo testimoniato, ma se si deve credere al racconto dello stesso Faas, sarebbero arrivati troppo tardi per vedere il film consegnato all’ufficio AP e sviluppato, e nessuno dei due afferma di aver visto la didascalia digitata. Hanno soltanto la parola di Faas.

Carl Robinson non è vicino ai più convinti sostenitori di Út, ed è qualcosa come un outsider tra i giornalisti espatriati che coprirono la guerra, ma questo non lo squalifica come testimone credibile. Né il suo uso autocertificato di droghe, citato da molti sostenitori di Út per screditarlo, lo fa (se l’uso ricreativo di droghe nei primi anni Settanta in Vietnam lo rendesse inaffidabile, cosa dire del resto del corpo di stampa?). Ciò che è certo è che la verità non può essere stabilita solo da ciò che avvenne nell’ufficio AP; deve provenire, in ultima analisi, dalla strada verso Trảng Bàng.

Fortunatamente, quella strada è costellata di prove sotto forma di fotografie e filmati.

Riconoscendo la distanza temporale tra ciò che accadde in un piccolo villaggio in Vietnam nel 1972 e oggi, e comprendendo che ci sono così tanti racconti contrastanti di Út, Faas, Nghệ, Thân e altri testimoni oculari, il nostro team ha coinvolto la ONG francese Index Investigation, una delle principali società indipendenti di indagini forensi al mondo, per esaminare tutti i dati e le prove raccolte. Basandosi su una revisione accurata della documentazione disponibile — comprese le fotografie scattate quel giorno, immagini aeree, immagini satellitari statunitensi di Trảng Bàng del 1972, registrazioni video e informazioni sull’altezza, abbigliamento ed equipaggiamento dei giornalisti presenti — la società ha creato un modello 3D in cui tutti i soggetti rilevanti sono stati posizionati lungo l’asse della strada di Trảng Bàng. I loro movimenti sono stati ricostruiti in ordine cronologico.

Il rapporto di Index fa riferimento a una tecnica di “frame-matching” che ha permesso di posizionare con precisione le varie persone presenti sulla strada quel giorno in momenti diversi. Sono state utilizzate immagini fisse e filmati che mostrano Nghệ con la sua camicia bianca e il gilet scuro, le troupe televisive con le loro attrezzature video e audio, il giornalista alto di ITN Christopher Wain, Út con il suo casco distintivo con la linguetta, il giubbotto antiproiettile AP, le maniche corte, la borsa fotografica sporgente sull’anca sinistra, il poncho e l’orologio, e la scena è stata ricostruita. Inizialmente Index concluse che pochi secondi dopo lo scatto, Út si trovava a circa 200 piedi dal punto della foto; dopo il rapporto AP, che introdusse nuove informazioni, Index ha rivisto la stima della distanza a circa 75 metri o 250 piedi.

Francesco Sebregondi di Index dichiara: «La presenza di Nick Út in quel preciso momento nel filmato ITN rende altamente improbabile che possa aver scattato la fotografia Napalm Girl. Infatti, per scattarla e apparire in quell’inquadratura del filmato ITN camminando verso la scena, avrebbe dovuto coprire una distanza di circa 75 metri in pochi secondi, e farlo al di fuori dell’inquadratura della telecamera ITN».

«Questo sembra molto improbabile», continua Sebregondi, «ed editorialmente non avrebbe senso che volesse allontanarsi dall’azione. Possiamo concludere che è altamente improbabile che Nick Út abbia scattato la fotografia Napalm Girl». L’avvocato di Út respinge le conclusioni di Index come «scienza spazzatura», citando l’analisi AP, che sostiene che la distanza percorsa da Út sarebbe stata inferiore a 75 metri (l’indagine AP contesta alcuni elementi del rapporto di Index, ma le conclusioni principali sono state confermate dall’indagine di World Press Photo).

