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Cosa resta di Napoli e dell’Eurovision

Il dibattito politico langue e gli stereotipi trionfano: per uscire dalla retorica e tornare nel mondo, dovremmo essere tutti un po' hackerati. Come cantava Springsteen: "Ain't gonna play Sun City"
eden golan eurovision

Foto: Eurovision press

Giovanni Robertini: Hai visto Il Segreto di Liberato? La parte “pezzotto” di Miyazaki mi è piaciuta, soprattutto l’idea del manga e del romance come mezzo per raccontare Napoli. E pure lo spaesamento finale di Liberato che, dopo il successo delle tre date a piazza Plebiscito e del terzo scudetto, non riconosce più la sua città perché questa volta è lei a mettersi la maschera: dove andava a comprare il fumo ora ci sono solo posti che fanno lo spritz e la “Neapolitan Basso Experience” è puro burn-out da gentrificazione. Del resto in questo strano mash up tra documentario e finzione, vediamo i protagonisti fuggire a Londra o in Giappone, ascoltiamo le parole di colleghi milanesi che “inquadrano il fenomeno”, mentre gli amici della discografia militante romana costruiscono la cassa di risonanza mediatica. E a Napoli chi è rimasto senza mai uscire dal quartiere? Forse solo Geolier, con le migliaia di Sim che l’hanno televotato a Sanremo. La strada per il successo, in entrambi i casi, sembra protetta dall’anonimato: a chi il passamontagna e la sciarpa della curva B, a chi il televoto segreto. Già nel 1984 Steven Levy, in un libro pubblicato in Italia da Shake Edizioni, poneva la base dei principi dell’etica hacker: tra questi – oltre a “dubitare dell’autorità”, “promuovere il decentramento”, “creare arte con il computer” – c’era anche il “giudicare solo l’operato, senza badare ai falsi criteri di ceto, etnia o sesso”. Per sfuggire dalla condanna della retorica su Napoli (quella di Gomorra e Pulcinella) l’unico modo è stato quello di hackerarla.

Alberto Piccinini: Ma infatti. Se metti “casa di povera nonna ai Quartieri” su AirBnB, be’, come hackeraggio non c’è male, nascondersi significa anche sparire no? Adesso ho un’improvvisa visione di Liberato e del fantastico team visual di Francesco Lettieri – loro hanno rifatto l’immagine della Nuova Napoli molto più di Paolo Sorrentino, quasi come Osimhen per dire – un po’ come dei fotografi di matrimonio, di interni per cataloghi immobiliari online, panorami da guide turistiche. Tutte quelle immagini che rubano l’anima, la risucchiano, la tritano e addio, non rimane più niente. Napoli sparita. Difatti hai visto dove ha girato l’ultimo videoclip Geolier, El pibe de oro? A Dubai, in Lamborghini per le strade tipo Disneyland e su una moto d’acqua con sfondo di grattacieli esagerati. «Mi addormento a Napoli sul diretto/ la città dove vado nemmeno so il nome», canta lui. È il sogno di uno che vive in periferia, senza nostalgia per i centri storici, i ninnoli, i monacielli, i presepi, la dea Partenope. Probabilmente un latitante. Alla fine le canzoni d’amore di Liberato sono il prodotto estremo della vecchia Napoli borghese, Bixio-Cherubini, di Giacomo-Murolo, roba così, e un po’ il documentario lo spiega. La modernità di Geolier da questo punto di vista è fuori discussione. Facci caso: lui non si diverte mai, sempre attraversato da un’ombra di malinconia. Malinconia di classe, presumo.

GR: Ma è anche una malinconia blu, roba di spleen e gioventù. Non come quella di chi affaccia oggi alla finestra dopo anni e vede che tutto è cambiato, tipo gli Articolo 31. Ho ascoltato il nuovo disco Protomaranza, incuriosito dal titolo cugino di Boomer Gang, e per fortuna la percentuale nostalgia è bassa, passa soprattutto attraverso i beat hip-hop un po’ Ninenties. Per il resto è ironica malinconia parente della più contemporanea stand up («Mi va bene se tu non ti radi l’ascella per essere cool nelle foto al Coachella») e lontana anni luce dal pianeta trap, senza nessuna intenzione di mettersi all’inseguimento. Però rimane il dubbio che dietro al sarcasmo di un pezzo come Mi rompo i coglioni (che riprende insieme a Bugo una sua vecchia hit) ci sia una scia chimica di giudizio morale e politico su vecchie e nuove generazioni, un’aria di “si stava meglio prima” che non ci possiamo più permettere. Anzi, oggi dobbiamo spegnere l’incendio dei falò nostalgici, mettere in stand by la nostra generazione di J Ax, Cortellesi e Morgan e girare le casse dello stereo verso la piazza con i ragazzi manganellati mentre cercano di raggiungere gli Stati Generali della Natalità, che guarda caso nelle manifestazioni sfilano al ritmo del rap anni Novanta. Sospendiamo i giudizi e accontentiamoci di essere ancora suonati nella playlist del presente.

AP: A proposito di rap anni ’90, noi siamo cresciuti ascoltando i Run Dmc e Springsteen a braccetto con Eddie Kendricks dei Temptation cantare: Ain’t gonna play Sun City. Ti ricordi? Sun City, la città dei divertimenti in Sud Africa dove ai tempi dell’Apartheid ti davano i soldoni per andarci a cantare, per bianchi soltanto. Per questo era importante boicottare, perché nessuna musica è innocente, in niente. Mi è rivenuta in mente Sun City e gli Artists United Against Apartheid (pezzone, tra parentesi) vedendo la rappresentante di Israele Eden Golan cantare Hurricane all’Eurovision l’altro giorno, con i fischi chiaramente cancellati dalla replica in streaming. E passi, le contestazioni fuori dal teatro ok, ma la notizia che il televoto italiano le avrebbe attribuito in semifinale un incredibile 39% non può passare inosservata. Quindi: quelli de Il Foglio più Sallusti e Parenzo, il clan dei bulli di Gaza insomma, hanno fatto colletta per comprare un pacchetto di televoti? Penso di sì, altrimenti non si spiega. Non ho altro da aggiungere: se l’Eurovision è il nostro Sun City, ain’t gonna play sun city, eccetera eccetera. Mi sfugge purtroppo chi potrebbero essere gli Artists Against di oggi. Ghali esce con Paprika, un pezzullo così-così con due curiosi ganci: il verso «puoi dirmi quello che vuoi/ non farò mai come la Rai», e l’altro verso «facciamo un bimba la chiamiamo Italia» che pure con tutte le buone intenzioni dello ius soli ricorda un vecchio Guzzanti/Venditti («se nasce una bambina noi/ la chiameremo Roma»), il tutto elaborato per un dibattito che ha i tempi di attenzione di TikTok, credo. Del trapper di Massafra Kid Yugi e della sua ansia da prestazione intellettuale invece ci eravamo stufati presto, mi sembra di ricordare. È uscito con il nuovo singolo 64 barre da censura, attualissimo il titolo, con citazioni di cinema serbo e Truffaut. Il verso politico eccolo qua: «la prima volta che ho votato mi hanno promesso 50 euro per mettere x su una lista/gli tolsi i 50 euro e sul foglio ho disegnato una minchia, lo rifarei per sempre solo per ripicca». Funzionerà? Ho i miei dubbi.

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