La prima foto dell’analisi. I bambini hannoappena superato il punto in cui è stata scattata la fotografia. Foto: Bettmann Archive/Getty Images

La ricostruzione del punto di vista del cameraman Alan Downes. Nich Út sarebbe in lontananza. Foto: Index Investigation/’The Stringer’

La ricostruzione di come Út si sarebbe avvicinato alla scena. Il gruppo in lontananza indicherebbe il punto in cui la foto sarebbe stata scattata. Ma qui, la bambina protagonista sarebbe già sul lato, per ricevere aiuti. Foto: Index Investigations/’The Stringer’

Secondo le ricostruzioni di Index, Út avrebbe dovuto percorrere 75 metri in pochissimi secondi per riuscire a scattare una foto da questa posizione. Foto: Nick Út/AP

Il giornalismo credibile si basa su autori credibili, editor credibili e organizzazioni giornalistiche credibili. Se, come suggeriscono le nostre indagini e le analisi forensi di Index, Nick Út non ha scattato la fotografia, perché non avrebbe detto nulla? Út non ha voluto parlare con il team di filmmaking, quindi non abbiamo potuto interrogarlo. Ma una teoria riguarda il potere e l’autorità di Horst Faas. Se Carl Robinson, un editor affermato e connazionale americano, non si sentiva sufficientemente sicuro da sfidare Faas, perché lo avrebbe fatto il giovane fotografo vietnamita Út, la persona più junior in ufficio? Robinson sostiene di aver cambiato la didascalia esclusivamente su richiesta di Faas, suggerendo che Út non avesse alcuna voce in capitolo e non fosse mai stato consultato sulla questione.

Come hanno potuto i capi AP a New York permettere che accadesse un’offesa così grave? L’agenzia si definisce orgogliosamente “la fonte più affidabile di notizie rapide, accurate e imparziali.” All’epoca, la sede AP non avrebbe potuto sapere chi aveva scattato la foto, e avrebbe fatto affidamento sulle persone sul campo, come avrebbero fatto altre organizzazioni giornalistiche. Secondo un post di Peter Arnett del novembre 2015 su Vietnam Old Hacks, gli editor senior AP contemporanei avevano già sentito le voci riguardo a questa foto e le avevano scartate (Arnett non ha risposto alla richiesta di intervista dei filmmaker, e AP afferma che «non ci sono state contestazioni serie sull’autore di questa foto fino ad oggi»).

E come avrebbe potuto Faas compiere consapevolmente un tale inganno? Questa è la domanda che, a mio avviso, merita il massimo scrutinio. Faas scrive di essere tornato dal pranzo con Arnett quando vide per la prima volta la foto. Ha anche scritto di essere tornato da un incarico. La memoria può giocare brutti scherzi a tutti noi, ma il suo racconto del momento in cui vide la foto per la prima volta non cambia: «Quando tornai in ufficio», scrisse, «diedi un’occhiata ai filmati elaborati da altri, non per mancanza di fiducia, ma perché pensavo che un secondo sguardo fosse spesso utile. E lì, senza dubbio, la migliore foto era quella che era stata scartata. Richard Pyle, allora caporedattore, ricorda che dissi: “Penso che abbiamo il prossimo Pulitzer!”… Il filmato fu sviluppato da uno degli editor. Non selezionò questa foto perché la bambina era nuda, e la regola dell’AP era di non mostrare una giovane ragazza nuda, specialmente se in pubertà».

«Quell’editor, Carl Robinson, temendo che la foto fosse troppo rischiosa e non sarebbe passata per l’ufficio di New York, suggerì altre foto, tutte valide ma che si limitavano a ruotare intorno al soggetto».

L’istinto di Faas per le fotografie da premio era acuto. Si attribuiva il merito di aver formato Malcolm Browne, che nel 1963 fotografò il monaco buddista che si auto-immolava, e, nel 1968, aveva scelto la fotografia di Eddie Adams che ritraeva il generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan mentre eseguiva un prigioniero Viet Cong. Ha vinto il suo primo Pulitzer per la fotografia dal Vietnam nel 1965 e il secondo dal Bangladesh nel 1972.

Faas è l’unica persona che sa perché avrebbe detto a Robinson di cambiare il nome da Nguyễn Thành Nghệ a Nick Út. Ma Faas è morto. Quindi cosa avrebbe potuto motivarlo? Sappiamo che la decisione fu presa rapidamente. Il film non poteva essere rimasto in redazione per più di tre ore, e Faas era a pranzo per parte di quel tempo, quindi forse non ci pensò troppo; forse fu un gesto impulsivo. Non avrebbe avuto alcuna lealtà verso il freelance Nghệ, che non aveva mai incontrato, e Nghệ dice di non aver mai venduto un’immagine all’AP prima di quel giorno. Faas, tuttavia, era leale verso Út, giovane staffer che aveva guidato dopo che il fratello di Út, Huỳnh Thanh Mỹ, era stato ucciso mentre lavorava per l’AP alcuni anni prima. Dare quell’immagine a Út non avrebbe compensato la morte del fratello, ma è possibile che Faas pensasse che ciò avrebbe reso Út più sicuro all’AP?

Come racconta Hal Buell, direttore della fotografia dell’AP, in From Hell to Hollywood, un libro del 2021 su Út, Faas aveva già inviato un messaggio a New York segnalando l’idea che quella foto sarebbe stata «un’icona per tutti i tempi». Sapeva che aveva il potenziale per vincere premi, e i premi — come essere feriti in azione — accrescono la reputazione di un giornalista. C’era un’altra considerazione: Faas, insieme ad Arnett, Mort Rosenblum e Jackson, era stato mandato a Saigon per supportare la redazione perché — secondo Robinson — l’AP stava “perdendo terreno” rispetto a UPI. Non era il momento per trasmettere un’“icona per tutti i tempi” con la didascalia di un freelance, sottolineando che lo staffer dell’AP aveva perso la foto. Questo avrebbe potuto segnalare a New York che la redazione aveva fallito. Faas non era abituato al fallimento.

Tim Page mi aveva detto una volta che Faas metteva il suo nome sul lavoro dei fotografi vietnamiti e se ne attribuiva il merito come proprio. Page era uno dei miei mentori, e la sua parola contava per me. Non era la prima volta che sentivo una storia del genere da un fotografo su un altro; la professione — come molte altre — non è immune dalla gelosia.

Tuttavia, sebbene a me non fosse mai capitato di subire una tale attribuzione errata, avevo visto accadere lo stesso ad altri giovani fotografi, specialmente locali, mentre costruivo la mia carriera, e l’accusa non sembrava implausibile. A un incontro nel giugno 2024, la vedova del fotografo francese Michel Laurent mi aveva detto che suo marito aveva lasciato l’AP per l’agenzia francese Gamma dopo che Faas aveva trasmesso immagini dal Bangladesh nel 1972 co-firmate con il suo nome e quello di Laurent. Le fotografie vinsero il Pulitzer, con entrambi i nomi. Lei mi assicurò che le foto erano al 100% di Laurent (il Pulitzer ha detto a Rolling Stone US: «È la prima volta che sentiamo parlare» di un’accusa del genere).

Faas aveva forse sviluppato la tendenza a giustificare occasionalmente la modifica del credito sulle fotografie in quasi un decennio di guerra? Questo spiegherebbe come avrebbe potuto prendere qualcosa da un freelance che non conosceva, dando all’AP e al fratello minore del suo collega morto il merito, e nel contempo accrescere la propria posizione all’interno dell’agenzia?

Kim Phúc e Út nel 2022. Foto: AFP/Getty Images

Potremmo non sapere mai perché a Nick Út sia stato apparentemente dato qualcosa che non aveva mai chiesto. Ma sappiamo che innumerevoli fotografi e reporter vietnamiti lavorarono nell’anonimato durante la guerra del Vietnam, non per scelta ma perché il loro lavoro non veniva affatto accreditato, o veniva attribuito ad altri. Ancora oggi, dozzine di fotografi, cameramen e reporter vietnamiti talentuosi e coraggiosi restano sconosciuti e non riconosciuti per il brillante lavoro che hanno prodotto. Accettarono quello status quo perché non avevano scelta. La politica razziale e del potere, e la soffocante presenza dell’esercito statunitense, significavano che erano estranei nel loro stesso Paese; sapevano che nessuno li avrebbe ascoltati, perché non erano pari. Alcuni di loro ancora oggi non si sentono sicuri nel parlare.

Tra quegli estranei c’è l’ultima persona che siamo riusciti a rintracciare dalla versione completa della fotografia di Kim Phúc che l’AP aveva diffuso nel mondo. Un fotografo vietnamita, scattò foto ai bambini mentre attraversavano il campo verso la strada, ma poi esaurì il rullino. Spesso confuso da Fox Butterfield e altri con David Burnett nella famosa fotografia, si può vederlo a destra, con un casco, che riavvolge urgentemente la macchina. Il suo nome è Hoàng Văn Danh, un freelance che vendeva foto a UPI, principale concorrente dell’AP.

Nel settembre 2024, dopo tutte le nostre email con Carl Robinson, dopo tutte le interviste, dopo aver incontrato Nghệ, dopo l’indagine forense di Index, abbiamo incontrato Văn Danh. Gli abbiamo mostrato la fotografia e chiesto se ricordava Nick Út accanto a lui. «Nick? No, no, no», rispose con decisione. «Non c’era, era molto indietro».

Tra coloro che avevano conoscenze dirette di quel giorno, il cognato di Nghệ, l’ingegnere del suono della NBC Trần Văn Thân, che stava accanto a Nghệ quando fu scattata la fotografia, fu uno dei più turbati dall’andamento degli eventi. Thân dice di aver venduto quelle immagini per conto di Nghệ all’AP, ma la sua testimonianza non era mai entrata nel registro pubblico (in effetti, si era allontanato da Nghệ dopo che quest’ultimo si era separato dalla sorella di Thân). La lettera che ci scrisse nell’autunno 2024 con i dettagli di quel giorno si conclude come un lamento:

Anche se [sono] rimasto in silenzio, non potevo dimenticare quell’episodio. Fino a oggi, più di mezzo secolo dopo, questo episodio rimane amaramente nel mio cuore. È la verità, perché nasconderla?

Non ho mai pronunciato questa verità ad alta voce. La mia anima è ancora turbata, inquieta, perché sento di essere qualcuno che ha nascosto la verità!

Oggi sto raccontando questa verità. Ho visto con i miei occhi Nguyễn Thành Nghệ scattare la foto della bambina bruciata.

Dopo decenni, Trần Văn Thân ha liberato il suo peso: «Sto scrivendo queste parole, ricordando e pronunciando una verità che ha gravato sul mio cuore per oltre mezzo secolo».

Ho chiesto a Nghệ come si fosse sentito quando ha saputo che il suo nome potrebbe essere stato deliberatamente rimosso dalla fotografia. Ha risposto: «Sono solo triste, senza sapere cosa fare. La mia vita non è pari alla loro, quindi ho perso, non c’è più nulla che possa fare».

Da quando The Stringer ha debuttato al Sundance a gennaio, alcuni giornalisti hanno suggerito che questa storia non avrebbe dovuto essere raccontata; sostengono che, in questo momento in cui il giornalismo è così brutalmente minato dalle stesse forze che cerca di rendere responsabili, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sia rivelare i nostri stessi fallimenti. Ma il giornalismo è essenziale per la democrazia, ed è nell’interesse sia della stampa sia del pubblico riparare la fiducia nel Quarto Potere. Questo non può avvenire se scegliamo di ignorare le accuse di cattiva condotta nella nostra stessa professione. Il passare del tempo può aumentare l’angoscia dell’autoesame, ma la ricerca della verità vale sempre il costo.

Da Rolling Stone US

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